mercoledì 29 dicembre 2021

Dalle borse ai Balcani

 


 

Oggi, caro e cara lettrice del mio blog, ti presento la vita lavorativa di una giovane donna: lavora nel borgo dove vivo da tanti anni, il borgo del fum o, come preferisco io, il borgo costruito tra i due fiumi, La Dora e il Po, il borgo delle lavandaie, il borgo mal sano nell’800, e che oggi è un luogo dove i torinesi passeggiano godendo il sole e la bellezza del panorama.

La collina da un lato, i fiumi e gli alberi lungo le sponde, tutto ciò rende questo luogo uno dei più belli di Torino: ti presento Vanchiglietta.

In questo borgo, lungo corso Belgio, tra i vari negozi ce n’è uno che, oltre ad avere articoli tradizionali di pelletteria, contiene prodotti completamente artigianali anche un po’ particolari e ospita manufatti di numerosi artigiani del territorio che lavorano pelle, cuoio, stoffe e anche materiali riciclati. Tra i numerosi articoli colorati spiccano le borse artigianali confezionate riciclando copertoni d’auto, camere d’aria e palloni e le mini sculture realizzate salvando i libri dal macero e molte altre cose che ti invito a scoprire.

Da qualche anno a gestire questo negozio colorato c’è lei,Chiara, una ragazza che conobbi bambina, quasi adolescente quando frequentò il corso di preparazione alla Cresima presso la Parrocchia Santa Croce e la ritrovai come compagna di studi universitari di mio figlio Simone, alcuni anni dopo.

La sua storia è interessante per me e spero anche per te come  testimonianza del mondo giovanile a Torino.

La prima passione di Chiara è scrivere. Passione e sogno. Da quando frequentava la scuola elementare Muratori lei da grande voleva essere una scrittrice.

In realtà Chiara è una scrittrice perchè ha già pubblicato.

 Ha pubblicato a Sarajevo il libro “La stagione dell’amore”, traduzione dell’opera Grozdanin Kikot di Hamza Humo tratto dalla sua tesi triennale. Ed è in attesa di risposte dalle case editrici in relazione alla sua ricerca sugli stupri etnici avvenuti in Bosnia Erzegovina durante le guerre degli anni Novanta. Come traduttrice, ha pubblicato dei racconti di Joseph Conrad, ha tradotto dal serbo l’opera “Sangue impuro”. Già perché Chiara, di professione commerciante, non ti ho ancora detto che ha tre lauree.

La prima in Lingue e letterature straniere, come mediatore linguistico. E le lingue scelte sono state inglese e serbo-croato.

L’amore per il serbo croato nacque quando le sue maestre (quanto importanti sono i maestri che incontriamo per via!) accolsero in classe due ragazzi bosniaci scappati da Sarajevo e arrivati a Torino con la famiglia per permettere ai loro genitori di curarsi (erano stati feriti dalle mine). In quegli anni purtroppo l’Europa riviveva l’incubo della guerra, quella guerra fatta di bombe, di distruzione, di fame, di morte. Quella guerra che i popoli europei avevano giurato di non volere mai più, unendosi intorno al manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e poi alla successiva Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Per non parlare della nostra Costituzione. Gli Europei avevano capito che al posto di trincee, bombe, campi di prigionia o peggio di sterminio, si dovevano stilare trattati, riunirsi per legiferare per il bene comune, costruire ponti, ferrovie, permettere a tutti di viaggiare e di sentirsi tutti cittadini europei. Ed invece ogni giorno in quegli anni il bollettino di guerra raccontava stragi, fratricidi, vicini di casa contro i vicini di casa, parenti contro i parenti, amici che diventano nemici,  in un escalation di morte. Proprio ai confini della nostra Italia.

In questo contesto Chiara incontra due bambini, Ajla e Ammar, che diventeranno suoi amici, che furono i suoi primi insegnanti di quella che diventerà la sua lingua del cuore: il bosniaco. Si perderanno di vista di lì a poco, ma i loro insegnamenti sarebbero rimasti con lei negli anni a venire.

Per Chiara Sarajevo è casa sua e la lingua bosniaca è la lingua amica.

Con questo spirito laurearsi e scrivere  una tesi in bosniaco credo che sia un valore aggiunto e capisco che sia stata pubblicata.

La seconda laurea è quella di traduttrice editoriale e tecnica dalle lingue serbo-croato e inglese, sempre presso la facoltà di Lingue e letterature straniere di Torino.

La scuola italiana persevera nel sostenerla in questa strada: mentre frequenta il Liceo Scientifico Gobetti l’insegnante di lettere organizza uno scambio culturale con un liceo di Sarajevo. Sarà ospite a casa di Tarik, un ragazzo molto timido ed educato, che ora ovviamente è un suo caro amico. Quello scambio fu l’inizio del suo legame con quella città. Grazie a Sarajevo conobbe Lejla, la sua attuale migliore amica. Molti anni dopo, mentre era a casa della zia di Lejla, sfogliando l’album di famiglia trovò anche se stessa tra le foto che la famiglia aveva fatto durante un triste soggiorno a Torino durante la guerra, quando erano venuti in Italia per curare il marito reso invalido da una mina. In quel momento tutto ebbe un senso, perché il cugino della sua amica Lejla non era altri che Ammar, il bambino che molti anni prima le aveva insegnato le prime parole di bosniaco, insieme ad Ajla.

L’ultima laurea, la terza, l’ha conseguita presso il campus Einaudi in Scienze Internazionali. Materia scelta: Storia dei crimini di guerra. Ovviamente, si era iscritta proprio per poter scrivere una tesi sugli orrori della guerra a Sarajevo e in Bosnia. La tesi è stata molto impegnativa, se consideriamo anche che è stata scritta in costanza di lavoro, quello di commerciante.

Molto impegnativa anche per l’argomento. Un argomento importantissimo ed io non vedo l’ora di leggerla. Sullo stesso argomento ha anche pubblicato sulla rivista di storia contemporanea Qualestoria, “Novecento balcanico. Un secolo di guerre”.

Ho precisato il lavoro attuale perché in realtà Chiara ha sempre lavorato, dopo il liceo. Dog-sitter, baby-sitter, commessa, traduttrice, insegnante di lingue. Una giornata complicata, intricata di appuntamenti, impegni e scrittura, la sua cara e amata scrittura, vero rifugio. Tre lavori in un giorno. Lo so, non scrivo nulla di nuovo. Questo mondo è solcato ogni giorno da creature giovani che provano ad avere il corrispettivo di uno stipendio sommando lavoretti. Quanta fatica e quanto spreco di energie ed intelligenze.

