L’appuntamento è per le nove
del mattino con il mio gruppo fotografico.
Obiettivo: fotografare Torino
dal mio punto di vista.
Ufficialmente l’inverno deve
ancora arrivare: qualche fogliolina colorata ondeggia precaria dai rami spogli,
superstite di un autunno dorato e luminoso, che ha restituito agli occhi il sole
estivo nel giallo delle foglie dei platani o dei ginko biloba. Ora tappeti di
foglie marroni ricoprono giardini e parchi. La temperatura è quella dei primi giorni di dicembre a
Torino: al limite dello zero, un po’ più sotto di notte, con ghiaccio mattutino
e un po’ più su verso le dodici, quando il sole scalda.
Sono attrezzata con il mio
smartphone nella tasca del giaccone bene abbottonato. Sono pronta.
La passione per la fotografia
è nata recentemente: ho sempre amato fotografare, ma quando esistevano i
rullini, mi capitava di fotografare nelle grandi occasioni, durante le vacanze
e senza particolare maestria.
Poi la vita ha iniziato a regalarmi
un po’ di tempo libero e ho visitato delle mostre fotografiche, ho conosciuto
grandi fotografi, Sebastio Salgado, Steve McCurry, Robert Capra, Yann Arthus-Bertrand,
ho incontrato fotografe meno note come Anna Balbiano, prematuramente scomparsa,
che mi ha insegnato a scoprire la vita in ogni angolo della città: ho scoperto
una passione.
Lo smartphone è sempre a disposizione
e così ho iniziato a fotografare tutto ciò che mi piaceva, mi colpiva, visi
umani, fiori, alberi, paesaggi naturali e urbani. Qualche foto l’ho postata
sullo status di wattsapp e ho ricevuto dei complimenti. Qualche foto ha
illustrato il mio libro, su esplicita richiesta del mio editore, che apprezza
le mie foto.
Ed eccomi qui ad imparare come
renderle migliori, come raccontare storie con le immagini, in un linguaggio che
è universale. E questo mi piace moltissimo, visto che amo raccontare storie.
La piazza è deserta, i negozi
sono chiusi, le gru e le impalcature regnano sovrane, ostacolando il mio
sguardo e l’oggetto della mia ipotetica foto.
Potrei realizzare un reportage
sull’impatto del 110% sulla città.
Ci sono loro, quattro senza fissa dimora,
sopravvissuti al freddo della notte, seduti sulle panchine, che
chiacchierano. Vorrei fotografarli, sono
belli nel loro condividere il risveglio, senza le liti per il posto notte. Non
lo faccio: la foto del regista Mimmo Calopresti scattata proprio in questa
piazza pochi giorni fa, di notte, ad un clochard, ha reso a tutti la tristezza
di questi tempi, tra le vetrine dorate e la miseria, un contrasto tra i tanti
del mondo delle disuguaglianze.
Inizio a percorrere con lo
sguardo ciò che mi circonda pensando ad un reportage da Torino: non certo una
meta esotica, non certo originale, ma la mia Torino.
Mi piacciono i lampioni torinesi, bella la vista da Via Bertola verso le montagne innevate della Val Susa ma, una enorme gru si erge sovrana, belle le due cupole di San Lorenzo e quella del Duomo, ma, Piazza Castello è tutta rossa di mezzi dei vigili del fuoco che festeggiano santa Barbara. Trovo il modo di immolarle nella mia Torino: il Guarini mi piace e con lui le sue cupole. La città è vuota, i negozi sono ancora chiusi, ma fotografare Chiese e palazzi è arduo tra una gru e un ponteggio.
Sto cercando la mia Torino e
mi avvio verso Via Alfieri, dove c’è la sede della Banca Nazionale del Lavoro,
a Palazzo Levaldigi con la sua porta del diavolo.
La strada è stretta e il sole
non è ancora arrivato fin qui, forse non ci arriva proprio. A destra e a
sinistra si elevano palazzi signorili, sedi di Banche. Piano piano torno
indietro nel tempo e aspetto che dalla porta del Diavolo esca quella ragazza
romana, appena sposatasi con un giovane torinese incontrato in vacanza, che
lavorò per qualche anno nella sede della BNL. Il bar, dove quella giovanissima donna
mangiava un panino a pranzo, è stato sostituito da una tabaccheria. Per il
resto appare tutto uguale tranne che la sede del bancomat è proprio nello
stesso posto dove lavoravo io, con quel primo enorme terminale che si bloccava
sempre e che creava tanta ansia a me e ai clienti.
Il freddo inizia a impossessarmi
di me: è la vertigine del pensiero degli anni trascorsi, dei sogni di quella
ragazza romana e di questa donna che oggi è qui, e scrive e fotografa.
La foto del portone è pessima.
L’emozione dei ricordi mi travolge letteralmente e non trovo nessuna
inquadratura adatta a rendere la tempesta che vivo.
Il freddo: non lo amo. Il
freddo è contrazione del mio corpo, dei pori della mia pelle, della testa nel
berretto, della bocca nella mascherina, delle mani nelle tasche, è uno strano
intorpidimento cerebrale che mi rimanda al caldo, al desiderio struggente di
calore dentro. Il freddo è chiusura: odio le porte chiuse, odio i muri.
La mia Torino diventa quindi un’altra Torino, quella dei ricordi di un tempo lontano, ma poi anche quella del sorriso del Topolone che incontri per via con i palloncini colorati,
quella
del mangiatore di fuoco che si esibisce davanti ad un pubblico di bimbi, quella
del pompiere che mi risponde che quel bel mezzo motorizzato, il primo, era del
1700 e davanti al mio stupore si scusa che non sa proprio dirmi la data
precisa. Lui è un pompiere, io non saprei fare il suo pericoloso lavoro, lo
ringrazio ma penso che la cultura di base sarebbe auspicabile per tutti. Quello
era il senso della scuola media unica. Quella Scuola nella quale ho lavorato
con orgoglio e soddisfazione e saprei fotografare quelle porte attraverso le
quali sono entrata e uscita tante volte.
La mia Torino è quella del musicista che incontri per via, è quella dei volontari dell’associazione Ail che vendono le stelle di natale per contribuire alla ricerca e la cura delle leucemie,linfomi e mieloma,
la mia Torino è quella di due pianoforti che si abbracciano davanti alla statua di Emanuele Filiberto per una esibizione di un giovane influenzer, Pietro Morello, a sostegno dell’Istituto di Candiolo.
Mi piacerebbe ascoltare in
questa piazza Emiliano Toso, il mio musicista preferito, la cui musica è
balsamo e sollievo, gioia e danza.
Guardo le scarpe del
giovanissimo musicista che ha dieci anni meno del mio secondogenito, è più
giovane dei miei allievi, ex, vedo le suole pulite. Mi colpiscono quelle suole
nuove di zecca, penso ai piedi nudi di Emiliano quando suona, penso alle suole
delle scarpe di chi cammina molto, penso a chi non ha scarpe, a chi le cerca
nelle discariche (Vittorio Zucconi “Stranieri come noi”), a chi scende dai
barconi con gli infradito, a chi si avventura nella neve per arrivare in Europa
con scarpe di fortuna, guardo le mie.
Piazza San Carlo prima deserta
ora è affollata di persone con la mascherina, alcuni con le mani piene di
pacchettini: molti sono seduti al bar, molti in piedi ad ascoltare il concerto
dell’influenzer.
Un famoso scrittore si sedette
ad un tavolino di un bar a Parigi e aspettò: vide scorrere la vita e la
descrisse.
Aspettare e osservare: ottimo
esercizio per aspiranti scrittrici e fotografe.
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