“Altro
di me non Le saprei narrar”
Lo conobbi per caso prima
della pandemia e gli chiesi un’intervista, perché sentii subito che era una
persona da intervistare per te lettore e lettrice, una persona lontana dalle
luci dei mass media, dai social eppure molto interessante, molto di più di
coloro che vogliono condizionarci con i loro pensieri e le loro opinioni solo
perché conoscono e praticano il mondo dei social.
Sarebbe molto utile ai giovani
essere influenzati da uomini come Mario.
La pandemia è stata un non
tempo per molte attività ed anche le mie interviste sono state dapprima
azzerate, poi telefoniche e ora finalmente in presenza.
Mi aspetta sulla porta di
casa, alto, sorridente e mi introduce nella sua casa, nel suo salotto.
La prima cosa che balza
evidente sono le sue chitarre, sedute ciascuna su una poltrona. Sono cinque e
la sesta si trova appoggiata al tavolo rotondo, vicino alla sedia e al leggio. Le
sento vive, le sento compagne di un viaggio, di una vita. Presenze.
Sul tavolo mille spartiti e
libri di poesia.
Questo scenario mi rapisce
ancora prima di iniziare l’intervista.
Iniziamo a dialogare e Mario
prende subito la scena: la musica è l’argomento principe di un dialogo che
diventa presto monologo.
La sua cultura musicale mi
affascina: si muove con sicurezza e scioltezza dall’opera lirica alle canzoni
di musica leggera, ricordando a memoria le parole e il motivo musicale,
accennandolo, canticchiandolo, recitandolo, suonando. Assisto ad una vera e
propria lezione musicale, dalla quale esco trasformata, come Mario ama
affermare: “la musica ha la capacità di trasformare le persone, che non sono
più le stesse dopo averla ascoltata”.
Questo amore per la musica,
che condivido totalmente, mi riporta con il pensiero alla grande lezione del
Maestro Ezio Bosso, al potere che la musica da lui suonata aveva e ha su
ciascuno di noi.
Non posso non raccontargli di
Emiliano Toso e della sua musica a 432 Herz.
Il mio ospite è convinto che
“altro di me non Le saprei narrar” ( dice Mimì a Rodolfo nella Bohème) non ha altro da
raccontarmi ed invece scopro che,
oltre a coltivare la passione per la chitarra,
ha svolto un incarico di grande responsabilità per la città di Torino negli anni ‘70 e ‘80. Me ne parla con fierezza,
mostrandomi alcuni numeri della rivista da lui diretta.
Scende la sera, si sente il
fresco dell’autunno e apre un libro di poesie per leggere la poesia “Lo
scialletto” di Trilussa:
Cor venticello che scartoccia l'arberi
entra una foja in cammera da letto.
È l'inverno che ariva e, come ar solito,
quanno passa de qua, lascia un bijetto.
Jole, infatti, me dice: - Stammatina
me vojo mette quarche cosa addosso;
nun hai sentito ch'aria frizzantina? -
E cava fôri lo scialletto rosso,
che sta riposto fra la naftalina.
- M'hai conosciuto proprio co' 'sto scialle:
te ricordi? - me chiede: e, mentre parla,
se l'intorcina stretto su le spalle -
S'è conservato sempre d'un colore:
nun c'è nemmeno l'ombra d'una tarla!
Bisognerebbe ritrovà un sistema,
pe' conservà così pure l'amore... -
E Jole ride, fa l'indiferente:
ma se sente la voce che je trema.
Mentre legge la poesia sento la presenza di sua moglie, morta molti anni fa
e dell’amore che ha provato per lei.
Mi congedo da lui con un po’ di nostalgia: la nostalgia di un tempo di
uomini colti, la cui cultura diventava la linfa dei progetti lavorativi,
l’orizzonte entro il quale o oltre il quale navigare nella vita. Nostalgia dei
salotti dove si conversava senza birra, senza caffè, nel silenzio di una casa,
dove le voci di chi parla si possono ascoltare. Nostalgia della ricchezza di un
incontro, io che incontro e dialogo virtualmente tutto il giorno senza sentirmi
mai così ricca.
Nessun commento:
Posta un commento