domenica 18 marzo 2018

I MIEI PICCOLI DISPIACERI





Un famiglia dove si annida il seme della tristezza, della melanconia, anzi qualcosa di più, si annida il male di vivere che può portare al suicidio.
Una cittadina mennonita, Winnipeg, in Canada, dove i vecchi saggi erano contrari a molte cose, anche allo studio della musica.
Il primo a uccidersi è stato il padre, una morte atroce.
La figlia Elf è bella, intelligente, colta e una pianista eccezionale che regala commozione a coloro che l’ascoltano. Ha l’agenda piena di impegni in Europa, è amata da Nic, giovane ricercatore medico, eppure ripetutamente cerca la morte e chiede alla sorella di essere portata in Svizzera a morire.
Toccante il confronto con la sorella Yoli,  due figli da due padri, in via di divorzio, con un romanzo che sta scrivendo e il cui manoscritto gira con lei per ospedali dentro un sacchetto di plastica, lei, la più disordinata e apparentemente fallita, cerca disperatamente di tenere in vita l’amata sorella, con tutta la forza che possiede, coinvolgendo tutti,  cercando in ospedale un aiuto che non riceve fino al triste epilogo finale.
Il libro non termina con la fine di Elf, perché il messaggio non è la disperazione, bensì il contrario, un inno alla vita.
La madre di Elf e Yoli è una quercia, una donna piena di vita, attenta, accogliente, pronta a sopravvivere, “ sempre occupata a mettersi e a togliersi ingenuamente dai guai”, simpatica e paziente: lei è la speranza.
La vita, vista da Yoli, è un continuo dialogo con chi hai amato e che è sempre presente nelle piccole cose di ogni giorno, nei ricordi, nei sogni.
Un libro scritto da Miriam Towes, che ha saputo toccare temi difficili, quali l’eutanasia, la depressione, il suicidio, dopo aver vissuto personalmente il suicidio di suo padre e di sua sorella. E’ un libro che consiglio.



LA TERRA BUONA



Grazie alla segnalazione di una cara amica, ieri mi sono recata al  Reposi, unico cinema torinese che ha accettato di proiettare il film indipendente di un autore indipendente, insomma autoprodotto e autodistribuito.
Un rischio: nessun battage pubblicitario sulle reti televisive, il regista non si è recato da Fabio Fazio (almeno credo) a raccontare del suo film, non ci sono cartelloni, insomma  chissà se qualcuno sapendolo saprà scegliere di rischiare il costo di un biglietto e due ore di vita.
Il regista è Emanuele Caruso.
Il film racconta tre storie vere, quella di Mastro, di Gea e di padre Sergio, l’unico che ha conservato nel film il suo vero nome.
I tre protagonisti non si sono mai incontrati realmente nella vita, è il regista che, avendo conosciuto tutti e tre, cogliendo in tutti lo stesso anelito, la stessa ricerca, li fa incontrare nel film grazie ad un personaggio fittizio, Martino.
I luoghi, la Val Grande, un’oasi di 152 km quadrati di natura incontaminata e la Val Maira, in particolare Marmora sono il palcoscenico della storia, tra ruscelli, prati, ponticelli, foreste, terra, terra madre, terra che sana, che dà quel poco che occorre per vivere:
Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre” (Matteo, 6,26)
Ricorda Padre Sergio ai suoi ospiti, lui che ritiene che di Padre ce ne sia solo Uno.