Una ragazza così qualificata ed intelligente costretta a scrivere nei ritagli di tempo perché nessuno le ha offerto la possibilità di dedicare tutto il suo tempo solo alla ricerca. Pensa a quali vette sarebbe potuta arrivare una donna, questa donna, se avesse potuto dedicare tutto il tempo alla ricerca.

Credo di aver dimenticato la Scuola di specializzazione per traduttori editoriali, un Master di secondo livello finanziato dall’UE, lo stage dal quale è nata la pubblicazione della traduzione del libro “Strane avventure di Sherlock Holmes in Giappone” da Marcos y Marcos.

Chiara persevera. Aspetta che la sua ricerca sulle violenze di genere venga pubblicata.

E prepara il suo negozio per Natale, alberi, babbi natali, tanta pazienza verso i clienti, capacità organizzativa, scelte attente agli articoli e agli artigiani, un blog in cui racconta la sua vita da commerciante di borse, cappelli, ombrelli e guanti.

Lei vive in un limbo e ha un grande desiderio: realizzarsi come ricercatrice, se non ero stata chiara.

Intanto, augurandole di riuscirci, se volete leggere il suo diario di commerciante, cliccate su www.pelletteriagivogre.it

E mi raccomando, andate a trovarla in negozio.

sabato 4 dicembre 2021

PIAZZA SAN CARLO

 



L’appuntamento è per le nove del mattino con il mio gruppo fotografico.

Obiettivo: fotografare Torino dal mio punto di vista.

Ufficialmente l’inverno deve ancora arrivare: qualche fogliolina colorata ondeggia precaria dai rami spogli, superstite di un autunno dorato e luminoso, che ha restituito agli occhi il sole estivo nel giallo delle foglie dei platani o dei ginko biloba. Ora tappeti di foglie marroni ricoprono giardini e parchi. La temperatura  è quella dei primi giorni di dicembre a Torino: al limite dello zero, un po’ più sotto di notte, con ghiaccio mattutino e un po’ più su verso le dodici, quando il sole scalda.

Sono attrezzata con il mio smartphone nella tasca del giaccone bene abbottonato. Sono pronta.

La passione per la fotografia è nata recentemente: ho sempre amato fotografare, ma quando esistevano i rullini, mi capitava di fotografare nelle grandi occasioni, durante le vacanze e senza particolare maestria.

Poi la vita ha iniziato a regalarmi un po’ di tempo libero e ho visitato delle mostre fotografiche, ho conosciuto grandi fotografi, Sebastio Salgado, Steve McCurry, Robert Capra, Yann Arthus-Bertrand, ho incontrato fotografe meno note come Anna Balbiano, prematuramente scomparsa, che mi ha insegnato a scoprire la vita in ogni angolo della città: ho scoperto una passione.

Lo smartphone è sempre a disposizione e così ho iniziato a fotografare tutto ciò che mi piaceva, mi colpiva, visi umani, fiori, alberi, paesaggi naturali e urbani. Qualche foto l’ho postata sullo status di wattsapp e ho ricevuto dei complimenti. Qualche foto ha illustrato il mio libro, su esplicita richiesta del mio editore, che apprezza le mie foto.

Ed eccomi qui ad imparare come renderle migliori, come raccontare storie con le immagini, in un linguaggio che è universale. E questo mi piace moltissimo, visto che amo raccontare storie.

La piazza è deserta, i negozi sono chiusi, le gru e le impalcature regnano sovrane, ostacolando il mio sguardo e l’oggetto della mia ipotetica foto.

Potrei realizzare un reportage sull’impatto del 110% sulla città.

 Ci sono loro, quattro senza fissa dimora, sopravvissuti al freddo della notte, seduti sulle panchine, che chiacchierano.  Vorrei fotografarli, sono belli nel loro condividere il risveglio, senza le liti per il posto notte. Non lo faccio: la foto del regista Mimmo Calopresti scattata proprio in questa piazza pochi giorni fa, di notte, ad un clochard, ha reso a tutti la tristezza di questi tempi, tra le vetrine dorate e la miseria, un contrasto tra i tanti del mondo delle disuguaglianze.

Inizio a percorrere con lo sguardo ciò che mi circonda pensando ad un reportage da Torino: non certo una meta esotica, non certo originale, ma la mia Torino.

Mi piacciono i lampioni torinesi,  bella la vista da Via Bertola verso le montagne innevate della Val Susa ma, una enorme gru si erge sovrana, belle le due cupole di San Lorenzo e quella del Duomo, ma, Piazza Castello è tutta rossa di mezzi dei vigili del fuoco che festeggiano santa Barbara. Trovo il modo di immolarle nella mia Torino: il Guarini mi piace e con lui le sue cupole. La città è vuota, i negozi sono ancora chiusi, ma fotografare Chiese e palazzi è arduo tra una gru e un ponteggio.



Sto cercando la mia Torino e mi avvio verso Via Alfieri, dove c’è la sede della Banca Nazionale del Lavoro, a Palazzo Levaldigi con la sua porta del diavolo.

La strada è stretta e il sole non è ancora arrivato fin qui, forse non ci arriva proprio. A destra e a sinistra si elevano palazzi signorili, sedi di Banche. Piano piano torno indietro nel tempo e aspetto che dalla porta del Diavolo esca quella ragazza romana, appena sposatasi con un giovane torinese incontrato in vacanza, che lavorò per qualche anno nella sede della BNL. Il bar, dove quella giovanissima donna mangiava un panino a pranzo, è stato sostituito da una tabaccheria. Per il resto appare tutto uguale tranne che la sede del bancomat è proprio nello stesso posto dove lavoravo io, con quel primo enorme terminale che si bloccava sempre e che creava tanta ansia a me e ai clienti.

Il freddo inizia a impossessarmi di me: è la vertigine del pensiero degli anni trascorsi, dei sogni di quella ragazza romana e di questa donna che oggi è qui, e scrive e fotografa.

La foto del portone è pessima. L’emozione dei ricordi mi travolge letteralmente e non trovo nessuna inquadratura adatta a rendere la tempesta che vivo.



Il freddo: non lo amo. Il freddo è contrazione del mio corpo, dei pori della mia pelle, della testa nel berretto, della bocca nella mascherina, delle mani nelle tasche, è uno strano intorpidimento cerebrale che mi rimanda al caldo, al desiderio struggente di calore dentro. Il freddo è chiusura: odio le porte chiuse, odio i muri.

