domenica 3 dicembre 2017

EZIO BOSSO ALLE OGR

Ieri sera ho avuto la fortuna di assistere ad un concerto di Ezio Bosso e della Stradivari Festival Orchestra. Era dal 2015, anno in cui l’ho sentito parlare e suonare al Festival di Sanremo, che cerco di assistere ad un suo concerto. Questa volta ci sono riuscita: felice, mi sono seduta ad aspettarlo nelle più antiche officine ferroviarie italiane dove venivano riparati i treni. Dove gli operai lavoravano ora ascoltiamo musica, visitiamo mostre, gustiamo aperitivi. Una trasformazione epocale visto che sempre di più sono i siti industriali che vengono recuperati a fini culturali. Dal 17.03.2011, inaugurazione della bella mostra Fare gli italiani, in occasione dei 150 anni dell’unità di Italia, a ieri sera, ho apprezzato i lavori di recupero dell'edificio
Due particolari: la prima foto è l'entrata dei bagni, la seconda sono le luci del ristorante








Due parole sul Maestro: bambino prodigio, impara prima a suonare e poi a leggere e a scrivere. Molto giovane diventa compositore, pianista e direttore d’orchestra. Nel 2011 viene operato al cervello per asportare una neoplasia e subito dopo viene colpito da una malattia autoimmune.
Ha dovuto rimparare a suonare e a parlare. Sono stati necessari molti anni per poter riprendere a comporre, a suonare e a dirigere.
il Maestro fatica a parlare, a camminare, ma quando appoggia le mani sulla tastiera succede una trasformazione e il suo corpo, percorso da spasmi mentre parla, diventa docile e il suono diventa pura poesia, entra nel cuore e trova casa.
I suoi suoni mi sono apparsi lievi, delicati, profondi, a volte struggenti.
Trasmette un grande amore per la musica e molto coraggio.
Al termine alza la bacchetta in alto, in direzione del cielo e ringrazia.
Io ringrazio lui per la sua musica, pura poesia e ti consiglio, lettore, lettrice, di ascoltare su YouTube qualche suo brano, perché non sono capace di descriverti le sue trascrizioni, come dice il Mastro, perché la musica è trascrizione dei suoni e tutti trascrivono,Tchaikovsky  ha trascritto Vivaldi, Bosso trascrive Bach e Tchaikovsky e via così. Arte che trascrive se stessa,  per chi sa farlo e il Maestro lo fa in modo poetico.




giovedì 30 novembre 2017

35° TORINO FILM FESTIVAL

35° TORINO FILM FESTIVAL
24.11 – 2.12.2017
Ogni anno aspetto questo evento. Ogni anno cerco il programma cartaceo, quello on-line non mi soddisfa, non si sottolinea, non si può commentare , mentre quello cartaceo lo sottolineo e lo coloro per evidenziare quei film che, dal breve sommario e dagli autori, mi pare possano meritare il mio tempo. Poi chiedo consigli. Ai miei amici che so che frequentano il TFF e leggo le recensioni. Sono molti i film e i doc in programmazione e indubbiamente c’è da perdersi.
Non si incontrano le star, non ci sono tappeti rossi. C’è tanta gente come me che ama molto la settima arte.
E poi, conquistati i biglietti, inizia la giornata. Giorni fa la mia è iniziata alle 9.45. Un orario in cui abitualmente si lavora. Come in un flash mi sono ricordata di quando, giovanissima, guardavo i film d’estate, i film al mattino su Rai 1. Non so se il mio ricordo sia corretto, quelli erano tempi di poche trasmissioni e di pochissimi canali. In ogni caso vedere un film al mattino era per me una cosa trasgressiva. Al mattino si studia o si lavora. Ecco, ho riprovato quel sensazione di trasgressione.
In una giornata ho vissuto tante storie, mi sono avvicinata a modi di sentire e di vivere diversi dai miei, ho letteralmente perso il contatto con la mia vita e la mia realtà, come quando leggo o ascolto la musica.
Questo dono, perché è un dono, uscire da sé per accogliere altre storie, comprendere che il mondo e l’umanità è molto vasta, questo dono va coltivato fin dalla tenera età. Ai miei ragazzi, ai miei figli e a tutti i ragazzi che ho incontrato nei miei anni di insegnamento, ho sempre detto che la cultura è la vera droga, quella che non solo non ci fa male, ma addirittura ci fa un gran bene. Prima di me lo disse William James, persona decisamente autorevole.
Il mio blog rappresenta il desiderio di continuare a consigliare di percorrere questa strada. Tutti sappiamo che l’attività sportiva produce endorfine e ci fa stare bene, tutti sappiamo che meditare ci fa stare bene, non tutti sanno che la visione di un film o la lettura di un libro o l’ascolto di una musica ci fa stare bene. Molto bene. Ancora di più se poi scopriamo il piacere di scrivere, il piacere di realizzare un doc o un corto o il piacere di suonare uno strumento.
In sala intorno a me quasi tutti si raccontavano i film già visti, si consigliavano, si davano appuntamento per i prossimi. Ho sentito giovani dire che  avrebbero visto 8 film in un giorno.
Io incontro sempre gli stessi amici, ogni anno, nelle sale.
I miei cinque film in due giorni impallidiscono al confronto con le maratone altrui. Vere e proprie ubriacature da parte di chi non è un critico cinematografico o comunque un addetto ai lavori.
Quando vivo questi eventi mi ricordo perché vivo in città, diversamente non riesco bene a capire cosa mi trattenga dal vivere altrove.
La città è questo, incontro di storie, luoghi di incontro, socializzazione, costruzione di senso, costruzione di valori.
Non che in mezzo alla natura non sia possibile, anzi, è la natura a darci il senso e il valore in sé e per sé, ma in mezzo alla natura si cammina, si nuota, si naviga, si scia, si scala, si va in bici, ma raramente si  crea cultura. Forse è questo l’errore, la scissione tra la città e ciò che c’è fuori dalla città. Sogno città sugli alberi, sogno città sull’acqua, sogno città vivibili, dove io non debba rinunciare a nessuno dei due elementi che connotano il ns essere, dove io non debba scegliere dove stare.
Ho visto Talien, se a te lettor* può interessare. Non sarà facile vederlo nelle sale cinematografiche e per questo lo segnalo con piacere.
Un giovane 33enne accompagna il padre, nativo del Marocco,  in Italia da 37 anni, nel viaggio di ritorno a casa, perché a casa si sta bene, perché è a casa che si deve tornare, nonostante la sua vita in Italia sia stata molto positiva. Durante il viaggio il padre racconta tutta la sua storia al figlio e, mentre racconta la vita di un immigrato e le sue vicissitudini, ci racconta un pezzo di storia dell’Italia.
L’Italia degli anni 80, anni in cui in alcuni luoghi la gente lasciava le chiavi fuori dalla porta di casa, italiani generosi che compravano con facilità i manufatti che il padre vendeva, un’Italia in cui i soldi c’erano e chi emigrava trovava lavoro facilmente. E così balza agli occhi  un’Italia che respinge i migranti e un’Italia che li accoglie, un’Italia ricca e una che si è impoverita. Lo sappiamo, certo, ma lui ce la racconta con semplicità, con il suo sguardo di migrante.
Una donna, la moglie, il cui arrivo in Italia e la conseguente solitudine l’ha condannata ad una lunga malattia, ad una tristezza profonda che oggi chiamiamo depressione, ma ieri era solo melanconia.
Il figlio invece è italiano, parla persino in dialetto,  ma non trova lavoro, è disoccupato, come tantissimi giovani e non sa più cosa fare. Ha 33 anni.
Un padre e un figlio, come tanti padri e tanti figli in Italia alle prese con un cambiamento epocale e disorientante.
Il giovane regista, Elia Mouatamid, che ha rappresentato la storia di suo padre era in sala, proprio dietro di me ed io, riconosciutolo, non ho potuto fare altro che complimentarmi, insieme a tutti i presenti.
 Secondo film: “Final Portrait” di Stanley Tucci.
Racconta la storia dell’elaborazione del ritratto dello scrittore James Lord da parte dello scultore e pittore Alberto Giacometti. Giacometti, rappresentato da Geoffrey Rush, è caotico, vulcanico, eternamente insoddisfatto delle sue opere. Lo scrittore, che avrebbe dovuto posare per poche ore, si ritrova a condividere la follia del genio e a posare per settimane intere prima di riuscire a ripartire. Uno spaccato molto interessante sulla fatica della creazione artistica. Ottimi dialoghi.
Segnalo un film che sarà sicuramente proiettato nelle sale cinematografiche: “Smetto quando voglio ad honorem”. Premetto che non ho  visto i due film precedenti del regista Sydney Sibilia, ammetto che questo film, nel quale recitano ottimi attori, tra cui Lo Cascio ed Edoardo Leo, mi ha divertito.
La banda dei ricercatori, professori universitari, le migliori menti, sono in prigione per un errore e evadono per sventare una strage all’Università La Sapienza di Roma con il gas nervino.
Segnalo “Amori che non sanno stare al mondo” di Francesca Comenicini.
La rappresentazione della fine di un grande amore, il tormento di una donna che non vuole che l’amore finisca e che continua a tenere in vita il ricordo dell’amore fino al giorno in cui una giovane studentessa l’aiuterà a capire che può vivere da sola. Ottima l’interpretazione dell’attrice Lucia Mascino innamorata di un algido Thomas Trabacchi.
E per finire ho visto Tito e gli alieni di Paola Randi. A me è parso  un modo delicato di trattare il tema del lutto in una finzione cinematografica in cui apparentemente si cercano i contatti con gli alieni nell’area 51.
Il festival continua, buona visione e buon divertimento.