Il film è un viaggio dentro noi stessi, alla ricerca del senso della vita, anzi di quel confine labile tra vita e morte, accompagnando Gea nella ricerca della guarigione da un cancro che non perdona, osservando Mastro, un ricercatore,  che vorrebbe curare riportando l’armonia nelle anime dei malati, contemplando Padre Sergio, ieratico e saggio nella sua biblioteca in mezzo ai monti in attesa degli illuminati per ricreare una nuova comunità Shangri-Là, comunità ideale descritta in Orizzonte perduto da James Hilton.
Nel cercare risposte alle domande della vita, Gea vorrebbe essere ancora figlia, anzi se potesse esprimere un desiderio con la sicurezza di essere esaudita, non chiederebbe la guarigione dal cancro mortale ma chiederebbe di essere figlia ancora per un’ora, solo per un’ora.
Segue poesia di Gabriele Corsi, Fammi essere figlio, recitata nel film:
Fammi essere ancora figlio.
Solo una volta. Una volta sola.
Poi ti lascio andare.
Ma per una volta, ancora, fammi sentire sicuro.
Proteggimi dal mondo.
Fammi dormire nel sedile dietro il tuo.
Guida tu. Che io sono triste e stanco.
Ho voglia che sia tu a guidarmi, papà.
Metti la musica che ti piace.
Che sarà quella che una volta cresciuto piacerà a me.
Fammi essere piccolo.
Pensa tu per me.
Decidi tu per me.
Mettimi la tua giacca, che a me sembra enorme, perché ho freddo.
Prendimi in braccio e portami a letto perché mi sono addormentato sul divano.
Raccontami storie.
E se sei stanco non farlo. Ma non te ne andare.
Ho voglia di rimanere figlio per sempre.
Abbracciami forte come dopo un gol.
Dormi ancora, come hai fatto, per una settimana su una sedia accanto al mio letto in ospedale.
Rassicurami.
Carezzami la testa.
Lo so che per tutti arriva il momento in cui devi fare da padre a tuo padre.
Ma io non voglio.
Non ora.
Voglio vederti come un gigante. Non come un uccellino.
Non andare, papà.
Ti prego.
Fammi essere ancora figlio.
Fammi essere per sempre tuo figlio.

                                                                                                              Gabriele Corsi


A mio parere è proprio il tema della paternità ad abbracciare il film, dal desiderio struggente di Gea di rivedere suo padre, al ricercatore che dispensa regole per una vita in armonia, a Padre Sergio, al Padre dei Padri, come dice Sergio, qui c’è solo un Padre.
Altro tema è quello del cambiamento: cambiare modo di vivere è possibile, come ha fatto Padre Sergio, eremita tra i monti della Val Maira, circondato da una natura incontaminata e una biblioteca di cui in questi giorni si parla sui giornali perché a rischio di andare persa, ora che Padre Sergio è morto e la biblioteca avrebbe bisogno di lavori di conservazione.
Bellezza, lentezza, cibi sani, operosità, aria buona, buone letture, questa è la via per la salute psicofisica.
Notevole la fotografia di C. De Giglio a tratti onirica, tra paesaggi incontaminati.
A me sono piaciuti i lunghi primi piani che indagano nell’animo umano e scavano dentro al tuo animo.
Il film sta girando l’Italia, piano piano toccherà tutte le città, lo consiglio, così come non vedo l'ora di visitare la biblioteca di padre Sergio.

sabato 10 marzo 2018

GLI ABBAINI




Preparare uno spettacolo è vivere una possibilità, una trasformazione, assistere ad un’apertura, ad un cambiamento, è prendersi cura di mille piccoli particolari, è costruire un puzzle, è vedere crescere giorno dopo giorno te stessa e chi ti è accanto fino all’incontro finale con gli altri, coloro che hai invitato tu personalmente e gli altri, coloro che non conosci e in quel momento la trasformazione si è completata, la magia sta accadendo, una fusione di cuori completa, un crescendo di intesa sottile, impalpabile, ma presente negli sguardi, nei sorrisi, negli applausi.

