sabato 29 agosto 2020

CHE FRETTA C'ERA

 

Il silenzio ha caratterizzato questi mesi estivi: dopo tanto tempo mi sono tuffata nelle relazioni familiari e amicali, accantonando il piacere della scrittura.

Ricomincio da una storia molto personale, lasciando in sospeso i grandi problemi che avvolgono le nostre vite.

Ricomincio da una foto, per me emblema della vita di ciascuno di noi, sempre in bilico tra la gioia e il dolore, tra la salute e la malattia, tra....





Ieri mia cugina mi ha confidato che ha sempre trovato delle somiglianze tra me e Loretta Goggi.

Loretta Goggi era una bellissima donna e una bravissima cantante e l’accostamento mi ha lusingato e tuffato nel lontanissimo 1981, quando ero un’altra persona.

Vivevo a Torino dalla fine del 1978. Con mio marito, sempre troppo impegnato con il lavoro per percepire il vuoto che sentivo intorno a me da quando per lui, per il suo lavoro, non avevo esitato a chiedere il trasferimento da Roma e Torino, ottenendolo subito con l’avvertimento a non sognare di poter tornare, in caso di separazione, perché difficilmente avrei ritrovato il mio lavoro a Roma.

Non avevo ancora compiuto ventitré anni.

Lo studio, che ha accompagnato tutta la mia vita lavorativa, in quel periodo lo posponevo al lavoro, alla cura della casa e della relazione matrimoniale. In altre parole riuscivo a presentarmi alla Sapienza per sostenere gli esami al massimo un paio di volte l’anno: il mio libretto universitario si riempiva di voti molto lentamente.

La mia strada, i miei sogni erano tutti riposti in quei testi che studiavo nei momenti liberi, ma la mia indipendenza era prioritaria. Lo stipendio. Non chiedere nulla a nessuno, anche se i miei genitori erano disponibili a sostenermi negli studi, come avevano già dimostrato con le altre figlie.

Mio padre non approvò le mie scelte: trasferirmi e sposarmi prima della laurea equivaleva a non laurearmi più e per lui questo era inconcepibile. Le sue figlie dovevano essere tutte laureate. Mancavo solo io all’appello.

Non conversammo, non esaminammo il problema.

 Com’era sua consuetudine disse poche parole, lapidarie: “Non sono d’accordo”. “Da Roma, se proprio decidi di partire, devi essere laureata”.

Lui, che non si era laureato in Economia e Commercio, negli anni del fascismo, quando era sufficiente, mi raccontava, presentarsi agli esami con la divisa di Tenente per essere promosso. Lui non accettò quel sistema e non si laureò.

Io partii da diplomata, inseguendo i sogni, sicura di me, dopo pochi mesi di fidanzamento. Avevo fretta. Mio padre, nei giorni precedenti al mio matrimonio, soffrì di ulcera gastrica. Ero una bambina, non capivo nulla del suo dolore e di ciò a cui io stavo andando incontro. Ero una bambina maggiorenne e libera di scegliere.

Il desiderio di mio padre, che era sicuramente anche il mio,  mi accompagnò per anni, fino a quando finalmente varcai la soglia della sala laurea di Palazzo Nuovo e discussi la mia tesi di laurea.

Papà era morto undici giorni prima: io lo avevo visto per ultima, nel letto di ospedale e avevo assistito alla sua morte. Papà morì sapendo che finalmente anche la terza figlia aveva compiuto il suo progetto di padre. La mattina, prima di partire per Roma, per raggiungerlo in ospedale, con l’Intercity, otto ore di viaggio sulla bellissima linea tirrenica, perché il Freccia Rossa era ancora un bel sogno, erano state pubblicate le date delle discussioni delle tesi. Non esisteva ancora internet per noi studenti.

Torniamo però al 1981.

Nel 1981 al Festival di Sanremo Loretta Goggi arrivò seconda con “Maledetta primavera”.

Pochi giorni dopo lessi su un fogliettino attaccato al portone del palazzo di Via Torricelli, nella ricca Crocetta, dove vivevano i miei suoceri, di un maestro di canto disponibile ad audizioni al fine di preparare per concorsi canori. Chiesi un appuntamento. Mi presentai all’audizione con “Maledetta primavera”. Ho riletto ora il testo e credo che solo una frase risuonasse dentro di me, senza che io ne fossi consapevole: “che fretta c’era?”

Già che fretta c’era a sposarmi a ventidue anni? Ad abbandonare parenti e amici? E la mia amata città? E i miei colleghi di lavoro? E la mia facoltà con Professori di fama internazionale? Ad addolorare così mio padre, orfano di entrambi genitori per via della pandemia della Spagnola, padre che a noi cercò di dare quelle sicurezze che lui non aveva mai avuto?

Credo che fossi bellina allora e soprattutto la mia perfetta dizione, merito di mia mamma e la “c” toscaneggiante, rendeva la mia voce piacevole.

Il maestro di canto approvò molto la mia performance e mi propose di prepararmi addirittura per Sanremo. Lui sapeva come fare. Io però avrei dovuto essergli grata.

Ero una bambina allora, incapace di difendermi, fosse successo oggi, lo avrei distrutto con le parole e con una bella denuncia, ma allora ero un pulcino indifeso, cresciuto tra la bambagia, sotto una campana di vetro per diciannove anni, tra le Suore Orsoline e una mamma ansiosa.

Della vita non conoscevo nulla.

Credo che pagai persino la “lezione”, da ragazza beneducata, mettendo i soldi nella bustina bianca, come mia mamma mi aveva insegnato, perché i soldi sono sporchi sotto tutti i punti di vista. Non gli fui grata, questo mi fu risparmiato quel giorno, ma non tornai mai più né da lui né da altri maestri di canto. Avrei potuto cercare una maestra di canto, meno pericolosa, ma il turbamento provato, il non averlo condiviso con nessuno, perché mi vergognai, il lavoro, lo studio, i suoceri ammalati, il marito assente, la famiglia lontana e non so cosa altro, mi fece archiviare del tutto quel sogno, di salire su un palcoscenico, non dell’Ariston, mi sarei accontentata di un teatro parrocchiale e cantare come avevo sempre fatto, volteggiando per il salone pieno di luce della mia casa paterna.

Loretta Goggi e il suo “Che fretta c’era” l’ho compreso solo ora.

Invecchiare ha tanti lati positivi: si mettono a posto i pezzi del puzzle della vita.