L’Arminuta di Donatella di Pietrantonio
Abruzzo, Agosto 1975:
la vita di una adolescente di 13 anni cambia per sempre.
Improvvisamente, dopo 13 anni trascorsi serenamente in una
famiglia che credeva fosse la sua, accudita e amata, la ragazza viene
inspiegabilmente restituita ai veri genitori, persone semplici e povere, ricche
solo di figli.
Nel caos che la sconvolge si affeziona alla sorella, Adriana,
con la quale condivide il letto, i giochi, i sogni.
La protagonista non ha un nome, per tutto il romanzo è
l’Arminuta, la ritornata.
La giovane osserva, ascolta, pesa e soppesa ogni parola dei
fratelli, ogni gesto di Adriana, dei nuovi genitori, spera in una telefonata,
in una visita di colei che ha creduto essere sua madre, teme per la sua salute,
la cerca, le scrive, l’aspetta.
Due madri: la prima, la madre naturale, ha abbondonato la
bambina all’età di sei mesi, regalandola alla cugina che non diventava madre;
la seconda cresce con amore la bimba fin quando non diventerà madre a sua volta
e, senza alcuno scrupolo, restituisce la ragazza al mittente.
“In certe ore tristi mi sentivo dimenticata….non c’era
più ragione di esistere al mondo. Ripetevo piano la parola mamma cento volte, finché
perdeva ogni senso ed era solo una ginnastica delle labbra. Restavo orfana di
due madri viventi. Una mi aveva ceduta con il suo latte ancora sulla lingua,
l’altra mi aveva restituita a tredici anni….non sapevo più da chi provenivo. In
fondo non lo so neanche adesso”.
Nonostante la sua sofferenza, studia, si distingue a scuola,
per lei si aprono le porte del liceo grazie al sostegno economico della
madre/zia, che in questo modo cerca di compensare il male commesso.
Il male, la perdita dell’amore materno, la non appartenenza a
nessun nucleo familiare segnerà per sempre la protagonista:
“Oggi davvero ignoro
che luogo sia una madre. Mi manca come può mancare la salute, un riparo, una
certezza. E’ un vuoto persistente, che conosco ma non supero. Gira la testa a
guardarci dentro. …la sola madre che non ho mai perduto è quella delle mie
paure”.
Ho conosciuto giovani
abbandonati dalle loro madri e ho riconosciuto lo stesso straziante
dolore, la stessa cieca speranza, lo stesso insistente bisogno.
Per la ritornata, la salvezza si chiama Adriana.
Un libro da leggere, senza dubbio.
LA STRADA di Corman McCarty
Una strada,
mille strade che portano a Sud, nel fango, nella cenere, nella neve, nei boschi
inceneriti, nelle città incenerite, nella sabbia, tra cenere e grigio.
In due, un
padre e un figlio, un uomo e un bambino con un carrello, alla ricerca di tutto
ciò che possa servire loro a sopravvivere e ad andare verso il caldo.
L’uno il mondo intero dell’altro.
Non hanno un
nome, sono l’uomo e il bambino, sempre, per tutto il racconto. La donna se n’è
andata, di notte, tempo prima. Non voleva essere catturata e uccisa. Sapeva che
sopravvivere era impossibile.
Un telo di
plastica per proteggersi dalla pioggia, qualche coperta, cibi in scatola
scaduti trovati qua e là frugando, entrando in case abbandonate, sfidando la
sorte, la paura costante e continua di incontrare loro, i cattivi, quelli che
sopravvivono mangiando gli altri esseri umani.
Sono sopravvissuti
ad un cataclisma di cui non ci viene raccontato nulla, tranne le conseguenze:
fumo, cielo oscurato, grigio, cenere, morte e desolazione ovunque.
“Notti più buie del buio e giorni uno più
grigio di quello appena passato.
Nessuna lista di cose da fare. Ogni
giornata sufficiente a se stessa….
Le ceneri del mondo defunto
trasportate qua e là nel nulla da lugubri venti terreni”
La loro
condanna è camminare sempre, evitare i pochi sopravvissuti che incontrano,
cercare cibo disperatamente.
La fatica di
vivere del protagonista del romanzo mi ricorda il vecchiarello di Leopardi, bianco, infermo, mezzo vestito e scalzo, con
gravissimo fascio in su le spalle, per montagna e per valle, per sassi avuti ed
alta rena e fratte, al vento, alla tempesta…..corre, va, corre, anela……….cade,
risorge, s’affretta senza posa, lacero, sanguinoso, infin ch’arriva…abisso
orrido, immenso.
Leopardi non
conosceva il pericolo del cataclisma atomico, a lui bastava raccontare la
naturale vita degli esseri umani.
McCarthy
aggiunge al dramma esistenziale di ogni essere umano, il dramma di un mondo
svuotato, un andare senza meta e senza senso, senza alcuna speranza, rende la
solitudine e l’inutilità di ogni gesto, eppure l’uomo continua, fino alla fine
eroicamente a lottare per la sopravvivenza del figlio.
Un libro da leggere, senza alcun dubbio.
Nessun commento:
Posta un commento