mercoledì 1 luglio 2020

AH-CHE-WAGA-CHUN










AH-CHE-WAGA-CHUN
Ovvero COLUI CHE SI ARRAMPICO’ SULL’ALBERO
Oggi ti presento un personaggio così poliedrico e complesso, che spero di stupirti, meravigliarti, incuriosirti.
Racconterò del giovane poeta Pietro Tartamella, che si arrampicò su un albero a Torino, in Piazza Carlo Felice, il 9.12.1973.  La sua fu una protesta, una delle tante che hanno segnato la sua vita.
Il narratore, lo scrittore, l’insegnante di dizione e lettura ad alta voce, l’affabulatore, l’organizzatore di momenti culturali che conobbi io tra la fine degli anni ‘90 del secolo scorso e i primi sei anni del 2000, capelli lunghi bianchi, legati in una coda di cavallo, voce profonda e andatura lenta, pipa in bocca, era un bambino di quattro anni quando si traferì con la sua famiglia da Camporeale a Ventimiglia.
Nelle stradine e nelle piazzette di Ventimiglia Alta, Piazza Rocchetta, Pietro sperimentò, visse, osservò e comprese le ingiustizie e le vessazioni perpetrate da bande di ragazzini violenti. Ben presto nacque in lui il profondo bisogno di giustizia, che, così piccolo, interpretò come risposta violenta alla violenza. Non abbassò la testa, non si nascose, non si ritirò, pagò il prezzo della sua ribellione con l’essere rimandato a settembre in terza elementare. Preferì essere bocciato: non voleva tornare in quella classe e con quei compagni.
I suoi genitori lavoravano tutto il giorno e lui, con due fratelli dovette andare in collegio. Anche da lì scappò.
A tredici anni era capobanda  di GWR, che aveva lo scopo di difendere i deboli. L’inizio della sua vita fu quindi rocambolesco, ma in quella Piazza, in quelle stradine comprese le dinamiche sottese nei rapporti umani e decise da quale parte stare. Scelse.
La sua storia da adolescente è costellata da incontri importanti, che gli permisero di crescere e maturare.
Molti furono gli incontri: cito il Prof. Sismondini, che fu da Pietro accompagnato a scuola ogni giorno. Era cieco. Ed era il suo prof. di diritto. La scoperta della disabilità sensoriale e le piacevoli conversazioni in treno aiutarono il nostro giovane ribelle a concepire altri modi per ribellarsi alle ingiustizie, meno cruenti delle zuffe e delle liti di strada.
Durante l’estate fu assistente alle colonie e più tardi animatore negli ospizi, confrontandosi con due età della vita molto particolari, entrambe connotate dalla fragilità e dalla dipendenza.
L’altro aspetto della personalità del giovane Tartamella è il suo amore per la lettura: con fatica abbandona i libri per svolgere lavori estivi necessari alla sopravvivenza della sua famiglia numerosa e sempre in grandi difficoltà economiche.
Un profondo amore lo lega ai suoi genitori, ai quali riconosce i tratti fondamentali del suo carattere: il profondo senso della comunità e l’amore per l’ironia.
Festeggiati i suoi diciotto anni, decise di partire per un viaggio in Europa in autostop. Qui incontrò Bruno Veri, con cui condivise una lunga amicizia.
Diplomatosi Geometra, si trasferisce a Torino dove inizia una carriera universitaria accompagnata costantemente da lavori diversi e saltuari, carriera che cambia e alla fine abbandona per la profonda convinzione che non è il “pezzo di carta” che rende migliori le persone.
Fonda la rivista “La tenda”: pubblica poesie e si occupa di letteratura. Scrive e vende le sue opere e quelle dei poeti della “tenda” sulle spiagge della Romagna, sotto un sole infuocato, fermandosi a parlare con decine e decine di persone. Fu per lui un periodo affascinante e molto faticoso.
Dopo aver lavorato per la casa editrice Universo per quattro anni, decide di aprire un’edicola.