La mia Torino diventa quindi un’altra Torino, quella dei ricordi di un tempo lontano, ma poi anche quella del sorriso del Topolone che incontri per via con i palloncini colorati, 



quella del mangiatore di fuoco che si esibisce davanti ad un pubblico di bimbi, quella del pompiere che mi risponde che quel bel mezzo motorizzato, il primo, era del 1700 e davanti al mio stupore si scusa che non sa proprio dirmi la data precisa. Lui è un pompiere, io non saprei fare il suo pericoloso lavoro, lo ringrazio ma penso che la cultura di base sarebbe auspicabile per tutti. Quello era il senso della scuola media unica. Quella Scuola nella quale ho lavorato con orgoglio e soddisfazione e saprei fotografare quelle porte attraverso le quali sono entrata e uscita tante volte.

La mia Torino è quella del musicista che incontri per via,   è quella dei volontari dell’associazione Ail che vendono le stelle di natale per contribuire alla ricerca e la cura delle leucemie,linfomi e mieloma,




 la mia Torino è quella di due pianoforti che si abbracciano davanti alla statua di Emanuele Filiberto per una esibizione di un giovane influenzer, Pietro Morello, a sostegno dell’Istituto di Candiolo.








Mi piacerebbe ascoltare in questa piazza Emiliano Toso, il mio musicista preferito, la cui musica è balsamo e sollievo, gioia e danza.

Guardo le scarpe del giovanissimo musicista che ha dieci anni meno del mio secondogenito, è più giovane dei miei allievi, ex, vedo le suole pulite. Mi colpiscono quelle suole nuove di zecca, penso ai piedi nudi di Emiliano quando suona, penso alle suole delle scarpe di chi cammina molto, penso a chi non ha scarpe, a chi le cerca nelle discariche (Vittorio Zucconi “Stranieri come noi”), a chi scende dai barconi con gli infradito, a chi si avventura nella neve per arrivare in Europa con scarpe di fortuna, guardo le mie.

Piazza San Carlo prima deserta ora è affollata di persone con la mascherina, alcuni con le mani piene di pacchettini: molti sono seduti al bar, molti in piedi ad ascoltare il concerto dell’influenzer.

Un famoso scrittore si sedette ad un tavolino di un bar a Parigi e aspettò: vide scorrere la vita e la descrisse.

Aspettare e osservare: ottimo esercizio per aspiranti scrittrici e fotografe.




 

 

domenica 28 novembre 2021

CORAGGIO TECNOLOGICO

 



Oggi è stata una giornata particolare.

Non come quella “Giornata particolare” di cui l’omonimo film del regista Ettore Scola o come molte altre giornate che si ricordano per un evento speciale, bello o brutto e rimangono nella nostra storia come punti di riferimento.

No, una giornata particolare da dimenticare.

Il mio programma era molto ricco: ordine di alcuni armadi, lettura, ascolto del podcast della Città dei vivi di La Gioia, un po’ di sano movimento con la cyclet.

Invece è successo che il computer ha risucchiato tutto il mio tempo e mi ha restituito ben poco. Mi sono seduta alla scrivania dopo pranzo, con l’obiettivo di visitare il sito dell’Inps per la lettura del cedolino. Lo Spid ce l’ho e sono anche riuscita, giorni fa, ad aggiornarlo con la nuova carta d’identità, dopo che più volte mi aveva rifiutato l’identificazione, con mio sconcerto. Fiduciosa e sicura che la lettura del cedolino mi avrebbe occupato solo pochi minuti, apro il sito, clicco Spid, clicco il gestore del mio Spid, tutto bene, no, non ricordo la password, nessun problema, posso inquadrare il Qrcode, cerco il telefono, inquadro, no, devo aprire l’App dedicata,  ma non ho un account, come mai, ho solo l’App, mi pare strano, allora procedo con la ricerca di una pass che piaccia a lui, al pc, all’algoritmo, a non so bene chi, perché ho contato le lettere e sono quelle che mi chiede e anche i caratteri speciali, ma non gli piacciono e continua a dirmi che è errata la mia password nuova di zecca e allora cambio, invento, tolgo e metto e alla fine accetta, evviva, ma ancora non ho letto il cedolino e sono solo su un App di un telefonino e inizio ad innervosirmi, perché devo anche inventarmi un codice e poi devo inserire dei numeri che mi arrivano sugli sms, ma non una volta sola, almeno due volte e poi sono sempre sul sito del gestore del mio Spid, ma a me serve l’Inps! Calma Roberta, è trascorso un tempo nel quale avrei potuto: leggere 30 pagine, scrivere una recensione di almeno due o tre pagine, cucinare una torta salata per la cena, fare una passeggiata salutare, calma, sei tu che vuoi leggere il cedolino della pensione, potresti farne a meno, certo, perché un tempo, tanto tempo fa, i cedolini, i bonifici, e altro, arrivavano per posta, ma ora  sono diventata la postina di me stessa. Sono circondata da fogliettini con numeri strani e devo assicurare il pc di non essere un robot, mentre a me sembra proprio di esserlo, per rassicurarlo devo scrivere o ascoltare lettere tutte storte e per fortuna che oggi il pc, il software o non so chi non mi chieda di cercare le macchine nei boschi o i semafori nei prati.

 Codici e password che dimenticherò, ne sono certa, certo li scrivo, poi li perdo e tutta la giostra continuerà la prossima volta, ma io ancora non ho raggiunto il mio agognato cedolino, perché quando finalmente l’app  legge il Qrcode, le sono grata, inizia un’altra storia, quella dell’Inps, perché giustamente anche l’Inps ha bisogno di me. Vuole avvisarmi che devo avere la Pec, va bene, grazie, devo aggiornare i miei contatti, va bene, sono giusti, eh no, devo immettere dei codici e dove li trovo, ah ecco un sms e una mail, ok, poi quando ho svolto il lavoro da impiegata che aggiorna i dati che non erano da aggiornare, inserisco la volontà di ricevere il cedolino per pec, così questo strazio mensile possa finire, ma no Roberta, la pec non può coincidere con l’indirizzo mail, ah no, adesso, mentre cerco il cedolino che tu Inps avresti dovuto inviarmi a casa, ma non lo fai perché così hai ridotto il numero dei dipendenti e credi di inquinare di meno, io dovrei, dopo aver assecondato il gestore del mio Spid, crearmi un altro account? Lascio perdere e provo a procedere e  finalmente arrivo al cedolino. Quanto tempo è passato? Guardo fuori dalla finestra ed è buio.

Mi ricordo che devo effettuare un bonifico, procedo a stampare la fattura arrivata on line: la stampante è offline. Spesso la mia stampante decide di essere offline. Le ho già ripetutamente suggerito di procedere, ma nulla, lo fa quando decide lei, magari dopo due ore o tre, quando io ho dimenticato del tutto che le avevo ordinato di stampare. La mia stampante decide in autonomia. Giorni fa ho pagato un tecnico informatico che mi ha, dietro giusto compenso, sistemato questo problema, che ha trovato strano anche lui.

