domenica 25 febbraio 2018

PRENDO AMORE


PRENDO AMORE




Giovedì 22 febbraio 2018 al Teatro Vittoria di Torino la compagnia del Teatro Babel ha debuttato con la terza produzione, Prendo Amore.
La compagnia Babel è un gruppo teatrale nato nel 2013 composto da attori afasici, i senior  e studenti-attori, junior, in formazione e la giovane regista, Lorena La Rocca.
Tra gli attori senior c’è mio marito, afasico dal 2006 a seguito di un ictus ischemico.
L’afasia è un disturbo del linguaggio, conseguente ad un danno cerebrale, e letteralmente significa: incapacità di parlare.
Io ero più agitata di lui: sono riuscita ad aprire lo sportello di una macchina parcheggiata sotto casa mia, con le luci accese, in seconda fila, che assomigliava vagamente a quella di una mia amica, senza pensarci due volte, lasciando di stucco le persone che stavano placidamente chiacchierando. Ho continuato per tutta la serata con vari lapsus, ho svolto le mie attività, che amo, con la testa in via Gramsci, dove stavano provando,  fino a quando finalmente il sipario non si è alzato.
Essere sul palcoscenico è sempre, per tutti, un’emozione, ma per chi ha una disabilità, decidere di mostrarla agli altri dal palcoscenico, decidere di intessere una storia che sia storia di tutti attraverso la propria disabilità è cosa assai difficile.
Quando il sipario si è finalmente alzato e le musiche hanno iniziato ad accompagnare la storia delle coppie, le nostre coppie, le coppie di persone con afasia e emiparesi, ma anche di tutte le coppie del mondo, ecco, ho visto sfilare davanti a me, a noi, i molteplici modi di essere coppia, di essere.
Le coppie sul palco hanno usato con parsimonia la parola, parola che nella vita di tutti i giorni è usata a fatica, usando  il corpo, anche se ferito, per raccontarci come si può stare insieme. L’atto scenico per dare forma ai silenzi. Sulla scena una tavola e un’altalena e un’animazione che indica una possibilità. Foto che scorrono per ricordare, musiche di altri tempi per accompagnare, corpi in movimento.
Ed ecco in scena l’incontro e la gioia di trovarsi insieme, di sognare, di accompagnarsi, di accarezzarsi, di giocare, di rincorrersi gioiosi, ma anche ecco che uno dei due si fa trascinare svogliatamente nella vita, ecco che uno dei due trattiene a forza l’altro nella propria vita e l’altro  si agita perché vorrebbe andare via.  Quando intorno alla tavola imbandita la coppia pare aver trovato l’armonia,  l’evento traumatico prende la scena, senza preavviso, l’ictus, un colpo, un’interruzione del normale fluire della vita, una perdita, una parte che sparisce.  Colui che ne è colpito si ritrova in una bolla, vede, sente, capisce, ma non può comunicare all’altro, agli altri, ciò di cui ha bisogno per essere, per vivere.
In questa nuova situazione i ruoli della coppia cambiano repentinamente, la reciprocità, la parità sembra sparire. Nasce l’affanno del partner sano, la voglia di scappare, di vivere la propria vita senza dover trascinare l’altro, il caregiver si sente costretto, poi rassegnato e poi scopre, se  rimane, se  ha pazienza, se aspetta,  scopre una dimensione nuova di tenerezza, di stima, anche di fatica, ma anche di scoperta di altre parti di sé e dell’altro che emergono proprio nel momento che la vita  offende e schiaffeggia.
Insieme si può.
Una storia di amore, che attraverso le storie degli attori senior e junior arriva a tutti, a volte commuove, a volte fa sorridere, a volte fa riflettere in un momento storico in cui le giovani coppie pare fatichino dinanzi alle difficoltà che la vita pone, senza sapere che  aspettando un po’ arriveranno tempi migliori e quell’amore che pareva morto può rinascere a nuova vita.
Non sempre accade, certo, ma forse il messaggio forte e chiaro è proprio per i nostri giovani, ai nostri figli.
Insieme si può.
Progetto ambizioso quello della compagnia Teatro Babel, coinvolgere soggetti afasici nella realizzazione scenica della loro vita, per comprenderla meglio, per comunicare meglio, per ridurre differenze e disagi, per afferrare quella mano tesa che ti permette di uscire dalla bolla.
Complimenti a Davide, Fabiano, Maria, Edoardo, Elena, Aldo, Lina, Francesco, Lucia, Marta, Adriana, Pierluigi, Evaluna, Veronica, Antonietta, Greta, Vittorio, Mariarita, alla regista Lorena e a tutti i suoi collaboratori.
In attesa della replica, il mio personale ringraziamento va al Centro Afasia CIRP della Fondazione Carlo Molo onlus, che crede nel gruppo teatrale come momento di  formazione permanente e incontro tra generazioni. Il top.