Ieri sera ho cantato ancora una volta con il mio gruppo vocale “Gli Abbaini” nell’auditorium “Orpheus” dell’Educatorio della Provvidenza di Torino.
I primi spettatori sono arrivati mentre noi ci esercitavamo, abbiamo chiuso il sipario per continuare inosservati e quando il sipario si è aperto, voilà, non solo la sala era piena di persone amiche sedute, ma la gente era in piedi, seduta per terra e la porta d’ingresso era aperta e gli amici erano anche fuori.
E’ salita sul palco Floriana, la nostra maestra e la magia è iniziata.
Ha iniziato ad aprirsi come un fiore, lentamente, sprigionando profumi e colori, vibrazioni positive come lei sa fare, parlando al pubblico e raccontando loro la genesi del nostro spettacolo, frutto di collaborazione e di decisioni prese insieme, sperimentando in ogni prova la faticosa arte della democrazia, del rispetto e dell’accoglienza.
Cantiamo la donna, quella che siamo, che siete, che tutti hanno almeno in parte dentro di sé, quella che vorremmo essere e che non vorremmo essere, quella che gli altri vorrebbero che fosse, con ironia, leggerezza e profondità.
Gli occhi di Floriana, lanterne luminose e le rughe, frutto dell’età, sono sparite magicamente in un sorriso radioso inviato al pubblico e a noi, le sue allieve quasi tutte attempate che ogni giovedì, anche se stanche, anche se fuori fa freddo e nevica, si presentano regolarmente nel suo cenacolo, bevono una tisana calda e iniziano a scaldarsi la voce, sapendo che troveranno in lei una persona capace di tirar fuori, anche quella sera storta, qualcosa di buono. Magia dell’essere non solo artisti, ma formatori di anime.
Dietro di noi scorrono le foto delle nostre eroine, donne che hanno dato molto a tutta l’umanità e lo spettacolo può iniziare.
Donna, cantiamo la donna.
Insieme a noi c’è Olivia,  con la sua voce calda e profonda, recita i nostri lamenti e i nostri sogni, le paure e i pregiudizi, in un crescendo di riflessioni, risate ed emozioni. Tutti gli spettatori si innamorano di lei: bisogna ascoltarla per capire quali emozioni riesca a tirar fuori da noi con la sua voce. Una grande attrice, una grande donna.
Lo spettacolo procede tra leggerezza e profondità, come un’onda, come la nostra vita.
Gli spettatori applaudono, noi siamo lì, sul palco, unite da un obiettivo comune, attente le une alle altre, sorridenti e felici, sì, felici, perché ha preso forma il lavoro di mesi ed è lì in quel momento, una piccola magia, un incontro di parole, musica, immagini, cuori, pensieri, visi, mani e percepisco un’unità, precaria, ma c’è, è possibile in una vita dissociata come quella dell’uomo contemporaneo, perennemente connesso al mondo e sconnesso da se stesso,  è possibile cantare in coro senza perdere se stessi, senza più sentire la propria voce, trasformata in un’altra voce, quella di tutte noi.
Nessuna è protagonista e tutte lo siamo. Un coro è una squadra, unita dall'obiettivo, consapevole che tutte le voci, tutte siano ugualmente importanti e che il successo di una sia il successo di tutte.
Cantanti e improvvisate attrici, ora con un ventaglio, ora con un costume, ora con un foulard, colori e simboli che evocano un mondo onirico.
Cantiamo la donna.
Il sipario cala, la magia è finita, lo spettacolo è stato un successo, siamo felici per noi e per l’associazione LVIA che ci ha invitato a cantare per sostenere i suoi progetti, per gli amici che sono venuti ad assistere.
Il fiore lentamente si chiude, ci dispiace allontanarci dal palco, decidere che lo spettacolo sia finito, ora torna nelle nostre vite a scorrere la vita vera, non sempre così colorata, profumata, allegra, ma dentro di ciascuna di noi rimane quel fiore e tutti quei profumi e colori.
Ieri sera il coro Gli Abbaini ha contribuito al sogno di un mondo migliore e questo è il regalo in assoluto più grande che ricevo dalla mia partecipazione.
A me resta poi, come a tutte noi , la gioia di abbracciare uno ad uno chi ci ha ascoltato, perché  questo fa bene al cuore.