martedì 28 novembre 2017

Libere ad altum: #quellavoltache

Posto con molto piacere queste riflessioni di mia sorella Annamaria Isastia in merito al coraggio che molte donne hanno avuto di denunciare quello che tutti sanno, che tutti sapevano e che tutti trovavano normale, nella natura delle cose, direi.

Denunciare dopo molti anni può significare molte cose, ma soprattutto che era terribilmente difficile raccontare, specialmente nell'ambiente del cinema.

E' vero, quasi tutte le donne hanno da raccontare episodi di molestie sessuali del proprio capo o di qualche collega.

Sì, speriamo che da oggi in poi le cose cambino davvero.





Libere ad altum: #quellavoltache: Ho appena finito di leggere i racconti scritti da Leda Muccini all’inizio degli anni Sessanta. Ero rimasta infastidita dall’insistenza su...

martedì 21 novembre 2017

LOVING VINCENT











Meraviglioso.
Eccezionale, inatteso. Questo è il mio giudizio sintetico sul lungometraggio “Loving Vincent”.
Un film che, grazie alla tecnologia, lascia che siano i dipinti di Van Gogh a raccontare la vita del grande Maestro.
125 artisti hanno dipinto, usando le opere del maestro e le sue pennellate, lo sfondo, gli ambienti, le persone che furono parte del mondo del grande pittore olandese.
Quei quadri, che molti di noi hanno avuto la fortuna di aver visto almeno una volta nel museo a lui dedicato ad Amsterdam oppure nei musei o mostre in giro per il mondo, quei quadri hanno preso vita, si sono animati e io, spettatrice, mi sono ritrovata immersa in quei colori di vita, nelle campagne, nei bar, nelle case che sono stato teatro della vita di Vincent.
Nei suoi quadri ci sono vita e poesia, di ciò non ho mai avuto alcun dubbio.
E tutto ha acquisito un nuovo significato. Non si sa  mai abbastanza su di noi stessi., figuriamoci sulla vita di un artista, per quanto famoso.
Non sapevo, per esempio, che lui fosse il primogenito ma non il primo figlio. Un altro Vincent era morto, prima della sua nascita e la madre non riusciva a dimenticare il grave lutto, facendo sentire il piccolo non accettato, non amato. Questo sentimento di non appartenere alla sua famiglia lo ha segnato per tutta la vita. Solo il fratello Theo lo ha aiutato a realizzare il suo sogno: dipingere.
Autodidatta, ha superato tutti i maestri dell’epoca ma ha avuto molto difficoltà economiche: in vita ha venduto un solo quadro.

