Il
documentario Human flow è stato presentato alla 74° mostra del
cinema di Venezia ed è stato proiettato in via eccezionale nelle
sale cinematografiche italiane in questi primi giorni di ottobre.
Due
ore di immagini e parole che illustrano chiaramente la fatica, la
delusione se non la disperazione di coloro che, scappando dalla
guerra o dalla fame, vengono fermati da muri e fili spinati nel loro
viaggio verso una vita migliore o vengono rinchiusi in campi profughi
dove vivono aspettando. Pochi ce la fanno.
La
dimensione dell'attesa in luoghi che io fatico a definire tali, tanto
sono anonimi e spersonalizzanti, rende l'impotenza di persone che non
possono tornare a casa e non possono raggiungere il luogo dove
provare a cambiare in meglio la loro vita.
Foto
aeree che mostrano campi profughi immensi in zone aride e desertiche,
ai confini degli stati, dove un marea umana vive, dove i bambini
giocano nonostante tutto, dove chi aveva qualcosa non ha più nulla.
Il
regista Ai Weiwei, vittima del regime politico cinese, imprigionato
per le sue idee, ha viaggiato con la sue troupe per un anno in 23
Paesi.
Il
suo è un atto di accusa senza attenuanti. L'Europa, che in realtà,
rispetto all'Africa e all'Asia, accoglie un minor numero di profughi,
l'Europa, esempio di democrazia e di libertà per tutto il mondo,
non riesce a rispettare i princìpi che ha dichiarato con forza e
determinazione alla fine della Seconda Guerra Mondiale nella
Dichiarazione dei diritti dell'uomo. L'Europa ha alzato muri e
barriere, non riesce a trovare una soluzione condivisa al problema
immane dell'emigrazione.
Il
regista afferma che sono 65 milioni i profughi nel mondo. Non ricordo
se abbia specificato l'arco di tempo, ipotizzo negli ultimi anni.
La
cifra è spaventosa, 65 milioni di esseri umani che hanno abbandonato
per disperazione la propria casa, i propri cari, per attraversare
mille difficoltà e paure.
Viaggiamo
dalla Grecia alla Francia di Calais, dalla Giordania che accoglie un
milione e trecentomila profughi, al campo profughi più grande del
mondo, Dadaab, in Kenia, per scoprire l'Africa che accoglie, ci
spostiamo in Pakistan dove gli afghani ripartono per tornare a casa e
non trovano più le case e i villaggi dai quali erano partiti molti
anni prima e poi ancora siamo a Mosul e contempliamo annichiliti il
cielo nero di fumo dei pozzi di petrolio bruciati dall'Isis.
E'
un mondo che non vuole affrontare e risolvere i problemi alla radice
il mondo che il regista ci mostra con sapienza attraverso le
immagini, spesso in evidente contrasto, tra i luoghi verdi e ridenti
e i luoghi aridi e desertici.
Non
è utile a nessuno che l'uomo si comporti come lo struzzo.
Spero
che presto il documentario sia nelle sale cinematografiche e venga
visto e commentato come merita.
Un
ottimo lavoro di analisi e sintesi, un atto di accusa alla nostra
cecità.
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