Peccato che appena è uscito da casa mia la stampante ha ripreso il suo corso anarchico.

Non eseguo il bonifico. Però ho letto e archiviato il cedolino.

Visto che oramai il mio programma è stato stravolto passo a controllare il mio abbonamento ad un quotidiano nazionale.

Il problema è che non ho  avuto il tempo di leggere nessun articolo, ho solo controllato le condizioni del contratto.

Oggi è andata così: cosa mi ha arricchito di queste azioni in sequenza, comandate, di cui non mi resta memoria, solo per accedere a ciò che sarebbe mio diritto ricevere? Va benissimo per me ricevere per posta elettronica, anche se ho una pazzesca quantità di mail non lette, perché tutti o quasi si sentono in dovere di scrivere tante volte, quando un tempo si scriveva una sola lettera. Per esempio, se ordino su Amazon, poco, perché so quanto danno queste spedizioni facciano all’ambiente e alle condizioni dei lavoratori, se, dopo aver girato i negozi non trovo l’articolo, non dico il prezzo, proprio l’articolo da me richiesto, allora cedo a questo mostro che ha tutto di tutto. Ecco, se lo faccio vengo invasa da mail che avvisano e riavvisano e riavvisano ancora, anche se io dalla prima mail potrei tracciare il pacco senza bisogno di questi continui ed inutili ed inquinanti memo. Quindi poi devo trascorrere del tempo a cancellare le mail.

La serata vorrei concluderla vedendo un film che mi diverta. Ceno e accendo la tv. Anche questo è diventato un problema. Sorvolo perché mi faccio tenerezza da sola, il semplice gesto di accendere un elettrodomestico è diventato un problema, si apre la schermata di tim vision, recente conquista per evitare di pagare diverse piattaforme, quella per vedere le partite di calcio che avremmo potuto vedere tutti sulla Rai e saremmo stati felici, quella per i film, in questa orgia di proposte innumerevoli, che disorientano e mi fanno rimpiangere il canale unico di quando ero piccola, dove vedevo l’Orso yoghi e Rin tin tin ed ero molto felice e anche Carosello, che mi piaceva tanto.

Sì perché io odio la pubblicità, che interrompe ragionamenti, emozioni: non la guardo e se la guardo decido che quel prodotto non lo comprerò. Su di me l’effetto è esattamente il contrario di quello che i pubblicitari vorrebbero.

Invece Carosello era adorabile.

Questa sera c’è una congiura contro di me: la tv si è accesa, ma solo per le piattaforme, la Rai non appare tra le icone, impossibile selezionarla e vederla.

La Rai? Eh si, volevo distrarmi con Alessandro Gassman nel ruolo del Professore, lo confesso. E’ una colpa? Forse sì, ci sarebbero tante cose da fare. Nulla, provo, spengo, riaccendo, reinserisco la password lunghissima e piena di maiuscole e minuscole che sul video non è così veloce da digitare, basta, spengo e minaccio di buttare la tv dal balcone. Non ne posso più di password. La tv, almeno quella, potremmo guardarla senza password?

Ieri non è andata meglio, se ci penso bene.

Ho provato a telefonare e ho scoperto di non avere credito. Voi mi direte: niente di nuovo. Ed invece sì, perché io ho firmato per un abbonamento per non avere il problema della ricarica. Come può essere? Chiamo il numero dedicato, mi rispondono dalla Polonia, si stupiscono che io sia stupita e anche arrabbiata. E se fossi stata in pericolo? Se avessi avuto urgenza di telefonare? La signorina mi mette un centesimo sulla scheda. Un centesimo! E mi dice di avvisare la banca di non inviarmi messaggi. Eh no, la banca deve mandarmi i messaggi, non scherziamo.

Passo dal negoziante che mi ha aiutato nel passaggio da un operatore telefonico a quello attuale. Candidamente mi dice che io pago la ricaricabile del mobile sull’abbonamento del fisso e della fibra ottica, ecc. ma è una ricaricabile e quindi se mi arrivano sms a pagamento devo ricaricarla. Non ci posso credere, passo a ricaricarla dall’App sul telefono. No, non accetta. Provi dal pc., mi dice! E allora a cosa serve l’app? Ricarico e telefono e mi sento meglio.

Tempo? Un tempo c’era la bolletta della Telecom, forse Sip e i miei genitori che mi sgridavano se trascorrevo troppo tempo al telefono e le sorelle che urlavano reclamando il telefono libero. Un servizio e un pagamento, non mille servizi diversi tra cui bisogna sapersi districare tra le offerte di mille operatori diversi  in una parvenza di libertà, che mi costringe a perdere tempo. Il mio tempo. Unico. Irripetibile.

E’ per questo che ho atteso tanto tempo per cambiare operatore telefonico.

Mesi fa non è andata meglio. Erano anni che volevo disdire l’abbonamento a Sky. Pensato per mio marito, per le famose partite che potremmo vedere sulla Rai, alla quale paghiamo il canone, l’abbonamento era diventato esoso e poi da settembre le partite si vedono su un’altra piattaforma. Ho disdetto. Pare semplice. Non lo è. Ho dovuto parlare con diversi giovani che avevano il compito di farmi riflettere su questa scelta esistenziale e farmi sentire in colpa di essere così ignorante da essere interessata solo alle partite di calcio e non a tutto ciò che Sky offre. Dunque, io dovrei trascorrere la mia vita sul divano? Posso scegliere cosa pagare e cosa fare?

Che fatica, dico io, che coraggio mi dice la mia amica che mi telefona nel bel mezzo del mio tentativo di leggere il cedolino. Hai un bel coraggio a cambiare gestore telefonico.

In conclusione: non ho la posta certificata, ho un cedolino, non ho visto il film e ho scritto questo pezzo. E non ho cucinato.

Però vengo chiamata per una call: devo parlare e guardare delle cartine topografiche, ingrandirle, prendere decisioni. Non vedo colui che parla, non ho visto nessun impiegato dell’Inps, ho lavorato gratuitamente e da sola tutta il pomeriggio.

C’è qualcosa che non va.

 

 

domenica 31 ottobre 2021

OLIVA DENARO

 

SAPERE DIRE DI NO.

 







Ho terminato la lettura del libro e mi sento stanca. Eppure è mattina, una mattina grigia, autunnale, un giorno di festa, una domenica.

