martedì 20 novembre 2018

UN SABATO A TORINO










Il cielo è bigio, ma la giornata si presenta molto ricca, tanto ricca che dovrò scegliere, ovviamente.
Prima di tutto ho prenotato due posti per ascoltare al Regio le prove aperte del maestro Ezio Bosso, che torna a Torino e torna a dirigere una sua opera, scritta dieci anni fa. Un ritorno. Un regalo alla città, alla sua città, di cui essergli grato.
Nel pomeriggio ben tre incontri ai quali avrei voluto essere presente:
Steve Mccurry, “quello della bambina afgana” alla Nuvola della Lavazza alle 17, per presentare il suo libro autobiografico,  Miriam Toews, autrice di quel gioiello che è “I miei piccoli dispiaceri” al circolo dei lettori alle 18.30 per Giorni selvaggi e un impegno personale, al quale ovviamente non posso mancare.
Le fotografie di Mccurry rimangono scolpite nella memoria, dopo averle viste, non si dimenticano. Restituiscono negli sguardi degli uomini e donne immortalate, la loro condizione, negli abiti tradizionali la loro cultura, nelle situazioni il loro status.
Mi avrebbe fatto piacere incontrarlo personalmente, osservare chi è abituato ad osservare per ore per cogliere lo scatto che lo renderà unico. Imparare anche da lui, non certo a fotografare, troppo tardi, forse, bensì ad avanzare nella vita a passo deciso.
Un Maestro.
Dalla scrittrice volevo carpire qualche segreto del mestiere, in questo caso, sì, avrei potuto imparare concretamente.
Da Ezio Bosso si impara sempre, solo standogli accanto, si percepisce coraggio e forza vitale.
Che gioia poter assistere alle prove aperte a tutti del concerto di Ezio Bosso il 17 novembre al Teatro Regio.
Ore 11.
Fuori l’aria è decisamente più fresca, la dolcezza dell’autunno sta lasciando il posto al rigore dell’inverno.
Dentro visi sorridenti, incontri tra conoscenti, abiti quotidiani, nessun lusso, diverse età presenti, tutti in rigoroso silenzio quando iniziano le prove, tutti esultanti quando entra il Maestro, accompagnato come sempre, e come sempre energico, determinato, gioioso, innamorato della musica.
Davanti a lui e a tutti noi l’orchestra del Teatro Regio, rispettosa, attenta ad ogni movimento del Maestro, interpretare Oceani, concerto per violoncello e orchestra. Opera dedicata ai migranti, quando lui era un migrante, per celebrare la condizione dell’essere umano.
Inizia a dirigere, si ferma a spiegare al pubblico: “vedete, la musica è un gesto, è un respiro ancor prima di un suono”.
Nella sala alcuni scattano foto e lui si chiede cosa ce ne facciamo di foto scattate da lontano, dove tutti sono piccoli piccoli o di video in cui non si sente nulla ed invita a spegnere tutto e ad ascoltare.
Procede, si ferma e si gira verso di noi: “Provate a prendere una bottiglia e per un’ora provate a soffiarci dentro. Capirete la fatica fisica di suonare”.
Si riprende, al termine della prima parte, ripete con gli orchestrali un attacco. Sorride, è paziente, pare divertirsi. Non noto spasmi muscolari, sembra che dirigere sia per lui un’ oasi di benessere.
I suoni che gli strumenti hanno prodotto ci hanno fatto navigare tra le onde di oceani tempestosi e calmi, tra violoncelli e gong, tamburi e violini.
Dopo la pausa il maestro è più stanco, il tono della voce è calato.
Ci spiega  la sinfonia n. 9 in mi minore di A. Dvorak “Dal nuovo Mondo”, opera scritta per l’America, si sente il soffio delle vaste terre da esplorare e i canti degli indiani d’America.
Mi incanto  a sentire il corno inglese nella splendida melodia del secondo tempo e osservo la perfetta interazione dei vari strumenti musicali, dei suoni, che si susseguono, si alternano, si rispondono e mi soffermo a pensare a noi, orchestra vivente, alla nostra umanità che  non ascolta  il suono dell’altro.
Le prove sono finite, il Maestro è stanco, noi siamo tutti in piedi ad applaudire l’esecuzione, le opere, ma soprattutto lui, così innamorato della vita e della musica, da contagiare.
Apritele spesso le porte del Regio per le prove.
La musica aiuta a vivere meglio, come l’arte, la letteratura, il cinema, il teatro. La cultura, vera panacea, vera prevenzione per una vita ricca.



