Grazie alla segnalazione di una cara amica, ieri mi sono
recata al Reposi, unico cinema torinese
che ha accettato di proiettare il film indipendente di un autore indipendente,
insomma autoprodotto e autodistribuito.
Un rischio: nessun battage pubblicitario sulle reti
televisive, il regista non si è recato da Fabio Fazio (almeno credo) a
raccontare del suo film, non ci sono cartelloni, insomma chissà se qualcuno sapendolo saprà scegliere
di rischiare il costo di un biglietto e due ore di vita.
Il regista è Emanuele Caruso.
Il film racconta tre storie vere, quella di Mastro, di Gea e
di padre Sergio, l’unico che ha conservato nel film il suo vero nome.
I tre protagonisti non si sono mai incontrati realmente nella
vita, è il regista che, avendo conosciuto tutti e tre, cogliendo in tutti lo stesso
anelito, la stessa ricerca, li fa incontrare nel film grazie ad un personaggio fittizio,
Martino.
I luoghi, la Val Grande, un’oasi di 152 km quadrati di natura
incontaminata e la Val Maira, in particolare Marmora sono il palcoscenico della
storia, tra ruscelli, prati, ponticelli, foreste, terra, terra madre, terra che
sana, che dà quel poco che occorre per vivere:
“Guardate gli uccelli
del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre
vostro celeste li nutre” (Matteo, 6,26)
Ricorda Padre Sergio ai
suoi ospiti, lui che ritiene che di Padre ce ne sia solo Uno.
Il film è un viaggio dentro noi stessi, alla ricerca del
senso della vita, anzi di quel confine labile tra vita e morte, accompagnando
Gea nella ricerca della guarigione da un cancro che non perdona, osservando
Mastro, un ricercatore, che vorrebbe
curare riportando l’armonia nelle anime dei malati, contemplando Padre Sergio,
ieratico e saggio nella sua biblioteca in mezzo ai monti in attesa degli
illuminati per ricreare una nuova comunità Shangri-Là, comunità ideale
descritta in Orizzonte perduto da James Hilton.
Nel cercare risposte alle domande della vita, Gea vorrebbe
essere ancora figlia, anzi se potesse esprimere un desiderio con la sicurezza
di essere esaudita, non chiederebbe la guarigione dal cancro mortale ma
chiederebbe di essere figlia ancora per un’ora, solo per un’ora.
Segue poesia di Gabriele Corsi, Fammi essere figlio, recitata
nel film:
Fammi essere ancora figlio.
Solo una volta. Una volta sola.
Poi ti lascio andare.
Ma per una volta, ancora, fammi sentire sicuro.
Proteggimi dal mondo.
Fammi dormire nel sedile dietro il tuo.
Guida tu. Che io sono triste e stanco.
Ho voglia che sia tu a guidarmi, papà.
Metti la musica che ti piace.
Che sarà quella che una volta cresciuto piacerà a me.
Fammi essere piccolo.
Pensa tu per me.
Decidi tu per me.
Mettimi la tua giacca, che a me sembra enorme, perché ho freddo.
Prendimi in braccio e portami a letto perché mi sono addormentato sul divano.
Raccontami storie.
E se sei stanco non farlo. Ma non te ne andare.
Ho voglia di rimanere figlio per sempre.
Abbracciami forte come dopo un gol.
Dormi ancora, come hai fatto, per una settimana su una sedia accanto al mio letto in ospedale.
Rassicurami.
Carezzami la testa.
Lo so che per tutti arriva il momento in cui devi fare da padre a tuo padre.
Ma io non voglio.
Non ora.
Voglio vederti come un gigante. Non come un uccellino.
Non andare, papà.
Ti prego.
Fammi essere ancora figlio.
Fammi essere per sempre tuo figlio.
Solo una volta. Una volta sola.
Poi ti lascio andare.
Ma per una volta, ancora, fammi sentire sicuro.
Proteggimi dal mondo.
Fammi dormire nel sedile dietro il tuo.
Guida tu. Che io sono triste e stanco.
Ho voglia che sia tu a guidarmi, papà.
Metti la musica che ti piace.
Che sarà quella che una volta cresciuto piacerà a me.
Fammi essere piccolo.
Pensa tu per me.
Decidi tu per me.
Mettimi la tua giacca, che a me sembra enorme, perché ho freddo.
Prendimi in braccio e portami a letto perché mi sono addormentato sul divano.
Raccontami storie.
E se sei stanco non farlo. Ma non te ne andare.
Ho voglia di rimanere figlio per sempre.
Abbracciami forte come dopo un gol.
Dormi ancora, come hai fatto, per una settimana su una sedia accanto al mio letto in ospedale.
Rassicurami.
Carezzami la testa.
Lo so che per tutti arriva il momento in cui devi fare da padre a tuo padre.
Ma io non voglio.
Non ora.
Voglio vederti come un gigante. Non come un uccellino.
Non andare, papà.
Ti prego.
Fammi essere ancora figlio.
Fammi essere per sempre tuo figlio.
Gabriele Corsi
A mio parere è proprio il tema della paternità ad abbracciare
il film, dal desiderio struggente di Gea di rivedere suo padre, al ricercatore
che dispensa regole per una vita in armonia, a Padre Sergio, al Padre dei
Padri, come dice Sergio, qui c’è solo un Padre.
Altro tema è quello del cambiamento: cambiare modo di vivere
è possibile, come ha fatto Padre Sergio, eremita tra i monti della Val Maira, circondato
da una natura incontaminata e una biblioteca di cui in questi giorni si parla
sui giornali perché a rischio di andare persa, ora che Padre Sergio è morto e
la biblioteca avrebbe bisogno di lavori di conservazione.
Bellezza, lentezza, cibi sani, operosità, aria buona, buone
letture, questa è la via per la salute psicofisica.
Notevole la fotografia di C. De Giglio a tratti onirica, tra
paesaggi incontaminati.
A me sono piaciuti i lunghi primi piani che indagano nell’animo
umano e scavano dentro al tuo animo.
Il film sta girando l’Italia, piano piano toccherà tutte le
città, lo consiglio, così come non vedo l'ora di visitare la biblioteca di padre Sergio.
Ah la Val Maira! La mia valle, piena di miracoli della natura, di misteri, di magia di violenze anche, di chiusure e di generosità. La valle della frema granda!
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