Questa notte tutti abbiamo spostato la lancetta dell’orologio meccanico un’ora indietro: mi sono svegliata presto, forse prima delle altre mattine, così ho potuto impiegare il  tempo regalato per leggere.

Ho letto il libro in un tempo record: mi stupisco sempre della mia velocità di lettura, quando sono catturata dalla storia e dai suoi personaggi.

Ora dovrei lavarmi, dovrei cucinare il pranzo,ora dovrei riordinare la casa, dovrei e dovrei e le parole provare a congelarle in attesa del tempo nel quale mi posso concedere il lusso di scrivere.

Come Oliva Denaro dico anche io no.

No ai doveri secolari.

La lettura ha questa aspetto magico: la storia che leggi ti apre nuovi orizzonti o ti ricorda la tua storia.

La storia di Oliva Denaro mi ha riportato indietro nel tempo, un tuffo nel passato della mia generazione. Ti chiedo scusa lettore, lettrice, se indulgerò un po’ nei ricordi che accomunano una generazione di donne.

Ha ragione la piccola Oliva quando alla maestra Rosaria disse che non esiste il femminile singolare? “Le donne, in un modo o in un altro, sempre insieme devono stare. “ pensa Oliva.

Ha ragione la mamma di Oliva, Amalia, quando afferma che “il maschio è brigante, e la femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia”

Chi, come me, ha vissuto la sua adolescenza negli anni ‘70, gli anni d’oro delle leggi sul divorzio e aborto e della riforma del diritto di famiglia, delle manifestazioni delle donne in piazza, chi come me ha vissuto quegli anni, forse ricorderà che la buona educazione prevedeva che  ragazze dovessero temere i ragazzi, rincasare prima del buio, possibilmente non camminare da sole, essere riaccompagnate a casa, dormire sempre nella casa paterna, per dire solo alcune restrizioni alla libertà individuale.

Ricordo che il mio primo fidanzatino rifiutò di uscire con me perché avevo indossato dei pantaloni: era il 1970, a Roma ed entrambi frequentavamo il Liceo Classico. Io tornai a casa, ma non mi tolsi i pantaloni. Vorrei vedere la sua espressione, oggi, se gli potessi rammentare questo episodio, molto banale, quanto significativo di un passaggio epocale, che si esprimeva in ogni aspetto del nostro vivere quotidiano, dall’abbigliamento (pantaloni e minigonne) alle letture consentite, dalle possibilità di svolgere il lavoro scelto a quella di studiare, dalla libertà di uscire di casa senza timori per la propria incolumità.

Cresci pensando di essere una preda, cresci pensando che i cacciatori siano in agguato, più sei giovane e bella.

La bellezza e la gioventù non sono meriti, ma regali e stagioni. Stava a noi saperla amministrare. Intanto molte di noi coltivavano il sogno della propria totale indipendenza da padri e futuri mariti, attraverso l’impegno nello studio.

Ricordo dei sedicenti pittori, sempre di parecchi anni più di me, che tante volte mi avvicinarono per strada per dirmi che ero bella e che avrebbero voluto disegnare il mio viso. Mia madre mi insegnò a diffidare, non rispondere, non dare numeri di telefono, indirizzi.

Ricordo i commenti dei ragazzi seduti al bar, quando camminavo lungo la via con magliette aderenti che mettevano in risalto il seno. I loro sguardi, le loro risate erano mani addosso a me.

Ricordo il sudore e il tremore delle mani di amici che mi porgevano il regalo per il mio compleanno.

Ricordo le carezze dei miei capi, carezze che non desideravo, che mi imbarazzavano, mi congelavano e alle quali non sapevo dire di no.

Ricordo corpi indesiderati sui tram.

Ricordo la paura di mio padre nel vedermi partire, ormai maggiorenne, per una meritata vacanza

Ricordo le raccomandazioni di mia madre al capotreno, quando partivo di notte e dormivo nelle cuccette dei vagoni letto.

Ero una brocca e se mi rompevo nessuno mi avrebbe preso.

Molte cose sono cambiate, grazie a quella rivoluzione gentile che fu la rivoluzione delle donne in Italia negli anni ’70.

Molte resistono ai cambiamenti.

Oliva Denaro e la sua storia: il rapimento a scopo di libidine, il coraggio suo e della sua famiglia, in un paesino siciliano degli anni 60, di denunciare il colpevole e di sfidare la legge che impone sempre alla vittima di dimostrare di esserlo, di non aver provocato, di non aver incoraggiato.  Il suo coraggio di rifiutare il matrimonio riparatore e una conseguente vita di infelicità per vivere invece una vita autonoma grazie al lavoro, ecco questa storia è la storia di molte donne, una storia che in alcuni luoghi deve essere ancora scritta.

L’ideale sarebbe potersi prendere per mano, come Saro e Olivia e incamminarsi soli all’altare,  per vivere insieme una vita che è già difficile senza complicarla ancora.

Oliva comprende che “nessuna donna è fragile: fragile è solo chi è esposto all’ingiustizia”.

La storia termina nel 1981, quando furono abrogati gli aricoli 544 e 587 del Codice Penale, che regolavano il matrimonio riparatore e il delitto d’onore.

Mi piace ricordare qui  Franca Viola, la prima donna che rifiutò il matrimonio riparatore nella Sicilia degli anni ’60, e alla quale penso si sia ispirata la scrittrice.

Indimenticabile la figura di Salvo, il padre di Oliva con i suoi silenzi, il suo “non lo preferisco”, l’aver accompagnato la figlia permettendole di scegliere la sua vita, sfidando povertà ed ignoranza, sopraffazioni e volgarità, umiliazioni e dicerie. “Io sono un contadino e quello che conosco è piantare il seme e aiutare la pianta a venir su nonostante il tempo secco, la pioggia improvvisa, il vento forte. Metto un sostegno quando è debole e tengo lontani i parassiti che la possono fiaccare, ma poi la pianta, se trova la strada, cresce da sé……..ma se tu inciampi, io ti sorreggo.”

Questo è il secondo romanzo di Viola Ardone e credo che ci troviamo di fronte ad una talentuosa scrittrice.

 

 

 

sabato 30 ottobre 2021

L'ARMINUTA E MADRES PARALELAS

 

Film sulle madri




Sono tornata a cinema, una delle mie grandi passioni, come già sai, amico, amica lettrice.

Oggi  ho visto in lontananza la fila di persone fuori dal cinema, forse a causa del tempo piovigginoso.

Nei primi giorni autunnali, nella sala cinematografica dove mi piace recarmi e che ha riaperto da poco, vi erano pochissime persone, ora c’è la fila per pagare alla cassa.

