sabato 20 marzo 2021

CHI HA VARCATO LA SOGLIA N. 10 E N. 11

 

Car* lettrici e lettori,

questa settimana condivido, come già sapete, il progetto di Cascina Macondo di mettere a confronto i diversi punti di vista per svelare il carcere, con l'augurio che le molteplici storie personali di coloro che,a qualunque titolo, hanno varcato la soglia del carcere, condivise, possano essere spunto di riflessione, arricchimento intellettuale e letterario.

Questa sera condivido due testimonianze ( perchè sono io in ritardo di una settimana). 




TESTIMONIANZA N° 10


RIFLESSIONI DI UN ÈX RAGAZZO
CHE HA VARCATO LA SÒGLIA SIN DA ADOLESCÈNTE
di ANÒNIMO - P.S.  - detenuto




Dopo avér trascorso quasi 30 lunghi anni della mìa vita tra càrcere minorile, case circondariali e case penali, pènso, dall'alto (o dal basso) della mìa esperiènza, di potér dire la mìa.
Il motivo che mi ha fatto varcare la sòglia la prima vòlta è da attribuìre al solo fatto che, crescèndo in mèzzo alla strada, hò cominciato a desiderare le còse che un adolescènte pòvero e privo di punti di riferimento può volere in più.
Quasi inevitàbile il destino di finire in càrcere.
Non sono però un vittimista, uno di quelli che pènsano che la colpa sìa sèmpre degli altri.
Il càrcere mi ha tòlto e mi ha dato.  Va da sé che nel lungo perìodo trascorso nelle varie galère, hò potuto assìstere ai meccanismi del sistèma e vìvere in prima persona la vita carceraria.
Banalmente pòsso affermare che in càrcere tròvi tanta povertà, ignoranza, e soprattutto tanta violènza, che a mìo avviso è dettata da una forma di cultura e di difesa.
Pòsso anche assicurare che nel mìo lungo percorso dentro le mura hò trovato molte persone sensìbili che dèdicano il loro tèmpo ai reclusi, che vanno dai criminòlogi e psicòlogi, educatori, volontari, ma soprattutto docènti. L'univèrso carcerario è composto però anche di persone a cùi dei reclusi non impòrta nulla: queste persone pòssono èssere acculturate o ignoranti, ma si sènte che non hanno umanità e quindi a noi non pòssono insegnare nulla con l'esèmpio, ma solo scatenarci dentro i sentimenti più negativi come rabbia, rancore, in cèrti casi òdio.
Da parte mìa hò intrapreso un percorso di istruzione nelle varie istituzioni e con grande interèsse hò studiato (con pèssimi voti...), recitato nei vari teatri e credo che tutto ciò mi abbia insegnato la tolleranza vèrso il pròssimo.  
Un bèl giorno, avvertèndo che respiravo male, vado in vìsita mèdica: come sèmpre, paracetamòlo e cortisone.
Dopo vari cicli di medicine, un mèdico del càrcere decide di farmi fare una tac.
Èsito funèsto: un problèma classificato "eteroplàstico", più semplicemente adenocarcinòma.
Con le lungàggini del càrcere e del magistrato di sorveglianza, il tumore intanto da 17mm passa a 47mm.
Trascórrono altri dùe anni con la spiacévole sensazione di avere una bestia che ti cresce dentro mentre tu non hai diritto alla cura: metàstasi e linfonòdi.
Quando apprèndo con certezza che il mìo problèma di salute è di quelli sèri, il mìo umore ha un colpo psicològico: sono pièno di ansia e di incertezze per vìa che in càrcere - con i tèmpi lunghìssimi e la burocrazìa carceraria che va dal magistrato di sorveglianza al DAP, di nuòvo al càrcere e infine al dirigènte sanitario - sarà difficilìssimo venirne a capo.
Dèvo pur aggrapparmi alla vita e, per vìa del mìo caràttere, sènto di dovér lottare e di non lasciarmi andare. L'ansia però divènta ogni giorno più opprimènte e per distrarmi da essa inizio a frequentare i corsi di biodinàmica, teatro, educazione fìsica offèrti dalla scuòla, ma per vìa dei tèmpi lunghìssimi il mìo problèma va aggravàndosi.
Nella mìa tèsta sò che non dèvo cèdere all'ansia o al rancore: non dèvono sopraffarmi e mi impongo di fare tutte le còse di cùi sopra, anche se la mìa situazione fìsica è sempre più débole.
Finalmente, dopo un mìo esposto alla procura e martellamento di mìa moglie all'estèrno del càrcere, mi ricóverano alle Molinette per il primo ciclo di chemioterapìa.
Mi sospèndono la pena e vèngo scarcerato, pòi mi danno i domiciliari: affronto dùe intervènti e tèrmino vari cicli di chèmio e radio.  
Òggi continuo con una terapìa antitumorale.
Ora c'è il coronavirus, molti detenuti hanno paùra, ma ìo mi permetto di dire loro di non arrèndersi mai e di lottare. Ìo non sono guarito, ma sono vivo e vègeto e stò abbastanza bène. I problèmi più urgènti ora sono altri: sulla sòglia dei 60anni, mi tròvo ancora ancorato a problèmi di giustizia. Prèndo 290 èuro di pensione di invalidità e i problèmi econòmici pésano anche all'intèrno delle mura domèstiche.
Condivido il pensièro di Dostoevskij,  cioè che la civiltà di un paese si misura con lo stato delle càrceri. Qualcuno potrà obiettare sul fatto che sono di parte: è vero, non lo biàsimo, ma dalla mìa di parte ci sono 30 anni di branda.
In bocca al lupo a noi tutti!

