giovedì 5 ottobre 2017

HUMAN FLOW



Il documentario Human flow è stato presentato alla 74° mostra del cinema di Venezia ed è stato proiettato in via eccezionale nelle sale cinematografiche italiane in questi primi giorni di ottobre.
Due ore di immagini e parole che illustrano chiaramente la fatica, la delusione se non la disperazione di coloro che, scappando dalla guerra o dalla fame, vengono fermati da muri e fili spinati nel loro viaggio verso una vita migliore o vengono rinchiusi in campi profughi dove vivono aspettando. Pochi ce la fanno.
La dimensione dell'attesa in luoghi che io fatico a definire tali, tanto sono anonimi e spersonalizzanti, rende l'impotenza di persone che non possono tornare a casa e non possono raggiungere il luogo dove provare a cambiare in meglio la loro vita.
Foto aeree che mostrano campi profughi immensi in zone aride e desertiche, ai confini degli stati, dove un marea umana vive, dove i bambini giocano nonostante tutto, dove chi aveva qualcosa non ha più nulla.
Il regista Ai Weiwei, vittima del regime politico cinese, imprigionato per le sue idee, ha viaggiato con la sue troupe per un anno in 23 Paesi.
Il suo è un atto di accusa senza attenuanti. L'Europa, che in realtà, rispetto all'Africa e all'Asia, accoglie un minor numero di profughi, l'Europa, esempio di democrazia e di libertà per tutto il mondo, non riesce a rispettare i princìpi che ha dichiarato con forza e determinazione alla fine della Seconda Guerra Mondiale nella Dichiarazione dei diritti dell'uomo. L'Europa ha alzato muri e barriere, non riesce a trovare una soluzione condivisa al problema immane dell'emigrazione.
Il regista afferma che sono 65 milioni i profughi nel mondo. Non ricordo se abbia specificato l'arco di tempo, ipotizzo negli ultimi anni.
La cifra è spaventosa, 65 milioni di esseri umani che hanno abbandonato per disperazione la propria casa, i propri cari, per attraversare mille difficoltà e paure.
Viaggiamo dalla Grecia alla Francia di Calais, dalla Giordania che accoglie un milione e trecentomila profughi, al campo profughi più grande del mondo, Dadaab, in Kenia, per scoprire l'Africa che accoglie, ci spostiamo in Pakistan dove gli afghani ripartono per tornare a casa e non trovano più le case e i villaggi dai quali erano partiti molti anni prima e poi ancora siamo a Mosul e contempliamo annichiliti il cielo nero di fumo dei pozzi di petrolio bruciati dall'Isis.
E' un mondo che non vuole affrontare e risolvere i problemi alla radice il mondo che il regista ci mostra con sapienza attraverso le immagini, spesso in evidente contrasto, tra i luoghi verdi e ridenti e i luoghi aridi e desertici.
Non è utile a nessuno che l'uomo si comporti come lo struzzo.
Spero che presto il documentario sia nelle sale cinematografiche e venga visto e commentato come merita.
Un ottimo lavoro di analisi e sintesi, un atto di accusa alla nostra cecità.



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