Ho visto recentemente due film, entrambi sulla “madre”: l’Arminuta e Madres Paralelas.

La parola madre richiama i culti antichi legati alla Terra, alla fecondità, all’abbondanza e potremmo continuare con accoglienza (la terra accoglie il seme), dono, gratuità (i frutti spontanei della terra), calore, nutrimento.

Una madre “sufficientemente buona”, come scrisse il pediatra e psicoanalista inglese Donald Winnicott, “è capace di rispondere ai bisogni del figlio fin dalla nascita” (Sviluppo affettivo e ambiente, pag.68).

Tutti noi siamo figli, tutti noi abbiamo avuto una madre biologica. Non esiste un tema più universale di questo. Una madre ci segna. Ogni donna sa bene, se madre a sua volta, la responsabilità e la gioia di essere mamme.

L’Arminuta è la trasposizione cinematografica di un libro omonimo scritto dalla bravissima scrittrice Donatella di Pietrantoni, di cui scrissi qui.

Il regista Giuseppe Bonito racconta la storia di una adolescente, la “ritornata”, Sofia Fiore, che improvvisamente scopre il disorientamento dell’abbandono e il dolore del tradimento da parte di chi considerava da sempre madre.

Nel momento dell’abbandono da parte di una madre, che madre non sa e non può più essere, ritrova una madre, quella che la abbandonò pochi mesi dopo la nascita a causa dell’estrema povertà in cui viveva.  Questa madre, una bravissima Vanessa Scolera, al  ritorno di sua figlia non è in grado di gesti o parole di amore, di accoglienza, di tenerezza o comprensione, ma solo di sguardi ansiosi e di silenzi.

La giovane sente di essere una bocca in più da sfamare in una famiglia che vive in condizioni di estrema povertà, lei che aveva conosciuto l’agiatezza nella sua precedente vita da figlia. Sa di non essere gradita, di essere di peso.

L’amore, in questo deserto affettivo, sboccia tra lei e la sorellina: diversissime e complici. Adriana, rappresentata da una talentuosa Carlotta De Leonardis, accoglie “la ritornata” nel suo letto,  dove dormono capo e piedi, la cerca quando fugge da casa, l’abbraccia, sono complici di brevi fughe da un mondo angusto.  Tra loro non solo sguardi, ma anche corpi che si toccano, progetti e racconti.

La madre sufficientemente buona è una certezza, un riparo. La ritornata non è più figlia, è sola, da sola deve trovare la forza di essere, negli sguardi trovare se stessa. Non conosciamo il suo nome né nel libro né nel film: una ragazza senza identità, perché non figlia, abbandonata e riabbandonata, non voluta, non sognata. Un pacco, come si definisce lei stessa.

Molto diverso il film di Pedro Almodovar, che da sempre indaga sull’universo femminile.

Due madri, due madri single che vivono le loro storie in una Spagna che si interroga sul periodo franchista, che scava alla ricerca dei corpi dei suoi martiri.

Sono due madri che accolgono, anche se sole, sono madri che amano, piangono, ridono, accanto e per la figlia nata.

Come un archeologo ricerca i segni del passato, così Janis, una bravissima Penelope Cruz, cerca la verità sulla figlia che non le assomiglia e scopre una amara verità.

Due film che consiglio.

 

 


 

mercoledì 13 ottobre 2021

ALBERI LIBERI

 


Javier ha lanciato una petizione qualche mese fa con lo scopo di impedire di dipingere i tronchi degli alberi a Torino.

Ho deciso di approfondire come mai, tra i tanti problemi presenti in questo mondo sofferente, confuso, malato, inquinato, denutrito o supernutrito, depauperato e derubato, violento, come mai Javier avesse deciso di dedicarsi ad un problema che non mi pareva così grave.

Dove io abito c’è uno di questi famosi alberi dipinti e non provo indignazione guardandolo, eppure amo e difendo gli alberi e non solo, provo a difendere ogni forma vivente.

Ho incontrato Javier, l’ho ascoltato e ho capito.

Prima di tutto ho capito che lui i problemi, quelli degli uomini, li conosce molto bene perché li ha vissuti e li ha accolti per accogliere il dolore altrui. In lui c’è una ricchezza di esperienze che mi ha commosso: questa però è un’altra storia ed è solo lui che la può raccontare.

Poi ho capito che sbagliavo io a sottovalutare questa petizione. Gli alberi sono sculture viventi, belli e importanti, come tutti noi sappiamo, fondamentali, essenziali. Noi possiamo prendercene cura, anche se gli alberi vivono benissimo senza il nostro aiuto, perché in realtà la cura che dedichiamo a loro serve a noi.

Ed arriviamo al nòcciolo del problema: dipingere un albero per valorizzarlo, come crede chi lo fa, significa semplicemente assumere il punto di vista dell’uomo che strumentalizza e usa tutto a proprio uso e consumo. E’ bello un albero dipinto, così come è bello un murales. L’albero però è vivo e non necessita di essere abbellito dalle nostre mani: è bello in sé e per sé.

Il fatto che l’albero sia un essere vivente ci deve portare a considerare anche un altro aspetto della questione: i colori. L’artista torinese che dipinge gli alberi afferma di usare colori naturali. La parola naturale non necessariamente è sinonimo di salute: tutti noi sappiamo che alcuni funghi sono naturali ma tossici per l’uomo. Quindi sarebbe necessario analizzare i colori naturali usati per essere certi che non siano nocivi ai nostri alberi, già tanto penalizzati dal fatto di vivere in città e in una città altamente inquinata.

Quindi ancora una volta noi fingiamo di occuparci degli alberi ed invece usiamo l’albero per il nostro piacere.

Insomma una questione che mi pareva marginale in realtà è uno dei tanti esempi di come noi ci occupiamo della Natura e degli uomini: usiamo tutto e tutti e non ce ne rendiamo conto.

Dopo questa conversazione ho deciso di firmare questa petizione: non libererò un dissidente politico vittima della violenza di qualche dittatore sparso nel mondo disorientato e non salverò il mondo, ma permetterò agli alberi di essere liberi dalle colorate mani umane, di essere belli come solo loro sanno essere, sculture viventi, preziose e sempre più rare. Purtroppo.

Firma anche tu la petizione www.change.org/alberiliberi




martedì 12 ottobre 2021

ALTRO DI ME NON LE SAPREI NARRAR

 


 

“Altro di me non Le saprei narrar”

Lo conobbi per caso prima della pandemia e gli chiesi un’intervista, perché sentii subito che era una persona da intervistare per te lettore e lettrice, una persona lontana dalle luci dei mass media, dai social eppure molto interessante, molto di più di coloro che vogliono condizionarci con i loro pensieri e le loro opinioni solo perché conoscono e praticano il mondo dei social.