Il film d’animazione, come in un giallo, si domanda se si sia veramente suicidato.
Molti gli elementi che farebbero propendere per l’ipotesi di omicidio.
Il film non risolve certamente il quesito, ma lo pone, a chi come me non aveva mai sospettato che esistesse.
Un film poetico e geniale come l’autore del quale narra la vita e le opere.
Da vedere, assolutamente.

https://www.youtube.com/watch?v=dYs_Kx-FuAw

venerdì 10 novembre 2017

SANGUE SPORCO








SANGUE SPORCO
Trasfusioni, errori e malasanità
Di Giovanni del Giaccio

Giovanni è un giornalista del Messaggero ma anche un vicino di casa, di quando torno ad annusare l’aria che profuma di pini mediterranei  e degli odori dei miei genitori.
Non sapevo che fosse un giornalista indipendente.
E’ stata una scoperta, casuale: quando ci si incontrava, si parlava di amministratore del condominio e di problemi legati alle spese comuni.
Poi facebook, come spesso accade di questi tempi, strani tempi, ti fa scoprire qualcosa in più delle persone che tu conosci poco. Ho scoperto che avrebbe presentato ad Anzio un suo libro inchiesta sulla malasanità, in particolare sugli errori commessi negli anni 80 sulle trasfusioni.
Ce ne sono pochi in Italia di giornalisti indipendenti, purtroppo e quei pochi faticano a farsi ascoltare, vengono facilmente esclusi.
 Solamente di pochi giorni fa è la notizia che la giornalista Milena Gabanelli,  stimata da molti italiani , ha dato le dimissioni dalla Rai per la chiara difficoltà di trovare una collocazione adeguato all’interno del palinsesto Rai.
Non solo ho letto il libro inchiesta di Del Giaccio, ma ora sono qui che scrivo sul mio blog delle storie, il mio piccolo spazio lanciato nella rete, il mio modo di contribuire, come so fare, affinché anche tu lettore venga a conoscenza di questa utilissima inchiesta.
Il libro può essere diviso in due parti: nella prima si ripercorre la storia generale delle trasfusioni di sangue e della legislazione in materia, nella seconda parte si possono leggere le storie di alcuni politrasfusi, le conseguenze nelle loro vite, la battaglia legale per avere un risarcimento dovuto.
Delle numerose storie raccolte da Giovanni ho scelto di raccontarvi brevemente quella di un cittadino torinese, purtroppo deceduto da poco, Presidente dell’Associazione politrasfusi italiani, Angelo Magrini, che ha trovato la forza di testimoniare e di aiutare altre persone. Magrini era nato emofilico, ma, a seguito di una trasfusione effettuata nel 1991 contrasse l’epatite C, successivamente si ammalò di un tumore al fegato. E’ stato salvato dai professori Salizzoni e Rizzetto e ha fatto “della sua malattia  e della battaglia per gli emofiliaci la sua ragione di vita”.
Le persone infettate dalla malasanità, ricorderete il processo Poggiolini, hanno visto la loro vita distrutta, mariti che scappano per paura del contagio, precauzioni in famiglia che rendono la vita difficile, mancanza di lavoro. Insomma, il danneggiato da trasfusioni infette, viene allontanato spesso dalla società e diventa due volte vittima del sistema.
Questa inchiesta ha il merito non solo di ricordarci un dramma, quello del sangue infetto in Italia, ma anche di segnalarci un problema odierno: quello dei nuovi farmaci in grado di contrastare l’epatite. Il Prof. Gasparrini afferma che siamo di fronte a una rivoluzione epocale, perché farmaci così innovativi arrivano una volta ogni trent’anni.
Ci sono le coperture finanziarie adeguate e esistono azioni di screening e di censimento dei pazienti?
Con questa domanda lascio a te lettore/lettrice il compito di documentarti, perché la democrazia è reale quando il cittadino si documenta e interroga la politica e chiede, a chi decide, di orientare le scelte verso il bene comune e sicuramente debellare l’epatite C ha un costo immediato ma fortissimi risparmi sociali e personali nel tempo.
Grazie Giovanni.