domenica 18 febbraio 2018

LA FERROVIA SOTTERRANEA




La storia inizia con la nonna di Cora, una delle 88 anime vendute per 60 casse di rum e polvere da sparo a Ouidau.
La nonna, Aiarry, fu venduta e comprata molte volte prima di finire nella piantagione dei Randall, in Georgia, dove morì, in mezzo al cotone.
Ebbe tre mariti, 5 figli e una sola sopravvisse, Mabel, la mamma di Cora, che fuggirà e troverà la morte poco lontano dalla piantagione.
Cora, abbandonata dalla mamma quando era ancora una bambina, impara molto presto a sopravvivere alla brutalità dei bianchi, a difendere quel poco che la mamma le aveva lasciato, fino al giorno in cui decide di ribellarsi proteggendo con il suo corpo quello di un bambino, Chester, picchiato per capriccio, per piacere sadico, come accadeva sempre nella piantagione dei Randall. Di quel giorno porterà la cicatrice per tutta la vita.
Come la mamma, Cora decide di fuggire da lì, con Caesar.
A salvarli una ferrovia sotterranea, costruita per portare al Nord i fuggiaschi, le cui stazioni erano installate sotto case di bianchi abolizionisti e coraggiosi.
La loro storia continua da fuggitivi, mai del tutto integrati e voluti, dalla Carolina del Sud, dove sperano di restare per tutta la vita, a quella del Nord, inseguiti da un cacciatore di schiavi, Ridgeway.
Sfilano sotto i nostri occhi, i corpi martoriati di decine e decine di schiavi.
La vita di Cora si intreccia con quella di bianchi coraggiosi e di neri nati liberi che sognano di realizzare un mondo migliore. Quasi tutti moriranno tragicamente.
La storia trasuda violenza ad ogni pagina, ma senza soffermarsi, senza indugiare, racconta in modo chiaro ciò che succedeva in America prima dell’abolizione della schiavitù.
Non è il primo libro a trattare questo tema, abbiamo tutti noi, credo, letto e/ visto film in merito, questo testo però ha il merito di aver trasferito in un romanzo parte delle memorie di ex schiavi raccolte nel Federal Writers’ Project, voluto da F. Roosevelt negli anni Trenta.
Non è un libro storico, l’autore si avvale della finzione letteraria della ferrovia sotterranea per portarci di Stato in Stato a conoscere i bianchi antischiavisti, a scoprire i diversi modi di trattare i neri, fino a comunità come quella di Valentine, in Indiana.
Pochi minuti prima che i bianchi irrompessero nella comunità e uccidessero Valentine, distruggendo tutto ciò che aveva costruito,  disse che lui era fuggito dalla Virginia per risparmiare ai suoi figli i danni del pregiudizio, ma salvare due bambini non è abbastanza perché:
“ Finchè uno solo della nostra stirpe subiva i tormenti della schiavitù, io ero un uomo libero solo di nome. Voglio esprimere la mia gratitudine a tutti i presenti per avermi aiutato a rimediare. Che voi siate qui con noi da anni o solo da poche ore, mi avete salvato la vita”.
Libro molto utile, da leggere non solo per affezionarsi a Cora, una grande donna animata dalla speranza di diventare libera, ma anche per ricordarsi che il pericolo della violenza dell’uomo sull’altro uomo per futili motivi finirà solo alla fine dei tempi.
Nel frattempo dobbiamo scegliere da che parte stare.