Sarebbe molto utile ai giovani essere influenzati da uomini come Mario.

La pandemia è stata un non tempo per molte attività ed anche le mie interviste sono state dapprima azzerate, poi telefoniche e ora finalmente in presenza.

Mi aspetta sulla porta di casa, alto, sorridente e mi introduce nella sua casa, nel suo salotto.

La prima cosa che balza evidente sono le sue chitarre, sedute ciascuna su una poltrona. Sono cinque e la sesta si trova appoggiata al tavolo rotondo, vicino alla sedia e al leggio. Le sento vive, le sento compagne di un viaggio, di una vita. Presenze.

Sul tavolo mille spartiti e libri di poesia.

Questo scenario mi rapisce ancora prima di iniziare l’intervista.

Iniziamo a dialogare e Mario prende subito la scena: la musica è l’argomento principe di un dialogo che diventa presto monologo.

La sua cultura musicale mi affascina: si muove con sicurezza e scioltezza dall’opera lirica alle canzoni di musica leggera, ricordando a memoria le parole e il motivo musicale, accennandolo, canticchiandolo, recitandolo, suonando. Assisto ad una vera e propria lezione musicale, dalla quale esco trasformata, come Mario ama affermare: “la musica ha la capacità di trasformare le persone, che non sono più le stesse dopo averla ascoltata”.

Questo amore per la musica, che condivido totalmente, mi riporta con il pensiero alla grande lezione del Maestro Ezio Bosso, al potere che la musica da lui suonata aveva e ha su ciascuno di noi.

Non posso non raccontargli di Emiliano Toso e della sua musica a 432 Herz.

Il mio ospite è convinto che “altro di me non Le saprei narrar” ( dice Mimì a Rodolfo nella Bohème) non ha altro da raccontarmi ed invece scopro che,

 oltre a coltivare la passione per la chitarra, ha svolto un incarico di grande responsabilità per la città di Torino  negli anni ‘70 e ‘80. Me ne parla con fierezza, mostrandomi alcuni numeri della rivista da lui diretta.

Scende la sera, si sente il fresco dell’autunno e apre un libro di poesie per leggere la poesia “Lo scialletto” di Trilussa:

Cor venticello che scartoccia l'arberi
entra una foja in cammera da letto.
È l'inverno che ariva e, come ar solito,
quanno passa de qua, lascia un bijetto.
Jole, infatti, me dice: - Stammatina
me vojo mette quarche cosa addosso;
nun hai sentito ch'aria frizzantina? -
E cava fôri lo scialletto rosso,
che sta riposto fra la naftalina.

- M'hai conosciuto proprio co' 'sto scialle:
te ricordi? - me chiede: e, mentre parla,
se l'intorcina stretto su le spalle -
S'è conservato sempre d'un colore:
nun c'è nemmeno l'ombra d'una tarla!
Bisognerebbe ritrovà un sistema,
pe' conservà così pure l'amore... -

E Jole ride, fa l'indiferente:
ma se sente la voce che je trema.

Mentre legge la poesia sento la presenza di sua moglie, morta molti anni fa e dell’amore che ha provato per lei.

Mi congedo da lui con un po’ di nostalgia: la nostalgia di un tempo di uomini colti, la cui cultura diventava la linfa dei progetti lavorativi, l’orizzonte entro il quale o oltre il quale navigare nella vita. Nostalgia dei salotti dove si conversava senza birra, senza caffè, nel silenzio di una casa, dove le voci di chi parla si possono ascoltare. Nostalgia della ricchezza di un incontro, io che incontro e dialogo virtualmente tutto il giorno senza sentirmi mai così ricca.

 

 

lunedì 4 ottobre 2021

CINEMAMBIENTE 2021

 

Caro lettore e cara lettrice,

è in corso a Torino Cinemambiente, una selezione dei migliori film e documentari sull'ambiente a livello internazionale.

Per chi non abita a Torino, c'è la possibilità di vederli in streaming, 24 ore dopo le proiezioni in sala.

E' sufficiente cliccare su questo link: https://festival.openddb.it/cinemambiente-2021/

C'è la possibilità di effettuare una donazione, diversamente la visione è gratuita.

Questo evento è, come ogni anno, un contributo alla cultura ambientale, al comprendere che siamo parte della natura e un contemplare gli scempi che abbiamo compiuto dal 1800 in poi, in un crescendo spaventoso.



Per ora ho visto "Arbore"s e ho scoperto che i Savoia hanno disboscato completamente la Sardegna nel corso del 1800,  terra che era, incredibile a dirsi per noi cittadini del XXI sec., un'isola piena di boschi.

Buona visione.


giovedì 16 settembre 2021

EUROPA

 




Non mi recavo a cinema dal gennaio del 2020.

Ero certa, certissima che a giugno 2021, appena le norme anticovid lo avessero permesso, sarei tornata a cinema a godere la visione di un film sullo schermo gigantesco, immersa totalmente nella storia proiettata senza alcuna distrazione.

Non è stato così. Non ci sono andata e mi sono stupita di me stessa e di quanto fossi cambiata in questi lunghi mesi di solitudine e di visione di film sul piccolo schermo del mio pc. Mi ero accontentata e continuavo a farlo.

Poi ho saputo pochi giorni fa che il cinema del mio quartiere, i F.lli Marx, dove ho visto in questi anni tantissimi film, avrebbe riaperto, e ho capito che era proprio giunto il momento di mandare un messaggio di speranza sia a chi con coraggio riapriva l’attività dopo mesi di inattività, sia a me stessa.

Il film che ho scelto si intitola Europa.

 Il regista fiorentino, Haider Kashid, è stato premiato a Cannes per questa sua opera.

E’ la storia di Kamal, un giovane iracheno, che dalla Turchia tenta di entrare in Europa dalla famosa  rotta balcanica.

Sbarcato in Bulgaria, catturato dalla polizia, si libera ed inizia a scappare attraverso la foresta, inseguito dai cacciatori di migranti, gente senza scrupoli.

Il film non ha dialoghi o colonna sonora, o meglio, la colonna sonora del film è il fiatone di Kamal che corre terrorizzato dagli spari, dagli elicotteri che sorvolano la foresta. Noi corriamo con lui, grazie ad una telecamera che inquadra il protagonista e le asperità del terreno. La tecnica usata mi ha ricordato il film “Il figlio di Saul” , la cui recensione puoi trovare nel mio blog.