domenica 29 ottobre 2017

IL SECCHIO D'ACQUA




Cara amica e amico lettore,
oggi potrei raccontarti di alcuni libri letti durante il mese o di qualche spettacolo teatrale, invece  ti parlo delle amate montagne e degli incendi che le stanno spogliando.
Non posso farne a meno.
Non userò foto per colpire la tua sensibilità, so che se stai leggendo è perché sei molto sensibile, so che mi aiuterai.
Sono a Pian dell’Alpe, nei pressi del Colle delle Finestre, nel Parco Orsiera Rocciavrè, al confine tra la Val di Susa e la Val Chisone.
E’ il 29 ottobre 2017,  sono circa le ore 12,  ora solare, a 2000 mt ci sono 16 gradi e molto vento. Troppo per una giornata di incendi. Troppo per fine ottobre.
A volte non ci sono in agosto, sulle Alpi, 16 gradi, a volte in piena estate si è felici se si arriva a 20 gradi. A volte, appena il sole tramonta, bisogna riscaldare le case e indossare le giacche a vento per uscire. Succede d’estate, mentre altri boccheggiano in città ed altri ancora nuotano nel mare.
Ora siamo a fine ottobre. Normalmente a fine ottobre il freddo, la pioggia, a volte la neve sono già abbondantemente arrivati a queste altitudini alpine. Si cammina nei boschi in mezzo al fango, alcuni in cerca di funghi, altri in cerca di pace e bellezza.
Normalmente.
Di normale non c’è più nulla, abbiamo perso ogni certezza noi uomini che viviamo questo cambiamento epocale.
La terra trema, naturalmente e non, quando alcuni capi di Stato devono mostrare i muscoli,  l’aria impazzisce, accelera e vortica spazzando via paesi e uomini, il mare si gonfia e invade le terre, il permafrost si scioglie, terra per definizione ghiacciata perennemente, ma anche le parole hanno perso il significato, niente è perenne, il ghiaccio si scioglie e con lui i gas intrappolati, il fuoco, naturale e non, non si doma, l’acqua scarseggia, d’estate si muore letteralmente di caldo, gli animali muoiono, gli uomini soffrono e c’è ancora chi crede che i cambiamenti climatici non esistano, chi non provvede ad avviare politiche energetiche alternative mondiali, chi rimane indifferente a tutto ciò che accade.
Quando noi uomini chiederemo a gran voce un cambiamento?
Di cosa abbiamo paura? Più di così, oggi lì, domani qua….
Ed io? Cosa faccio io?  Io so scrivere, almeno credo e cerco di contribuire così.  Umilmente preferisco scrivere per spegnere incendi di fuoco e accendere gli animi di passione civica che provare a spegnere gli incendi con gli idranti.
Il problema è che mi conoscete solo voi, solo tu, lettore e sarebbe bene che altre penne si adoperassero alla causa, però penso che posso portare il mio umile secchio di acqua dove occorre, ora, non tirarmi indietro, se è questo che so fare.
Conosco la forza della parola, conosco il potere di cambiamento prodotto da autori che hanno saputo scuotere le coscienze.
La parola crea, ci credo fermamente e sono preoccupata dalla confusione linguistica di oggi, dove ogni parola assume significati diversi dalla sua origine e rappresenta altro da ciò che è stato per secoli.
Oggi, per esempio, ho scoperto che giocare ai videogiochi, seduti per ore, tesi  in uno sforzo mentale, è sport. Uno sport. Come correre, nuotare, sciare.
No, non ci sto, non importa che le pulsazioni cardiache siano paragonabili a quelle di un corridore, mentre ti stressi per vincere la competizione con il tuo amico virtuale.
No, non ci sto. Anche quando ballo, le pulsazioni del cuore sono accelerate o quando sono sottoposta ad esami, anche studiare richiede sforzo, ma di cosa stiamo parlando?
Lo sport fa bene, ossigena, ritempra, riguarda tutto il corpo, tanto che coloro che lo praticano in presenza di offese causate da traumi o malattie sono per me e per molti degli eroi.
Lo sport aiuta a socializzare, i videogiochi a chiudersi in casa con le persiane abbassate.
Lo sport unisce i popoli anche in tempo di guerra, alcuni videogiochi insegnano ad uccidere e a distruggere.
No, non ci sto.
Torno al punto, ma non ho deviato molto, ho solo ricordato che viviamo tempi di grande confusione e se tu giochi ai videogiochi non dispiacerti, ma per me non sei un tipo sportivo per questo e non pratichi uno sport come il tennis.
Invito altri a scrivere, ad urlare parole di fuoco capaci di infiammare gli animi di amore per la nostra amata Terra, l’unica casa che abbiamo e che stiamo demolendo, pezzettino dopo pezzettino, una diga di qua, un’autostrada di là, un campo di mais al posto del bosco, allevamenti intensivi, bistecche che valgono litri di acqua, quell’acqua che ora servirebbe qui….
Dobbiamo cambiare stile di vita.
E’ tempo di solidarietà universale, è tempo di mettere le energie al servizio della vita, di trovare soluzioni, di preparare piani, di insegnare alla popolazione a sopravvivere ai cataclismi che via via si presentano, ora qui ora lì, di insegnare che cambiare si può, piano piano, tutti, proprio tutti.
Perché la parola cataclisma è sulla bocca di ogni scienziato, di ogni ricercatore, ma nessuno fa nulla per impedire che accada.

Osservo il cielo a 2000 mt e come sempre  è solcato da aerei internazionali che, di solito lasciano scie bianche di gas.
Oggi le scie sono grigie, come grigio è il cielo, non nuvoloso, grigio di fumo che sale dalla val di Susa e  dal vallone di Bourcet, luoghi dove non si riesce a domare le fiamme. Verso la Francia il cielo è azzurro. Il sole appare proprio come a Torino, una luna in pieno giorno, anche qui, dove l’azzurro è azzurro, il verde è verde, il sole è sole ed è bene proteggersi occhi e pelle. Oggi dovremmo proteggere i polmoni e il cervello, ma dov’è l’ossigeno?
Sono perplessa : l’aria non profuma e questo non è mai capitato.
Vivo  in un luogo dove l’aria quasi sempre puzza, raramente odora di tiglio o di foglie, quando succede è una festa dei sensi e del cuore, ma qui, sulle care Alpi, baluardo e rifugio di chi scappa dall’inquinamento delle città, qui dove i profili delle montagne ricamano il cielo, qui ho sempre respirato odori antichi.
Oggi no, anche qui è come in città.
Le parole di Mac Carthy nel libro “La strada” risuonano prepotenti dentro di me, padre e figlio, un padre e un figlio camminano per giorni, mesi, anni verso il Sud, verso il mare, in mezzo alla desolazione assoluta di una terra incenerita, arida, infruttuosa, disabitata, morta, popolata da pochissimi malvagi sopravvissuti.
Manca l’acqua, la terra è dura in profondità, assetata come assetati sono animali e alberi, manca l’acqua nei luoghi dove è sempre piovuto, persino d’estate nel bel mezzo di una bella giornata, in primavera e in autunno, lasciando la neve all’inverno. L’acqua non è mai mancata, a volte è stata troppa, ha allagato, invaso, ucciso.
Tutto questo sta avvenendo oggi e non domani, come ci dicono che avverrà.
Oggi.
Il fuoco è sparso in tutto il Piemonte, dal canavese alla val Germanasca, dalla Val di Susa alla val Chisone fino alle valli di Cuneo, se sono ben informata, perché devo leggere fb per sapere.
Il tg 1 oggi ha parlato solo della Val di Susa.
Soffro pensando a quanti alberi siano  cenere,  a quanti animali stiano morendo, a quanti danni presenti e futuri minuto dopo minuto si stiano sommando in un conteggio folle, impazzito che ha già percorso questa estate  tutta la nostra Penisola fino alle Isole Maggiori e poi si è espanso in Portogallo e in California e poi ancora dove la follia umana vive, ovvero ovunque.
Patrimonio boschivo in cenere, ovvero aria, ossigeno, bellezza, radici che trattengono l’acqua. Dopo il nulla.
Non so se siano incendi dolosi, so che la terra se fosse bagnata non permetterebbe al fuoco di espandersi.
Non so se siano incendi dolosi, so che vorrei più interesse verso quello che sta succedendo in molti luoghi boschivi del Piemonte.
Non so se siano incendi dolosi, penso che ora sia il momento di agire e vigilare, dopo di giudicare e punire di un gravissimo crimine verso la natura e quindi verso tutta l’umanità.
Io umilmente chiedo a chi è famoso di scrivere, di usare la pacifica penna per sensibilizzare e a te di credere che cambiare sia possibile, anzi che cambiare sia necessario, sia urgente. Di trovare il tuo secchio di acqua.
Ognuno ha il suo.