Vincitore del Premio Pulitzer, questo libro è destinato a diventare un classico della letteratura nordamericana.

giovedì 8 febbraio 2018

LA MIA PROFESSORESSA DI LETTERE DELLE MEDIE

Sono seduta nel salone dove mia madre per anni si recò ad ascoltare le Professoresse delle sue tre figlie femmine, per le quali, d’accordo con mio padre, aveva deciso che studiassero qui, presso l’Istituto scolastico cattolico vicino a casa.
All’epoca l’istituto era frequentato solo ed esclusivamente da donne.
Donne le suore orsoline, ovviamente, donne le professoresse laiche, donne le allieve, donne le mamme che si recavano ad ascoltare con rispetto ed educazione le insegnanti.
Sono cresciuta in mezzo alle donne. Ho dieci cugine, rigorosamente donne. Ho avuto otto zie, tutte molto presenti nella mia vita. Unico uomo della mia infanzia è stato mio padre: un grande uomo.
Non ho avuto nonni e i tre zii acquisiti erano piuttosto assenti. Uno solo, un cugino di secondo grado mi è stato tanto vicino da sentirlo padre e amico.
Ho deciso di trascorrere qualche giorno a Roma e ho scelto di tornare dove ho studiato, dove ho calpestato per anni il pavimento, mentre i miei pensieri e la mia testa volavano oltre quei muri, oltre quel chiostro, oltre quella chiesa.
Ho ricevuto premi, medaglie di argento e di bronzo, mai di oro, ho ricevuto complimenti e rimproveri, ho visto film che non dimenticherò mai, ho ballato sognando di diventare una novella Carla Fracci, ho giocato a pallacanestro nel bel cortile contornato da pini mediterranei. Lo guardo ora quel campo da basket e penso a come eravamo diverse allora.
Nessun genitore aveva il tempo di assistere ad una partita intera di basket e nessuna sorella o fratello assisteva e tifava. La squadra era la nostra e noi giocavamo, senza tifo, per il piacere di giocare, con rispetto delle regole e con la soddisfazione di aver centrato il canestro. Era la squadra e l’allenatrice, ovviamente donna, a darci la giusta carica. Se avevamo un infortunio era considerato ovvio, visto che giocavamo a basket.
Peccato che per amore smisi troppo presto di giocare, ma questa è un’altra storia.
A scuola eravamo sole con la nostra realtà, i nostri successi ed insuccessi e nessuno della famiglia avrebbe mai superato quel confine, quel territorio nel quale dovevamo metterci alla prova, sperimentare ingiustizie, delusioni e temprarci per la vita.
Oggi i genitori, lo sappiamo bene, vogliono vivere momento per momento la vita dei figli, sostituirsi, discutere, commentare, avulsi dal contesto vogliono ricostruirlo, alla ricerca delle ingiustizie dalle quali proteggerli, senza farli crescere, anche nella delusione, soprattutto nella sconfitta.
Quello che poi ci veniva ripetuto tante volte era la parola BONTA’.
Negli anni successivi le parole indicanti concetti assoluti, quali la bontà, sono state eliminate dal nostro vocabolario,  si aveva paura a pronunciarle. Credo sia stato un errore, visti i risultati. Noi siamo stati una generazione che ha conosciuto i sensi di colpa e che ha cercato di evitarli ai propri figli. Eppure, se non si diventa paranoici, i sensi di colpa  possono essere utili, se non a noi, agli altri. Sono limiti, paletti. Lo so, scrivo cose scomode, fuori moda. Soffrire per aver commesso un atto che nuoce all’altro è un ottimo modo per non ripetere quell’atto, perché non si vuole soffrire. Non per paura di punizioni esterne, per paura della punizione che ci infliggiamo da soli perché comprendiamo il dolore dell’altro.
Si impara ad essere buoni, si può provare, non remissivi, ed essere gentili, altruisti è solo un merito per sé e un piacere per gli altri. Non si è degli sconfitti, dei perdenti o degli sfigati, come direbbero i ragazzi oggi: ad essere buoni, ovvero a perseguire il bene, c’è solo da guadagnare oggi, qui, sulla Terra, senza aspettare ricompense future.
Dante ha mostrato con chiarezza che ciò che siamo, saremo per sempre e ciò che abbiamo fatto, resta, indelebile, per sempre, inanellando una catena di conseguenze che ricadono sugli altri. Sempre.
A tal proposito consiglio un testo tra i tanti del filosofo Norberto Bobbio “Elogio della mitezza” . Riporto qui un passo: “Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore” “Il mite non è remissivo e neanche bonario…la mitezza è una virtù.”