Solo il dolce rumore dell’acqua delle cascatelle dalle quali il  giovane migrante si disseta, dona tregua all’incalzare della corsa.

Paura, sete, fame, dolore, solitudine: bisogni primari disattesi in questa corsa disperata per entrare in Europa ed essere accolto come rifugiato.

L’Europa, la culla dei diritti umani, la culla della civiltà greca-romana, la terra dove l’Illuminismo e la Rivoluzione Francese hanno rivoluzionato l’ordine sociale e politico, accoglie così i bisognosi di protezione e aiuto.

Lo sai, lo sappiamo, però correre con Kamal è efficace.

Geniale trattare il tema della rotta balcanica attraverso una storia individuale e non collettiva. Lo spettatore si immedesima, corre, inciampa, suda, si sente svenire dalla stanchezza e dalla paura, cerca rifugio, cerca cibo, si nasconde e capisce bene il viaggio della speranza via terra di molti esseri umani.

Lo consiglio.

giovedì 9 settembre 2021

A LITTLE LIFE





 Carissimo/a,

sono tornata!

Siete tantissimi. Quando scorro le statistiche sono stupita che tanti di voi stiano seguendo il mio blog.

Non ho scritto per molto tempo, capita a tutti coloro che scrivono, eppure voi state leggendo i miei vecchi articoli.

Grazie.

Oggi ho deciso di rompere il silenzio e di riprendere con la recensione di un libro per me speciale.

Davide, il mio amico libraio, dice che per alcuni è il libro della vita.

Io non so se ho un libro della vita: ho letto tanti libri e tanti mi hanno regalato sguardi, orizzonti nuovi, profondità sconosciute prima, insomma tanti mi hanno arricchito e sono miei amici.

Quindi non posso dirti che è il libro della mia vita, ma sicuramente che la storia in esso contenuta mi ha catturato.

Qui trovi la mia recensione.

UNA VITA COME TANTE

Il titolo originale è  “A Little Life”. Io avrei tradotto Little con “insignificante”, che è ciò che il protagonista prova, sente di se stesso e della sua vita.

No, per me la vita che viene raccontata nel libro non è una vita come tante.

E’ vero che le vite di molti esseri umani è piena di dolore provocato dagli altri, ma la vita che leggerete non è proprio come tante.

Un libro che mi mancherà, ora che ho terminato di leggerlo, anzi mi manca già, anzi questa sera penso che riprenderò a leggerlo per cercare altri tesori in esso racchiusi.

Un romanzo, come da tempo non leggevo, ricco come i romanzi dell’800 e attualissimo nei temi.

 Fino a pagina 131 la scrittrice racconta la storia di 4 amici al college, le loro storie familiari, i loro sogni. Giovani con un passato molto diverso, ma uniti e solidali. Giovani che continueranno ad essere amici, a condividere i loro successi professionali, a sostenersi nei momenti bui. Li seguiremo fino all’età adulta. Un avvocato, un attore, un architetto, uno scultore. A New York.

Emerge in queste prime cento pagine che uno dei quattro, Jude, ha vissuto una storia atroce, ma è solo da pag.135 che la storia di questo ragazzo ha iniziato ad occupare totalmente il mio cuore e la mia mente. A volte anche di notte.

Potrei dirti che è una storia di violenza sessuale ai danni di un orfano, ma non basta.

Potrei dirti che è la storia di un orfano, maltrattato, umiliato, picchiato, violentato sia dai monaci, sia dagli assistenti di un orfanotrofio, sia da un tale dott. Traylor che lo vuole morto e prova ad ucciderlo, senza riuscirci, ma lasciandogli come ricordo una sofferenza fisica atroce per tutta la vita alla schiena e alle gambe.

Potrei dirti che è la storia di un bellissimo ragazzo che non sa di esserlo, perché il corpo non lo sente suo, perché odia il suo corpo o che è la storia di un avvocato di successo, di un giovane brillante ed intelligente.

Potrei dirti che è la storia di un disabile, di un malato, di un autolesionista, di un aspirante suicida.

Ma così non capiresti la forza della storia, la sua potenza, la sua unicità.

La scrittrice non indulge mai nella descrizione delle violenze e degli abusi subiti (Jude non riesce a raccontare nulla di ciò che ha vissuto ), ma insiste sulle conseguenze che pesano ora dopo ora sulla creatura adulta, amata da amici e insegnanti, ma che si odia per ciò che è stato costretto a fare e ad essere. Il dolore che  sente, si palpa, porta tutti ad aiutarlo, a stimarlo, ad essergli accanto, anche se nessuno sa veramente cosa Jude abbia vissuto durante la sua infanzia e adolescenza.

È così come ti ho scritto sopra, ma è molto di più. E’ una storia di un dolore travolgente e di un amore che ripara, che aggiusta, che comprende, che accoglie, che abbraccia, che contiene, che permette di vivere ancora.

È un’altalena continua per il lettore: si scende negli inferi della brutalità umana e si sale nei vertici di amori paradisiaci.

E’ una storia di amicizia, di amicizie, ma anche una storia di un forte amore paterno, percepito da Jude solo a 51 anni, dopo essere stato adottato a trent’anni, ma non essere riuscito ad affidarsi prima al padre. Per paura di essere tradito, usato, abusato ancora una volta.

E’ la storia dei ricordi che diventano mostri pronti a distruggere.

Jude non si ama e non capisce perché Harold, William, Malcom, JB, Andy, Richard e altri ancora possano amarlo.

Lo amano solo perché  non sanno chi lui sia veramente, chi sia stato.

E’ soprattutto la storia di Jude e di William, di un’amicizia che diventa amore, amore tenero, amore platonico, amore totale e la vita di Jude finalmente cambia e anche quella del lettore.

La vita di Jude cambia ma non per sempre, perché nulla è per sempre, ma per fortuna anche nella vita di un uomo, che da bambino è stato ripetutamente violentato, può esserci spazio da grande per la felicità.

Non so se questo sia il messaggio dell’autrice o è quello che io desidero sia il messaggio possibile: auguro a tutti coloro che durante l’infanzia hanno subito traumi che hanno lasciato cicatrici sanguinanti di poter essere felici.

La storia non termina qui, ma ti consiglio  di leggerla, per la sensibilità con la quale Hanya Yanagihara ha trattato temi attualissimi e per i suoi personaggi, in particolare Jude e William, indimenticabili.

William, di cui ti ho parlato pochissimo, è un eroe, un uomo capace di amare incondizionatamente e di dare a Jude la forza di vivere.

E’ una storia di dolore: così mi disse il mio amico libraio quando me lo consegnò.

Ed io aggiungo: dolore, sì, tanto e amore, altrettanto.