Diventa giornalaio. Nel 1983 comprò l’edicola di Via Vanchiglia 25. In questo periodo, durato circa dieci anni, pur lavorando quattordici ore al giorno, partecipò attivamente alla vita del quartiere, assunse, lui Hey Hoka, ruoli istituzionali, diventò consigliere comunale, sindacalista, scrisse gli “Sgabellari” (riflessioni, racconti, poesie che ha diffuso lasciandoli sullo sgabello di legno fuori dall’edicola)e “Questo mestiere di giornalaio” (saggio di politica sindacale) mise in pratica la non violenza,  frequentò corsi di teatro e di mimo, di giornalismo, tornò in Sicilia, fondò l’associazione ARISC (Associazione per la riappropriazione della sovranità dei cittadini) e si prese un esaurimento nervoso che curò ascoltando la musica di Ravel tutti i giorni, per cento volte al giorno, fumando la sua pipa.
Di tutta questa frenetica attività, che ha reso Pietro l’affabulatore, poeta e scrittore che molti di noi torinesi e non torinesi conoscono, mi urge raccontarti due momenti cruciali.
Il primo, non in ordine cronologico, è la lettera aperta che Pietro scrisse ai rapitori del piccolo Marco Fiora. Pietro conosceva quel bimbo che si recava da lui a comprare le figurine e che a volte non aveva i soldi necessari per comprarle. Sentì che doveva agire e lo fece scrivendo una lettera nella quale espose la sua idea di Stato: lo Stato deve punire i delitti o creare le condizioni affinché quel delitto non si compia? Cosa ha costretto quegli uomini a compiere un sequestro di un  bambino innocente,  che porterà per sempre le ferite di quella esperienza?  Li invita a liberare Marco, per dimostrare di aver capito, “per dire senza parlare”: non tutti hanno la capacità di usare le parole per difendersi e Pietro gli offre le sue.
 Pietro per 40 giorni si bendò, ovvero fece lo sciopero della vista: intervistato, il suo sciopero fece scalpore, fu invitato da Costanzo, fu contattato dai rapitori. Marco fu liberato.
Il nostro giornalaio seppe trasformare la sua lotta contro le ingiustizie, dalle botte tra i vicoli all’uso sapiente della parola scritta usata  per difendere e difendersi dai soprusi.
Il secondo momento che desidero raccontarti è la sua lotta contro il Fisco, esattamente contro l’art. 74 del Dpr 597, che riteneva guadagno anche il costo del giornale. Scrisse una lettera al Ministro Visentin e per centoventidue giorni fece lo sciopero della parola. Muto. In negozio. A casa. Vinse la prima causa, ma fu nuovamente tartassato dal fisco e continuò a lavorare in un’edicola svuotata di ogni arredamento, con i giornali appesi con mollette a corde improvvisate. Fino allo sfratto dell’abitazione dove abitava.
La sua vita e quella della sua famiglia, Anna, insegnante elementare e le sue due figlie, cambia nuovamente.
Mentre ascoltavo Pietro al telefono e mentre leggevo le sue note biografiche, mi immedesimavo nella moglie Anna, che ha avuto accanto un combattente, un paladino dei deboli: non si sarà annoiata sicuramente nella sua vita coniugale.
Da questo momento Pietro si trasforma nell’ospite accogliente di Cascina Macondo, che sceglie, ristruttura e fa vivere con sua moglie Anna.
Cascina Macondo è un luogo di incontri, un luogo per coloro che amano leggere ad alta voce, condividere la passione per la scrittura, per la ceramica, per la condivisione di momenti di riflessione e di divertimento.
Tutto a Cascina Macondo invita il viandante: le poesie appese agli alberi, il tepee nel cortile, le ceramiche raku, gli sgabelli davanti al fuoco per ascoltare racconti, la voce di Pietro, il calore e il sorriso di Anna.
Dal 1993, anno di fondazione dell’associazione culturale  Cascina Macondo, mille altri progetti sono stati partoriti dalle menti di Anna e Pietro: il fil rouge è sempre l’attenzione ai più deboli, disabili e carcerati e il piacere della letteratura e della creatività.
Molte altre attività ho dimenticato di raccontarti, dall’amore per il circo e per il teatro di strada, al concorso internazionale dell’Haiku, ai viaggi e all’amore per la scrittura ortoépica, ma a questo punto, se non conosci Cascina Macondo, se non conosci Pietro e Anna, il mio consiglio è di cercare su google il loro sito e andare a trovarli.
Non ti stancherai di ascoltarli e di seguirli nel loro modo di rendere il mondo migliore.