Immersa in queste riflessioni, ripensando all’educazione ricevuta in perfetto accordo tra la scuola e la famiglia, ricordandomi la patente di bontà che ci veniva data se facevamo dei fioretti, ovvero dei piccoli sacrifici, a cui venivamo abituate, aspetto la mia Professoressa di lettere delle medie.
Io avevo 11 anni, allora, quando mi insegnava a scrivere i temi, oggi sono anch’io una docente di lettere delle medie, anche se in pensione.
I soffitti del salone sono alti, le porte hanno i vetri smerigliati, le poltrone di pelle formano tre salottini per conversare, due tavoli, qualche quadro alla parete con soggetti sacri e profani, piante finte. Tutto sobrio, essenziale, ma accogliente.
Eccola: arriva con passo deciso, senza il velo, che allora le copriva i capelli e una parte del giovane viso. I capelli sono corti e luminosissimi.
Dopo la terza media non ci eravamo più potute incontrare, era stata trasferita a Milano.
Io però la cercai tante volte, dopo essermi sposata, trasferita a Torino, diventata madre a mia volta, di due splendide creature, quando finalmente qualche anno fa,  nei miei continui ritorni nella casa paterna la ritrovai. Era tornata da Milano.
Quella volta mi accompagnò a vedere la mia aula, l’ultima del corridoio, vicina al giardino. Si ricordava perfettamente della mia classe, era stata una delle prime volte che insegnava, forse la prima. Si ricordava bene anche di me, proprio di me, cosa che mi parve preziosa, visto che aveva insegnato per tantissimi anni, credo 40 a tante creature. Eppure di me non si era scordata.
Quante volte avrei voluto rivederla e parlarle: il suo sguardo di giovane insegnante, pieno di amore,  uno sguardo che si posava su di me e mi accarezzava, mi faceva sentire unica.
Uno sguardo di cui avevo fame.
Oggi lei è per me una presenza, in un mondo di assenti.


Abbiamo moltissime cose da dirci,  non smettiamo mai di parlare e di scambiarci consigli, lei mi consiglia un programma da usare per scrivere velocemente ed io le insegno come aprire un blog.
Superattiva e con le antenne, capace di cogliere al volo e di comprendere le difficoltà di chi ha dinanzi, specialmente se giovane.
Questo è il carisma del suo Ordine, l’educazione dei giovani e mi dispiace sapere che le scuole sono quasi tutte, compresa quella dove ho studiato io, prive del supporto delle suore, oramai tutte anziane e in meritata pensione.
 Lei mi racconta che  la pensione è stato il momento di appropriarsi del tempo e di usarlo per crescere spiritualmente, un tempo di grazia, di preghiera e di ricerca.
Mentre parliamo in questo angoletto di una stanza grande, dimentico la grandezza della stanza, la stanza stessa e mi rifugio nella sua accoglienza, che sento profonda, totale.
Questo tempo di grazia lei lo vive impegnandosi nell’USMI  e frequentando con umiltà di chi deve ancora imparare una scuola di preghiera. Guida la macchina e me lo racconta con una punta di orgoglio, esce la sera, insomma è una donna in piena attività e in ricerca, questa parola continua ad usarla, è la cifra del suo essere suora.
Rimasta orfana di padre all’età di cinque anni, ha avuto la fortuna di avere una mamma che le ha dato amore e le ha consentito di studiare.
In lei però, fin dalla giovinezza, vi era un profondo bisogno di infinito ed era perennemente alla ricerca di una risposta, quando un giorno, che ricorda perfettamente, camminando per Via Salaria ha capito che doveva scegliere. In quel momento ha scelto di diventare una suora. Ha camminato ancora e ha incontrato sua mamma che era uscita con una delle figlie. Ha  comunicato la sua decisione e lei le ha solo detto: “cosa ti serve?”
Descrive la mamma come una santa, una presenza luminosa nella sua vita. “Dopo Dio per me viene mia mamma, Lei ci ha insegnato a chiedere nella preghiera a Dio cosa fare della nostra vita. Io avevo tutto, affetto e posizione economica agiata, possibilità di studiare, frequentavo il primo anno di università quando sentì la chiamata alla vita religiosa”
Le difficoltà sono arrivate dopo la scelta, specialmente a causa dei numerosi trasferimenti e il doversi adattare a tante situazioni diverse. “ La vita di comunità non è sempre facile ed io ho girato quasi tutte le comunità della congregazione, sempre insegnando alle ragazze. Io avevo ricevuto così tanto amore che potevo restituirlo”.
Oggi dopo 58 anni di vita religiosa sono sempre entusiasta, perché io volevo qualcosa di grande, ma probabilmente oggi sceglierei un istituto secolare. Allora non avevo una visione completa della Chiesa, studiavo dalle Orsoline e trovai naturale scegliere questa strada”
Ci soffermiamo a ragionare sui cambiamenti della vita religiosa avvenuti negli ultimi anni: prima di ogni cosa la carenza di vocazioni religiose, poi la vita di comunità  cambiata in meglio, prima dovevi chiedere il permesso per ogni cosa alla Madre superiora, la famiglia la vedevi raramente, mentre oggi si è libere di decidere, se questo non compromette la vita della comunità. In altre parole questa libertà è positiva, se hai una struttura religiosa solida, se comprendi da sola quali limiti devi porre alla tua libertà.
L’obbedienza, uno dei cardini della vita religiosa, è obbedienza allo Spirito, prima di tutto.
Ci salutiamo dopo avere assistito ad un breve incontro con una giovane donna: di lei intuisce subito difficoltà e timori.