giovedì 5 ottobre 2017

HUMAN FLOW



Il documentario Human flow è stato presentato alla 74° mostra del cinema di Venezia ed è stato proiettato in via eccezionale nelle sale cinematografiche italiane in questi primi giorni di ottobre.
Due ore di immagini e parole che illustrano chiaramente la fatica, la delusione se non la disperazione di coloro che, scappando dalla guerra o dalla fame, vengono fermati da muri e fili spinati nel loro viaggio verso una vita migliore o vengono rinchiusi in campi profughi dove vivono aspettando. Pochi ce la fanno.
La dimensione dell'attesa in luoghi che io fatico a definire tali, tanto sono anonimi e spersonalizzanti, rende l'impotenza di persone che non possono tornare a casa e non possono raggiungere il luogo dove provare a cambiare in meglio la loro vita.
Foto aeree che mostrano campi profughi immensi in zone aride e desertiche, ai confini degli stati, dove un marea umana vive, dove i bambini giocano nonostante tutto, dove chi aveva qualcosa non ha più nulla.
Il regista Ai Weiwei, vittima del regime politico cinese, imprigionato per le sue idee, ha viaggiato con la sue troupe per un anno in 23 Paesi.
Il suo è un atto di accusa senza attenuanti. L'Europa, che in realtà, rispetto all'Africa e all'Asia, accoglie un minor numero di profughi, l'Europa, esempio di democrazia e di libertà per tutto il mondo, non riesce a rispettare i princìpi che ha dichiarato con forza e determinazione alla fine della Seconda Guerra Mondiale nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo. L'Europa ha alzato muri e barriere, non riesce a trovare una soluzione condivisa al problema immane dell'emigrazione.
Il regista afferma che sono 65 milioni i profughi nel mondo. Non ricordo se abbia specificato l'arco di tempo, ipotizzo negli ultimi anni.
La cifra è spaventosa, 65 milioni di esseri umani che hanno abbandonato per disperazione la propria casa, i propri cari, per attraversare mille difficoltà e paure.
Viaggiamo dalla Grecia alla Francia di Calais, dalla Giordania che accoglie un milione e trecentomila profughi, al campo profughi più grande del mondo, Dadaab, in Kenia, per scoprire l'Africa che accoglie, ci spostiamo in Pakistan dove gli afghani ripartono per tornare a casa e non trovano più le case e i villaggi dai quali erano partiti molti anni prima e poi ancora siamo a Mosul e contempliamo annichiliti il cielo nero di fumo dei pozzi di petrolio bruciati dall'Isis.
E' un mondo che non vuole affrontare e risolvere i problemi alla radice il mondo che il regista ci mostra con sapienza attraverso le immagini, spesso in evidente contrasto, tra i luoghi verdi e ridenti e i luoghi aridi e desertici.
Non è utile a nessuno che l'uomo si comporti come lo struzzo.
Spero che presto il documentario sia nelle sale cinematografiche e venga visto e commentato come merita.
Un ottimo lavoro di analisi e sintesi, un atto di accusa alla nostra cecità.



martedì 3 ottobre 2017

Giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione

Cara, caro lettrice/lettore, non posso non scriverti oggi, giornata nazionale in memoria delle vittime dell'immigrazione, 3 ottobre.
Dov'ero quattro anni fa? A scuola, a Torino, in classe, con i miei ragazzi e mi ricordo bene di aver parlato a lungo con loro della tragedia accaduta nelle acque del mare nostrum, nell'isola baluardo d' Europa, la bella e solidale Lampedusa.
Oggi sono qui, guardo sfilare al Tg i volti di coloro che noi riteniamo abbiano potere di governare i problemi sociali, che gettano corone in mare, ascoltano i sopravvissuti, dicono “mai più”, ma tutti sappiamo che non è vero, che gli uomini continueranno a morire nei viaggi della speranza.
Lascio allora la parola a chi solo sa dare voce al dolore di milioni di profughi di ieri e di oggi, sa toccare corde profonde, sa addolcire il cuore di chi davanti all'esodo biblico si chiede dove andremo a finire, che bisogna fermarli in ogni modo. J. Steinbeck nel 1939 con Furore seppe trovare le parole giuste per descrivere la povertà degli statunitensi che dall'Est si trasferirono lungo la Route 66 verso la California nel periodo della grande Depressione, quando la siccità e le tempeste di polvere avevano reso sterile la terra.
Steinbeck racconta la storia della famiglia Joad e la loro partenza dall'Oklahoma verso la California. Lungo il viaggo alcuni di loro muoiono, altri abbandonano il gruppo, altri vengono uccisi. Alla fine del loro viaggio della speranza, nel momento in cui muore il piccolo portato in grembo dalla giovane donna del gruppo, la donna decide di allattare, lei che non ha più un bimbo da crescere, un uomo di cinquant'anni che sta letteralmente morendo di fame.
Con questa immagine negli occhi e nel cuore, che si somma a quella di Aylan sulla spiaggia di Bodrum, oggi celebriamo la giornata dell'umanità in cammino.
Ieri sera Baricco ha raccontato la storia di Furore in diretta tv sulla 3 da Mirafiori a tutti noi per ricordarci che le migrazioni per motivi economici sono sempre accadute e si sommano a quelle per motivi climatici o politici e che non è vero che siamo impreparati. E' sufficiente ricordare, è sufficiente pensare che siamo tutti in cammino.