lunedì 5 marzo 2018

IL PADRE

















L’opera di  August Strindberg  interpretata da un eccelso Gabriele Lavia, in cartellone in questi giorni al Teatro Stabile di Torino, dopo essere stato in programma al Quirino a Roma, interroga lo spettatore su temi universali, supera il suo tempo ed interroga anche noi uomini e donne del XXI° secolo.
La storia, apparentemente banale, si snoda nell’interno di una casa abitata da donne e da un unico uomo, padre, marito, capitano di cavalleria e si dipana intorno al conflitto tra donna e uomo per il potere sull’unica figlia.
 La scena, ricoperta da un velluto di color rosso sangue, rappresenta un salotto di una famiglia borghese.
 I protagonisti: due genitori alle prese con l’educazione della figlia. Lui la vorrebbe mandare a studiare in città, lontano dalle influenze della suocera superstiziosa e della mamma che la crede una novella “Michelangelo” , mentre la moglie vorrebbe trattenerla a casa.
La tragedia potrebbe sembrare datata: nel 1887 la donna è legalmente soggetta al marito per legge, lui la mantiene insieme alla figlia, è il suo dovere, è padre e marito, “lavora come uno schiavo bianco, condannato ai lavori forzati senza colpa”, per sostenerle ma ha per legge potere su di loro. Adolf si sente sfruttato da questa donna, ma accetta il suo fallimento matrimoniale per il bene della figlia. E’ padre. Questo ruolo dà senso alla sua vita.
Lei, apparentemente più debole, trama alle spalle del marito manipolando tutti coloro che lo avvicinano, alterando i fatti, tramando, intercettando la sua corrispondenza,  negandogli la possibilità di acquisire onore (oggi diremmo successo)dalla sua scoperta scientifica, alla quale si era dedicato con passione e genialità.
Il crollo psicologico del protagonista avviene quando la moglie insinua in lui il dubbio di non essere il padre di Berta, facendogli crollare l’unica certezza della vita, lui, uomo di scienza, ateo e razionale.
Non c’è modo nel 1887 per accertare la paternità, solo la madre è certa, lo dice anche Telemaco nell’Odissea, Libro I, versi 215,216.
Trascorrono due ore e mezza intense, in cui Gabriele Lavia è un mattatore, non mi distraggo un attimo, non mi perdo una parola del suo lungo ragionare, dubitare, soffrire, della violenza psicologica che subisce, di questa inversione di ruoli causata dalla perdita della certezza della sua paternità.
La figlia contesa è l’unico motivo di vita per entrambi. Lui cerca negli occhi della figlia il suo spirito, la madre l’abbraccia al momento della morte di lui dicendo: “ solo mia, solo mia, figlia mia”.
Adolf è consapevole della trama ordita e lucidamente impazzisce. E’ stato distrutto ed ucciso dalle donne della sua vita, compresa la sua tata, l’unica della quale si fidasse e che gli infila la camicia di forza. Da tata a strega. Muore, ucciso dal dolore.
Non posso, mentre assisto, non pensare ai femminicidi che si verificano ancora e ancora tra le mura domestiche, nelle coppie che non si amano più, dove l’uomo è violento, prepotente, geloso, alle molte donne uccise dagli uomini che non accettano di non essere più amati e che uccidono i figli, considerati proprietà, estensione di sé.
 Altri tempi, altre leggi, quelle in vigore nel 1887,  dalle quali le donne europee ed occidentali si sono affrancate lungo tutto il Novecento, trovando nello studio e nel lavoro fonti di riscatto e di sostentamento con conseguente indipendenza economica e familiare sancita da nuove leggi.
In realtà il dramma di Strindberg interroga ancora gli uomini e le donne di oggi, perché ciò che viene rappresentato sul palco è la lotta per il potere, che non ha età. Il potere che uccide psicologicamente in famiglia come nel luogo di lavoro, tra i politici come tra i volontari delle associazioni di volontariato. Il potere che logora tutti, sempre, anche nei rapporti più intimi e profondi.
Molti applausi, in particolare a Gabriele Lavia che appare raggiante per aver interpretato in modo sublime il ruolo del capitalo Adolf.
Molte donne intorno a me, molti commenti, molta amarezza per una umanità che non conosce pace.
Opera di un uomo tormentato e sofferente, che squarcia il velo dell’ipocrisia per delineare con crudezza quello che a volte sono i rapporti umani come alcuni anni dopo farà Pirandello.
Consiglio vivamente di assistere allo spettacolo.
Potete trovare ancora posto in “piccionaia” come mi ha detto l’hostess all’entrata, indicandomi poi i quattro piani di scale. All’arrivo in piccionaia, in questo luogo plebeo per nome e prezzo, faticavo a leggere i numeri sbiaditi applicati alle sedie, e non vi era nessuna signorina gentile con la  pila a guidarci, noi della piccionaia. Ci siamo aiutati tra noi.
Dall’alto però lo sguardo abbraccia tutto il palcoscenico, non sfugge nulla, mentre in platea, se ti capita  uno più alto di te, cosa per me molto facile, non vedi nulla. La voce arriva perfetta e si può godere anche la vista sullo splendido soffitto. Insomma, evviva la piccionaia.