EX-ALUNNE



E' da un pò di tempo che non  scrivo, caro lettore e cara lettrice.
Gli avvenimenti si susseguono freneticamente e a volte mi sembra inutile scrivere, anche perché tu non rispondi mai.
Ma, domenica sera ho incontrato un Uomo, del quale ti parlerò in un prossimo post, e che mi ha ricordato che ognuno di noi si impegna  usando quelle che sono le proprie capacità.
Io scrivo, amo scrivere e allora rieccomi, per ora a raccontarti una pagina di diario, per ora.




Giorni fa aprendo la posta elettronica ho trovato una lettera inaspettata di una mia ex alunna.
Da tre anni non avevo più sue notizie: la sua ultima mail raccontava dei suoi studi, del suo amore e dei suoi sogni.
Non posso descrivere la gioia, però posso dirti, cara lettrice e caro lettore, che la mia ex-alunna mi comunicava di essere mamma di una meravigliosa creatura di nome Lino e allegava delle splendide foto.
Ora devo dirti che io sono stata l’insegnante di italiano, solo di italiano, di questa giovane donna,  per 4 mesi, da febbraio a giugno del lontano 2002.
Quell'anno non lo dimentico.
Fu il primo anno nel quale insegnai le materie per le quali mi ero laureata e per le quali mi ero formata, con molta cura, senza badare troppo ai dettami delle leggi, ma a quello che capivo essere importante, ovvero coniugare conoscenze solide ad una capacità di gestione della classe, dei conflitti e ad una conoscenza profonda di me stessa, che mi permettesse di affrontare delusioni, amarezze, rifiuti, incomprensioni che fanno parte della vita di ciascuno, ma soprattutto di coloro che sono a contatto con i giovani.
Quell'anno non lo dimentico.
Negli stessi mesi in cui insegnai alla mia alunna, frequentai il corso abilitante all'insegnamento delle materie letterarie nella scuola secondaria inferiore e superiore, ore e ore di lezioni pomeridiane e preparazione di unità didattiche, prova finale, ed infine abilitazione all'insegnamento.
Allora ero una precaria della scuola italiana, come tante prima di me e dopo di me.
Prima di insegnare Lettere avevo insegnato alternativa alla religione, una non- materia, come capii ben presto.
Eppure, quanto ho imparato  dall'insegnamento di quella non- materia!
Insegnare una non-materia a dei ragazzini, all'ultima ora del venerdì pomeriggio, dalle 16 alle 17, insegnare in tutte le classi di una scuola, conoscere tutti i consigli di classe, tutti i colleghi, molti genitori, molti alunni, a gruppetti, quelli che non frequentavano l’ora di religione, non contare nulla in teoria, eppure essere appassionati nell’insegnare una non- materia che non ha un programma, non ha un libro di testo, non viene valutata: voler trasmettere delle conoscenze e dei valori, mantenere la disciplina, motivare i ragazzi, adempiere ad un diritto dello studente sancito dal Concordato. Essere riconosciuta e apprezzata dai ragazzi e dai colleghi, per una sola ora alla settimana: un successo!
Insegnare alternativa alla religione è stata un’ottima palestra,  durata qualche anno e  mi ha permesso di poter entrare nelle classi, da docente di Lettere, con un’esperienza che sembrava decennale, mentre era solo di pochi anni.
Colleghi e genitori percepivano in me sicurezza ed esperienza. Respiravo fiducia.
Questa esperienza lo Stato dovrebbe riconoscerla con doppio punteggio, invece non la riconosce proprio e questo lo scoprì nel tempo, a mie spese, ma questa è un’altra storia. Una storia che ha a che fare con le Leggi, spesso avulse dalla realtà.
