lunedì 5 marzo 2018

IL PADRE

















L’opera di  August Strindberg  interpretata da un eccelso Gabriele Lavia, in cartellone in questi giorni al Teatro Stabile di Torino, dopo essere stato in programma al Quirino a Roma, interroga lo spettatore su temi universali, supera il suo tempo ed interroga anche noi uomini e donne del XXI° secolo.
La storia, apparentemente banale, si snoda nell’interno di una casa abitata da donne e da un unico uomo, padre, marito, capitano di cavalleria e si dipana intorno al conflitto tra donna e uomo per il potere sull’unica figlia.
 La scena, ricoperta da un velluto di color rosso sangue, rappresenta un salotto di una famiglia borghese.
 I protagonisti: due genitori alle prese con l’educazione della figlia. Lui la vorrebbe mandare a studiare in città, lontano dalle influenze della suocera superstiziosa e della mamma che la crede una novella “Michelangelo” , mentre la moglie vorrebbe trattenerla a casa.
La tragedia potrebbe sembrare datata: nel 1887 la donna è legalmente soggetta al marito per legge, lui la mantiene insieme alla figlia, è il suo dovere, è padre e marito, “lavora come uno schiavo bianco, condannato ai lavori forzati senza colpa”, per sostenerle ma ha per legge potere su di loro. Adolf si sente sfruttato da questa donna, ma accetta il suo fallimento matrimoniale per il bene della figlia. E’ padre. Questo ruolo dà senso alla sua vita.
Lei, apparentemente più debole, trama alle spalle del marito manipolando tutti coloro che lo avvicinano, alterando i fatti, tramando, intercettando la sua corrispondenza,  negandogli la possibilità di acquisire onore (oggi diremmo successo)dalla sua scoperta scientifica, alla quale si era dedicato con passione e genialità.
Il crollo psicologico del protagonista avviene quando la moglie insinua in lui il dubbio di non essere il padre di Berta, facendogli crollare l’unica certezza della vita, lui, uomo di scienza, ateo e razionale.
Non c’è modo nel 1887 per accertare la paternità, solo la madre è certa, lo dice anche Telemaco nell’Odissea, Libro I, versi 215,216.
Trascorrono due ore e mezza intense, in cui Gabriele Lavia è un mattatore, non mi distraggo un attimo, non mi perdo una parola del suo lungo ragionare, dubitare, soffrire, della violenza psicologica che subisce, di questa inversione di ruoli causata dalla perdita della certezza della sua paternità.
La figlia contesa è l’unico motivo di vita per entrambi. Lui cerca negli occhi della figlia il suo spirito, la madre l’abbraccia al momento della morte di lui dicendo: “ solo mia, solo mia, figlia mia”.
Adolf è consapevole della trama ordita e lucidamente impazzisce. E’ stato distrutto ed ucciso dalle donne della sua vita, compresa la sua tata, l’unica della quale si fidasse e che gli infila la camicia di forza. Da tata a strega. Muore, ucciso dal dolore.
Non posso, mentre assisto, non pensare ai femminicidi che si verificano ancora e ancora tra le mura domestiche, nelle coppie che non si amano più, dove l’uomo è violento, prepotente, geloso, alle molte donne uccise dagli uomini che non accettano di non essere più amati e che uccidono i figli, considerati proprietà, estensione di sé.
 Altri tempi, altre leggi, quelle in vigore nel 1887,  dalle quali le donne europee ed occidentali si sono affrancate lungo tutto il Novecento, trovando nello studio e nel lavoro fonti di riscatto e di sostentamento con conseguente indipendenza economica e familiare sancita da nuove leggi.
In realtà il dramma di Strindberg interroga ancora gli uomini e le donne di oggi, perché ciò che viene rappresentato sul palco è la lotta per il potere, che non ha età. Il potere che uccide psicologicamente in famiglia come nel luogo di lavoro, tra i politici come tra i volontari delle associazioni di volontariato. Il potere che logora tutti, sempre, anche nei rapporti più intimi e profondi.
Molti applausi, in particolare a Gabriele Lavia che appare raggiante per aver interpretato in modo sublime il ruolo del capitalo Adolf.
Molte donne intorno a me, molti commenti, molta amarezza per una umanità che non conosce pace.
Opera di un uomo tormentato e sofferente, che squarcia il velo dell’ipocrisia per delineare con crudezza quello che a volte sono i rapporti umani come alcuni anni dopo farà Pirandello.
Consiglio vivamente di assistere allo spettacolo.
Potete trovare ancora posto in “piccionaia” come mi ha detto l’hostess all’entrata, indicandomi poi i quattro piani di scale. All’arrivo in piccionaia, in questo luogo plebeo per nome e prezzo, faticavo a leggere i numeri sbiaditi applicati alle sedie, e non vi era nessuna signorina gentile con la  pila a guidarci, noi della piccionaia. Ci siamo aiutati tra noi.
Dall’alto però lo sguardo abbraccia tutto il palcoscenico, non sfugge nulla, mentre in platea, se ti capita  uno più alto di te, cosa per me molto facile, non vedi nulla. La voce arriva perfetta e si può godere anche la vista sullo splendido soffitto. Insomma, evviva la piccionaia.




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