sabato 9 settembre 2017

SE LA VITA CHE SALVI E’ LA TUA Fabio Geda




Andrea Luna.
Un nome e un cognome ripetuti più volte al gate del volo in partenza da New York.
Andrea non sente, non vuole sentire, non sa se vuole tornare a casa, in Italia da sua moglie, Agnese.
Dove stiamo andando Agnese? Una notte, una delle tante notti insonni che viveva da quando Agnese aveva abortito e tra di loro era cambiato tutto, quella notte il protagonista decide di partire per New York per recarsi al Metropolitan Museum, dove era stata appena inaugurata una mostra che gli avrebbe permesso di vedere le opere più importanti di Rembrandt.
Andrea, architetto, supplente di Storia dell’Arte e di Educazione Tecnica
ritorna con il pensiero al suo primo viaggio a N.York, subito dopo la laurea, ai suoi sogni e speranze e decide di partire.
Da questo momento Andrea vaga alla ricerca di sé, del senso dell’essere al mondo, alla ricerca della speranza di appartenere a qualcuno, sentimento che non prova da quando erano morti i suoi  genitori in un incidente stradale durante il suo primo anno di Università.
Si reca quotidianamente al Museum, incantato dal Figlio prodigo di Rembrandt.
Sarebbe dovuto rimanere una sola settimana, poi una seconda e una terza, ma i suoi viaggi verso l’aereoporto terminano con voli persi, telefonate alla moglie, alberghi sempre più modesti fino alla perdita di tutto, al ridursi povero, solo, malato, affamato, infreddolito, senza documenti, clandestino, sparito nel nulla, irrintracciabile, vaga per la metropoli tra mense per i poveri e precari tuguri, fino ad un incontro che lo salverà dalla sua voglia di autodistruggersi.
La libertà richiede coraggio.
C’è molto di più nel libro di Fabio Geda, scrittore che stimo molto per gli spunti su cui riflettere, per la profonda conoscenza dei sentimenti dei giovani alla ricerca di sé e per la fluidità della sua scrittura.
Te lo consiglio, lettore.




lunedì 4 settembre 2017

ANATOMIA DI UNA SCOMPARSA Hisham Matar




Dopo quindici giorni consecutivi (per me, per altri sono cento giorni) di cielo blu intenso, senza nuvole, di sole certo, a volte troppo insistente, prepotente, dal quale difendersi, oggi il cielo e l'aria regalano una tregua, la luce non sveglia all'alba, il calore non disturba, i colori sono tenui, la mente torna a desiderare altre storie da raccontare a te, cara amica e amico lettrice, lettore.







“Niente è più accettabile di ciò con cui si nasce”.
E’ ciò che comprende Nuri El Alfi,  nato da una madre infelice, protagonista del romanzo in oggetto.
Mi sento molto fortunata quando posso leggere in poche ore un libro nella sua interezza.
Il mondo accanto sparisce, risucchiata nella storia di un altro, vita che diventa la mia per qualche ora. Chi mi sta accanto diventa geloso della storia che si è impossessata di me e mi rende assente a lui e a chiunque mi parli, mi voglia distrarre. E’ inebriante vivere una vita intera in poche ore, un’altra vita, completamente diversa e lontana eppure vicinissima.
La vicinanza con la storia che sto per raccontarti, caro/a lettore, lettrice ritrovato/a, è tutta racchiusa per me in questa frase, “niente è più accettabile di ciò con cui si nasce”. Chi  di noi non ha sperimentato, compreso questa verità? Ciascuno di noi, calato dalla nascita in un contesto sociale, affettivo, culturale, può ambire a modificare il suo status sociale e culturale, ma, l’imprinting affettivo, i vuoti, le assenze, le porte chiuse o aperte, la sofferenza di un genitore, tutto questo e molto di più rimangono per sempre in noi, come un marchio di fabbrica, a cui cerchiamo per tutta la vita, a volte, di sfuggire, inutilmente.
L’infelicità, la tristezza profonda di una madre lasciano un solco nel cuore di un figlio.
Quando si diventa genitori si prova a modificare, a essere diversi per amore di una creatura che non ha colpe.
Nuri, orfano di madre, morta di morte sospetta, forse un suicidio, quando lui aveva solo dieci anni, vive all’ombra del padre, uomo misterioso, coraggioso e potente, in lotta contro il dittatore egiziano.
Due donne lo accompagnano nella sua crescita: la nutrice Naima, che lo cura con una dedizione e un affetto che fanno sospettare un altro ruolo e una giovane donna, Mona, di cui Nuri si innamora perdutamente, come solo un adolescente sa fare,   che sceglie di essere la seconda moglie di Kamal, il padre di Nuri.
Il nostro giovanissimo protagonista viene confinato in un college nella fredda Inghilterra.
Nuri mentre attende Kamal, per trascorrere insieme alla nuova coppia le vacanze invernali in Svizzera, scopre leggendo il quotidiano che il padre è stato rapito, è sparito, mentre era in compagnia di una donna, Beatrice.
La ricerca del padre rapito, già martire, permette a Nuri di scoprire la complicata vita di Kamal,  il profondo amore che il genitore provava per lui, pur vivendo una vita affettiva che Nuri ignorava del tutto.
Hisham Matar ci guida con delicatezza negli ambivalenti sentimenti di Nuri verso il padre, amato e rivale in amore. Da bambino ad uomo, orfano di due genitori scomparsi tragicamente, a cui rimane accanto solo la vecchia nutrice, che ha aspettato il suo ritorno al Cairo per dieci lunghi anni, Nuri, come tutti i figli orfani, indossa un abito paterno in attesa del  ritorno.
In questa immagine di un figlio che prova i vestiti del padre, che fruga nelle tasche, che cerca l’odore paterno, penso possiamo ritrovarci tutti noi orfani, che solo dopo la scomparsa di un genitore riusciamo a capirlo profondamente.