La formazione e il reclutamento degli insegnanti negli ultimi anni ha subito molte variazioni, è sempre stato complesso e la normativa farraginosa, per chi, come me, proveniva da un mondo lavorativo privato, dove il controllo sul tuo operato è immediato e non necessita di carte e di convalide che spesso sono formali e non sostanziali.
Io ero una donna con figli, uno di loro prossimo alla maturità scientifica, eppure vagavo per le scuole, aspettando la famosa telefonata, alla quale  non dicevo mai di no.
Così quell’anno, il 2002, ricevetti una telefonata dalla segreteria della scuola media inferiore, ancora si chiamava così l’ordine intermedio di studi, Baretti di Torino, oggi scuola Bobbio e mi recai con gioia a prendere servizio.
Lettere.
Quel giorno non lo dimentico.
Ricordo ancora quel giorno in cui presi servizio: era un sabato mattina e la sera prima una mia cara amica festeggiava i suoi 50 anni. Sì, appunto, non ero una ragazzina neanche io. Declinai con dispiacere l’invito, perché desideravo presentarmi in classe, riposata e serena. Ero troppo eccitata per la supplenza. Ero pronta a dare il meglio di me stessa, era da così tanto tempo che mi preparavo ad essere una professoressa di Lettere che non stavo più nella pelle.
Mi furono assegnate due classi: una prima media, numerosa e vivace nella quale ebbi il compito di insegnare italiano e una terza media nella quale avrei dovuto insegnare italiano, storia e geografia fino alla fine dell’anno.
Mi fu subito chiaro che avrei dovuto lavorare molto per quei ragazzi, i quali avevano visto avvicendarsi diversi supplenti, per pochi giorni ognuno, sostituendo un collega di ruolo in attesa di una decisione del Provveditorato in merito alla sua posizione. Non seppi mai, non chiesi mai per quale motivo il titolare della cattedra non potesse insegnare, capì però subito che nelle classi mancavano le conoscenze di base e l’abitudine allo studio, oltre alla disciplina necessaria per studiare.
Insomma, un lavorone per pochi mesi, ma, io, che avevo deciso di insegnare dopo aver compiuto i 30 anni e già madre, che avevo rassegnato le dimissioni da un lavoro impiegatizio ben remunerato e soprattutto sicuro, con contratto a tempo indeterminato, come si usava ai nostri tempi, quelli di chi ha iniziato a lavorare negli anni ‘70, ecco, ti dicevo, io, misi tutto il mio entusiasmo, le mie conoscenze, il mio impegno per appassionare i ragazzi e avvicinarli alle materie da me amate.
Trovai dei colleghi meravigliosi, alcuni dei quali ancora incontro su fb, dei genitori collaborativi e ricevetti un regalo, l’affetto di una bambina, che mi ascoltava con interesse, che studiava con passione, che mi cercò negli anni, che mi venne a trovare per raccontarmi i suoi sogni dopo il diploma di maturità classica e che qualche giorno fa mi  ha scritto per raccontarmi di essere mamma.
Perché per quattro mesi?
 Perché l’anno successivo io mi recai, come sempre, alla “cerimonia” di conferimento delle supplenze annuali e presso la scuola Baretti vi erano solo più 4 ore di lettere accorpate con 14 ore presso la scuola Viotti. Ovviamente accettai subito, sperando di continuare a insegnare nella mia prima, che nel frattempo era diventata una seconda media. Nel frattempo però era cambiato anche il Preside, che non mi conosceva e che si stupì molto quando, avendomi assegnato un’altra cattedra, si ritrovò una letterina dei ragazzi di quella seconda media che chiedevano la continuità didattica. Non ci fu nulla da fare, la classe fu affidata ad una collega di ruolo della scuola ed io nuovamente inviata in una situazione difficile, molto difficile, presso la succursale, la Pergolesi.
Vita da precari.
Gioia di chi ha lavorato con entusiasmo.