Con lei mi sento a casa.

THE POST





Il film è da vedere per tre motivi.
Il primo riguarda il tema della libertà di stampa, principio fondamentale di ogni vera democrazia. Non dovremmo mai dimenticarlo.
Il secondo riguarda la volontà dei giornalisti di esercitare il diritto alla libertà di stampa, il coraggio di scrivere ciò che emerge dalle inchieste, dai documenti, senza timore di danneggiare i potenti, spesso troppo amici dei giornalisti.
Il terzo riguarda la storia di una donna, un’eccelsa Maryl Streep nei panni di Katharine Graham, editrice del Washington Post. Subentrata al marito dopo essere rimasta vedova, deve decidere se pubblicare o no i Pentagon Papers, rischiando l’azienda e persino il carcere. Con lei Tom Hanks nei panni del Direttore del giornale.
Il film ricostruisce, come forse si è già capito, i fatti del 1971, ovvero quando la stampa americana pubblicò i documenti segretati nei quali si raccontava la politica americana in Vietnam.
Come sempre nei film del regista Steven Spielberg, la ricostruzione di un fatto storico è occasione per trattare temi di diritti civili vitali per la convivenza umana, come sempre accanto ai protagonisti si sente la coralità dell’umanità tutta, entra la Storia e si stenta a non commuoversi per questa capacità profonda di indagare  nel potere e nelle conseguenze drammatiche del suo abuso.
Penso al protagonista del film Amistad, eroico, epico, ma la lotta di Cinqué è la lotta di tutti gli schiavi neri. Nel film alcune scene conducono lo spettatore a superare il singolo processo e a interessarsi della condizione di tutti gli schiavi.
Penso al film Schindler’s list e a tutti i giusti che come Schindler hanno salvato migliaia di ebrei dal massacro a costo della loro vita. Nel film c’è tutto il dramma del popolo ebraico e non solo dei 1000 della lista.
Penso all’abile politico Abraham Lincon nel film omonimo, che usa ogni mezzo pur di far approvare dal Parlamento il XIII emendamento alla costituzione, ovvero l’abolizione della schiavitù.
In the Post e nella realtà sia il New York Times, primo giornale a pubblicare i papers e subito diffidato dal continuare, sia the W. Post vengono scagionati. Si legge nella sentenza della Corte Suprema  che la stampa è per i governati e non per i governanti.
Ottima decisione. Subito dopo ci sarà the Watergate.
Il film lo consiglio vivamente.