venerdì 11 agosto 2017

L'ARMINUTA E LA STRADA

L’Arminuta di Donatella di Pietrantonio

Abruzzo, Agosto  1975: la vita di una adolescente di 13 anni cambia per sempre.
Improvvisamente, dopo 13 anni trascorsi serenamente in una famiglia che credeva fosse la sua, accudita e amata, la ragazza viene inspiegabilmente restituita ai veri genitori, persone semplici e povere, ricche solo di figli.
Nel caos che la sconvolge si affeziona alla sorella, Adriana, con la quale condivide il letto, i giochi, i sogni.
La protagonista non ha un nome, per tutto il romanzo è l’Arminuta, la ritornata.
La giovane osserva, ascolta, pesa e soppesa ogni parola dei fratelli, ogni gesto di Adriana, dei nuovi genitori, spera in una telefonata, in una visita di colei che ha creduto essere sua madre, teme per la sua salute, la cerca, le scrive, l’aspetta.
Due madri: la prima, la madre naturale, ha abbondonato la bambina all’età di sei mesi, regalandola alla cugina che non diventava madre; la seconda cresce con amore la bimba fin quando non diventerà madre a sua volta e, senza alcuno scrupolo, restituisce la ragazza al mittente.
“In certe  ore tristi mi sentivo dimenticata….non c’era più ragione di esistere al mondo. Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua, l’altra mi aveva restituita a tredici anni….non sapevo più da chi provenivo. In fondo non lo so neanche adesso”.
Nonostante la sua sofferenza, studia, si distingue a scuola, per lei si aprono le porte del liceo grazie al sostegno economico della madre/zia, che in questo modo cerca di compensare il male commesso.
Il male, la perdita dell’amore materno, la non appartenenza a nessun nucleo familiare segnerà per sempre la protagonista:
Oggi davvero ignoro che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a guardarci dentro. …la sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie paure”.
Ho conosciuto giovani  abbandonati dalle loro madri e ho riconosciuto lo stesso straziante dolore, la stessa cieca speranza, lo stesso insistente bisogno.
Per la ritornata, la salvezza si chiama Adriana.
Un libro da leggere, senza dubbio.



 LA STRADA di Corman McCarty


Una strada, mille strade che portano a Sud, nel fango, nella cenere, nella neve, nei boschi inceneriti, nelle città incenerite, nella sabbia, tra cenere e grigio.
In due, un padre e un figlio, un uomo e un bambino con un carrello, alla ricerca di tutto ciò che possa servire loro a sopravvivere e ad andare verso il caldo.
L’uno il mondo intero dell’altro.
Non hanno un nome, sono l’uomo e il bambino, sempre, per tutto il racconto. La donna se n’è andata, di notte, tempo prima. Non voleva essere catturata e uccisa. Sapeva che sopravvivere era impossibile.
Un telo di plastica per proteggersi dalla pioggia, qualche coperta, cibi in scatola scaduti trovati qua e là frugando, entrando in case abbandonate, sfidando la sorte, la paura costante e continua di incontrare loro, i cattivi, quelli che sopravvivono mangiando gli altri esseri umani.
Sono sopravvissuti ad un cataclisma di cui non ci viene raccontato nulla, tranne le conseguenze: fumo, cielo oscurato, grigio, cenere, morte e desolazione ovunque.
Notti più buie del buio e giorni uno più grigio di quello appena passato.
Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa….
Le ceneri del mondo defunto trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti terreni”
La loro condanna è camminare sempre, evitare i pochi sopravvissuti che incontrano, cercare cibo disperatamente.
La fatica di vivere del protagonista del romanzo mi ricorda il vecchiarello di Leopardi, bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi avuti ed alta rena e fratte, al vento, alla tempesta…..corre, va, corre, anela……….cade, risorge, s’affretta senza posa, lacero, sanguinoso, infin ch’arriva…abisso orrido, immenso.
Leopardi non conosceva il pericolo del cataclisma atomico, a lui bastava raccontare la naturale vita degli esseri umani.
McCarthy aggiunge al dramma esistenziale di ogni essere umano, il dramma di un mondo svuotato, un andare senza meta e senza senso, senza alcuna speranza, rende la solitudine e l’inutilità di ogni gesto, eppure l’uomo continua, fino alla fine eroicamente a lottare per la sopravvivenza del figlio.
Un libro da leggere, senza alcun dubbio.

martedì 8 agosto 2017

IL TERZO TEMPO




L'ultimo  libro di Lidia Ravera è dedicato a tutte le donne e a tutti gli uomini che hanno paura di invecchiare, ma anche alle donne più libere e agli uomini più originali.
Ho iniziato a leggere il romanzo per curiosità, ho faticato a leggere i primi capitoli perché la storia mi appariva piuttosto banale: una docente universitaria in pensione, separata di fatto, riceve in eredità dal padre un convento a Civita di Bagnoreggio. Il padre inoltre, ex partigiano, le lascia una notevole eredità, frutto di giochi in Borsa. La donna decide di ristrutturare il convento e ospitare i compagni che nel 1978 vivevano in una comune con lei a Milano.
Man mano che leggevo, più che la storia in sé e per sé ho apprezzato alcune riflessioni sulla natura umana nelle varie epoche della vita.
In fondo, la storia di  Costanza, la protagonista,  donna eccentrica, come dice la sua amica Anna,  che vive ogni relazione affettiva in modo egoistico, si intreccia con quella di suo figlio Matteo e di una giovane inglese, Chelsie, bella, ragazza madre e povera.
La gioventù rievocata dalla protagonista confrontata con la vecchiaia e con la gioventù vissuta da Matteo e da Chelsie, sono i temi su cui Lidia Ravera ci invita a riflettere.
Il progetto della ristrutturazione del convento è al centro del libro e gli amici che dovrebbero abitare quel luogo possono essere solo coloro che hanno permesso a Costanza di uscire dalla “tana della famiglia”…che le hanno permesso di capire che “compiere quotidianamente il proprio dovere non è tutto….che esiste il piacere…che si può essere allegri”. Lei vuole ritrovare loro, quel gruppo di giovani rivoluzionari che le ha insegnato a vivere e invitarli a vivere la vecchiaia insieme. Il primo ex-compagno, Mauro, la delude al punto che Costanza decide di rinunciare al progetto. Comprende che la vecchiaia è il momento in cui la vita diventa povera: “di eventi, di rapporti, di illusioni”, che serve per disaffezionarci alla vita, diversamente l’idea di morire  ci sarebbe intollerabile.
Costanza decide di accettare qualsiasi invito fino alla sera in cui, priva di inviti, prova un penoso senso di non esistenza, il disagio di chi è costretto a cercare relazioni per non sentire il vuoto della sua esistenza.
Neanche la presenza dell’amato figlio, tornato dagli Usa, dopo essersi separato dalla moglie, riesce a colmare il vuoto.
Matteo, come tutti coloro che hanno “tutta la vita davanti, compaiono, scompaiono, piangono, ridono, si accoppiano, si parcheggiano nella tua vita per il tempo che serve e tu devi accoglierli, sfamarli, ospitarli. Ma non sei mai un interlocutore. Ti parlano solo se vogliono. Non rispondono alle tue domande. Non quando gliene poni, magari dopo, quando gli gira…”
In questo periodo così travagliato ad illuminarle l’esistenza c’è la giovane e bella Chelsie, che, venuta a conoscenza del progetto di Costanza, si adopera a cercare un’amica del vecchio gruppo, Anna.
L’incontro con Anna, malata terminale, modificherà radicalmente i piani e la storia. Costanza, aiutata da Anna, stabilisce i contatti con tutti gli ex amici e si adopera per l’amica fino a quando non scopre che il suo ex marito si è innamorato.
Per anni Dom silenziosamente l’ha sostenuta e protetta, ma lei se ne accorge nel momento in cui lui si innamora di un’altra donna. In quel momento capisce di amarlo ancora.
Ripercorre da sola un viaggio condiviso con la sua famiglia, il marito e il figlio, molti anni prima. Per compierlo, sparisce, lasciando il cellulare a casa. E’ sola e vuole trovare in sé la forza e il coraggio di proseguire e contemporaneamente vuole ricordare la sua giovinezza.
Ancora una volta Dom la troverà e la riporterà a Roma, da dove lei ripartirà per incontrare Anna nel suo addio al mondo, a Civita di Bagnoreggio, nel convento non ristrutturato, dove tutti gli amici si sono ritrovati, grazie a Dom,  sempre pronto a portare a termine i progetti di Costanza.
La storia forse non è particolarmente originale, ma interessanti sono le riflessioni che via via accompagnano questo viaggio verso la vecchiaia, i ricordi e il tentativo di distacco da tutto ciò che ti circonda. Simbolico è il luogo prescelto, Civita di Bagnoreggio, sospesa nel nulla e collegata da un ponte sulla terraferma.
Il terzo tempo della vita è un tempo sospeso tra ciò che sei stato fino ad ieri e il nulla.