 

TESTIMONIANZA N° 11

FINALMENTE LIBERO
di Raul Bucciarelli - medico


Era il 1995 ed ero davvero  ancora agli inizi della mia professione di medico. Il lavoro di sanitario presso una struttura carceraria durò un paio di anni. Un periodo breve, ma che mi ha insegnato molte cose.  Lui lo ricordo ancora molto bene, anche dopo venticinque anni, fra i tanti volti passati,  visti e rivisti tante volte da dietro l'austera scrivania della infermeria della Casa Circondariale di B.  Quella scrivania era divisa dalla libertà da otto solerti porte automatiche e centocinquanta passi. Lui era  alto e magro, con una barbetta brizzolata ruvida e rada, gli occhi vivissimi e guizzanti, i capelli incolti e lunghi..... Il suo volto scavato raccontava con trasparenza un infinito dolore e rassegnazione. Il cognome declinava con certezza le sue origini siciliane. Il suo dialetto inconfondibile e schietto raccontava sicuramente Palermo. Lui era  uno dei tanti detenuti che al mattino faceva la fila nell'ambulatorio del carcere. Non ho mai voluto sapere, naturalmente,  perchè fosse finito in un penitenziario. E alla fine non l'ho mai saputo.  Questo era per me un principio fondamentale ed imprescindibile  per poter esercitare con serenità  il lavoro di medico in un posto non facile come quello. Ogni tanto gli agenti di custodia mi raccontavano  qualche cosa sul passato dei miei pazienti,  ma io cercavo di  glissare sempre. I miei pazienti erano solo dei malati.  Lui era un paziente abituale, e passava in infermeria abbastanza spesso. Si sedeva appoggiando il gomito destro sulla scrivania, mi guardava fisso negli occhi e mi ripeteva: "Dottore, non mi funziona bene il cervello". Lo diceva con tono accorato e anche un pò teatrale con gli occhi rivolti verso il cielo, quasi a cercare una sorta di benedizione o qualto meno di approvazione divina. Gli chiedevo di spiegarmi bene, ma non c'era molto da dire.... si prendeva la testa fra le mani e mi diceva: "Il cervello dottore.... il cervello". La sua cartella clinica raccontava innumerevoli valutazioni psichiatriche con variopinte diagnosi: "Stato depressivo", "Note di delirio persecutorio", "Disturbo schizotipico di personalità".... Nessuna di queste definizioni raccontava chi era.... Lui si recava in infermeria più per chiacchierare o per chiedere di aumentare il dosaggio già altissimo degli psicofarmaci per alleviare chissà quale disagio profondo.
Gli agenti di custodia lo consideravano un tipo bizzarro ma nella sostanza non particolarmente pericoloso.... Un mattina però arrivò più agitato del solito e finalmente riuscì a dirmi qualcosa di più.  
Era molto preoccupato, perchè tra qualche giorno avrebbe concluso la detenzione e come si suole dire: "si sarebbero aperte le porte del carcere". Con la testa tra le mani continuava a ripetermi: "Dottore adesso dove andrò? Non ho nessuno che mi aspetta...dovrò tornare a Torino..."
Non avevo mai riflettuto su  una situazione del genere. Non si pensa mai che per molti esseri umani il carcere rappresenta una sorta di casa. Fuori mancano spesso  affetti, amicizie, legami familiari. Molti hanno la residenza nell'istituto di pena e non sanno neanche dove dormire. Fuori manca il  lavoro, non si è più nessuno. Il carcere per molti rappresenta una sorta di identità e il dopo è solo insicurezza.  
Ho avuto un colloquio non facile. Cosa si può dire oltre qualche ovvietà? La direzione da me interpellata mi ha assicurato che sarebbe stato in qualche modo comunque affidato ai servizi sociali di Torino.
Dopo tre giorni è uscito. Mi hanno detto che aveva uno scatolone legato col cordino e un sacco nero dell'immondizia con tutte le sue cose. Aspettava l'autobus per la stazione. Finalmente libero.


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