venerdì 2 marzo 2018

DELLA STESSA SOSTANZA DELLE STELLE


Mentre scrivo alzo gli occhi dal monitor  e vedo  fiocchetti di neve nell’aria, leggeri, piccoli, agitati dal vento che danzano,  ora rallentano ora accelerano, ora scendono ora pare salgano, ora si incontrano, in realtà non si incontrano mai, uno per uno, sono tanti, tantissimi, piccoli, piccolissimi sono lì davanti a me , sospesi ed io so che la neve scende e poi si ferma e poi ghiaccia e poi si scioglie, di solito funziona così, da anni, da secoli, da millenni, ma nessuno sa cosa potrebbe accadere un giorno, potrebbe coprire tutto e tutti, forse.
Apro il quotidiano, leggo che il Capo di Stato russo ha l’arma invincibile. Non è bastata la I Guerra Mondiale, non è stata sufficiente la II Guerra Mondiale e i suoi 50 milioni di morti, 50.000.000 di esseri umani che sono morti nel mondo, in tutto il mondo e che provenivano da tutto il mondo, abbiamo  voluto l’ONU, inviato caschi blu ovunque i contendenti politici non trovavano il bandolo della matassa, abbiamo stilato accordi economici, creato Regioni economiche, Federazioni di Stati, l’Unione Europea,  inviato i nostri giovani in giro per il mondo perché scoprissero che siamo proprio tutti uguali, con gli stessi bisogni e sogni, abbiamo tutti freddo e fame, tutti bisogno di una carezza e di un abbraccio, proprio tutti, e oggi dobbiamo scoprire che non solo nel lontano Oriente c’è chi mostra i muscoli, ma anche in Europa.
Ora i fiocchi di neve ruotano vorticosamente, a momenti corrono giù all’impazzata, a momenti volano trasversalmente. Cercare un ordine è impossibile: guardarli stordisce, incanta, estrania, rilassa.
In Siria si continua ad uccidere. Nessun accordo, fino all’ultimo essere umano, fino all’ultima casa in piedi.
Tempo fa mi era parso di capire che la guerra fosse finita, mi ero sbagliata.
Ciascuno è artefice del proprio destino, affermava un console romano, Appio Claudio Cieco, nel 310 a.c.
Ma a volte anche di quello altrui. Chi di più chi di meno. Ma noi non siamo come la neve o forse sì, alla fine tutti noi ci posiamo nello stesso posto, al suolo.  Ci sciogliamo e torniamo a far parte del tutto. Se ci ricordassimo chi siamo veramente, fatti della stessa sostanza delle stelle, forse potremmo volare alto.
Potrei restare per ore a guardare la neve scendere, come coriandoli, sempre più piccola, più leggera.
La natura compensa i disastri, l’acqua spegne il fuoco, la neve custodisce i semi, ma noi uomini come possiamo compensare i danni, le minacce, le aggressioni?
Ricordo una storia che più o meno raccontava di un padre e di un figlio molto aggressivo. Il padre chiese al figlio di piantare un chiodo per ogni azione negativa. Quando il figlio riparava la sua azione, il chiodo veniva estratto dal legno della staccionata. Quando tutti i chiodi furono tolti, il legno rimase tutto bucato, ferito.