venerdì 28 luglio 2017

SCRITTO MISTO

DUE DONNE SPECIALI al Festival Letterario “Scritto misto”

Chi osserva palazzi dei centri storici può osservare i segni perenni di battaglie del passato attraverso fori di proiettili o di cannoni.
A Torino, per esempio, in Piazza San Carlo, che solo a nominarla ormai mi vengono i brividi dopo i fatti del 3 giugno, un palazzo ha i segni del cannoneggiamento del 1706.
Ci sono persone che portano dentro di sé i segni della guerra, le violenze, le sofferenze, a volte portano dentro di sé delle pallottole, rimaste lì a ricordare sempre ciò che è la guerra, a volte i segni dell’odio dell’uomo che hanno amato.
Sabato  sera ho conosciuto a Laux, in occasione del Festival Letterario Scritto misto, una donna che porta dentro di sé un proiettile vero, mai estratto, che ancora non le permette di dormire per il dolore.
Il ricordo di ciò che accadde tanti anni fa è sempre con lei.
Una donna partigiana, una staffetta, come si usava dire, oppure oggi potremmo usare il termine di ufficiale di collegamento, perché queste donne coraggiose portavano in bicicletta ordini, armi, esplosivi, cibo, medicine a rischio della loro vita.
Maria Airaudo ha superato i 90 anni ma continua a testimoniare ovunque la chiamino, ai ragazzi nelle scuole oppure alle persone desiderose di ascoltare, come è successo sabato scorso nella splendida cornice del lago del Laux.
La testimonianza di Maria Airaudo ha tratteggiato un’epoca: le donne non avevano alcun diritto, lavoravano fino al momento del parto, così come una sua collega che partorì in fabbrica tra i telai e fu Maria, appena 13enne a tagliare il cordone ombelicale memore dell’esempio datole dal padre quando nacque un vitellino. Partorire in ospedale era un lusso in quegli anni, siccome la gravidanza non era una malattia, ingiustamente le donne non avevano diritto al ricovero gratuito, quindi preferivano partorire in casa, con tutte le conseguenze del caso.
Maria, seppure giovanissima, decise di aiutare questa mamma e lavorava anche per lei, facendo girare non 8 ma 16 telai. Si lavorava a cottimo e la mamma aveva bisogno di denaro per sostenere una numerosa famiglia con un capofamiglia dedito al bere.
Le donne della fabbrica scioperarono per ottenere diritti per la giovani mamme e ottennero una settimana di permesso dopo il parto. Una grande conquista in quegli anni in cui non esistevano i diritti e dovremmo ascoltare più spesso queste storie per evitare di vivere in un mondo in cui, mentre si discute di permessi per il padre, le madri, a causa del lavoro precario, rinnovato di mese in mese, non hanno più alcun diritto.
Le donne della sua fabbrica volevano pane e pace, quel po’ di pane a cui avevano diritto con la tessera non bastava. Avevano fame.
 Maria racconta l’eccidio di ventidue uomini a Bagnolo Piemonte il 30.12.1943. Questa tragedia le permise di scegliere la pericolOsa vita della staffetta partigiana.


Il sabato precedente ascoltai Lucia Annibali, che non vorrebbe essere ricordata come vittima della violenza cieca del suo ex fidanzato, ma che porta sul volto ancora molto bello i segni di quell’odio.
Una donna che, dopo aver lottato per sopravvivere  nel migliore dei modi, oggi è consulente presso il Ministero delle pari opportunità per aiutare tutte le altre donne che come lei soffrono e rischiano, affinché trovino aiuto, consiglio, protezione, lavoro, ciò di cui hanno bisogno per liberarsi dalla tirannia di un rapporto sbagliato.
Anche lei, vittima di violenza, ha usato solo parole di pace, parole di amore. Una sua riflessione in particolare desidero condividere: le donne che riescono a vivere questi rapporti estremamente difficili sono donne forti e non deboli, come si pensa normalmente. Un’indicazione per il futuro: concentrarsi sugli uomini maltrattanti. Credo che questo compito sia di tutti noi: ogni volta che sentiamo, vediamo maltrattare un’amica, una sorella, una madre, una figlia, pensiamo che noi possiamo e dobbiamo essere di aiuto.




Un particolare ringraziamento all’organizzatrice Deborah Severini, al Duo Battaglini che accompagna gli incontri con la musica e allo sponsor, l’albergo-ristorante Lago del Laux, per questi incontri con persone che ci aiutano a riflettere, a ricordare e poi a operare nel mondo in modo più consapevole.