giovedì 21 marzo 2019

GIORNATA MONDIALE DELLA POESIA



Ieri, 20.03.2019, si celebrava la giornata mondiale della felicità.
La festeggio con una poesia, una delle tante da me amate, perché oggi è la giornata mondiale della poesia ed è anche il primo giorno di primavera e infine, non certo per importanza, la giornata contro le mafie.
Anni fa a Torino, insieme a Libera e ai miei alunni, ascoltai i nomi di quasi 1000 morti a causa della delinquenza organizzata. Oggi in Tv da Padova, Luigi Ciotti ha parlato di più di 1100 morti.  Non sono trascorsi tanti anni da allora, ma il numero è aumentato. Ha aggiunto che sono “163 anni che parliamo di mafia”. Non sono capace di collegare l’inizio della primavera, l’amore per il lato poetico del mondo con la giornata in cui commemoriamo la morte di persone giuste, sperando di non dover aggiungere neanche un nome all’elenco. Forse è l’augurio di una nuova primavera per tutti.
Sperando che quel giorno arrivi presto, copio qui una poesia, perché le poesie, questo è certo, aiutano a capire come vivere più consapevolmente.



Ode alla Vita

Lentamente muore chi diventa schiavo dell'abitudine,
ripetendo ogni giorno gli stessi percorsi,
chi non cambia la marcia,
chi non rischia e cambia colore dei vestiti,
chi non parla a chi non conosce.
Muore lentamente chi evita una passione,
chi preferisce il nero su bianco e i puntini sulle "i"
piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi,
quelle che fanno di uno sbadiglio un sorriso,
quelle che fanno battere il cuore davanti all'errore e ai sentimenti.
Lentamente muore chi non capovolge il tavolo,
chi è infelice sul lavoro,
chi non rischia la certezza per l'incertezza, per inseguire un sogno,
chi non si permette almeno una volta nella vita di fuggire ai consigli sensati.
Lentamente muore chi non viaggia,
chi non legge, chi non ascolta musica,
chi non trova grazia in se stesso.
Muore lentamente chi distrugge l'amor proprio,
chi non si lascia aiutare;
chi passa i giorni a lamentarsi della propria sfortuna o della pioggia incessante.
Lentamente muore chi abbandona un progetto prima di iniziarlo,
chi non fa domande sugli argomenti che non conosce,
chi non risponde quando gli si chiede qualcosa che conosce.
Evitiamo la morte a piccole dosi,
ricordando sempre che essere vivo
richiede uno sforzo di gran lunga maggiore del semplice fatto di respirare.
Soltanto l'ardente pazienza porterà al raggiungimento di una splendida felicità.
Pablo Neruda



martedì 19 marzo 2019

BABY BLUES






Anni fa, forse un paio, partecipai alla presentazione del libro Baby Blues (After Birth)di Elisa Albert presso la libreria del mio quartiere,  la libreria Thérese.
Il tema intorno al quale si dipanava la storia della protagonista, Ari, era il parto di suo figlio, Walker.
Non ricordavo romanzi che trattassero tale tema, non ne avevo letti, a parte “Lettere ad un bambino mai nato” di Oriana Fallaci, che più che di un parto tratta di un aborto.
Parlare del parto è sempre stato difficile: c’è chi racconta di aver partorito al volo, minimizzando, chi racconta di aver sofferto molto, chi tace per non spaventare altre giovani donne. Per lo più non se ne parla. Sembra quasi di cattivo gusto parlarne, sembra quasi che non sei coraggiosa se racconti di aver sofferto, sembra quasi che non capisci quanto tu sia fortunata ad essere madre di figli/figlie sane, insomma, si tace. Pudore, vergogna, chissà.
Ovviamente ci sono moltissimi manuali che insegnano a partorire con dolcezza, nell’acqua: che insegnano a respirare, a prendersi cura del neonato e via così.
Nonostante io abbia partorito circa 36 anni fa la prima volta, non nascondo che provai curiosità insieme a rifiuto per il modo con cui Elisa Albert presentava la sua storia, in modo apparentemente cinico, concentrandosi sul corpo della donna.
Ricordo però che allora, 36 anni fa, pensai che se a partorire fossero stati gli uomini, avrebbero fatto di tutto per lenire il dolore e ne avrebbero parlato molto, troppo, come fanno per lo sport e per la politica.  A noi donne, invece, ancora negli anni ‘80 veniva ricordato dalle ostetriche: “partorirai con dolore”, “ti sei divertita…” (non tutte per fortuna). L’ho sentito con le mie orecchie, purtroppo.
Ogni volta che acquistavo un romanzo, ricordavo che avrei voluto/dovuto leggere quel libro, quello in cui si parlava di donne e di figli in modo meno stereotipato, anzi per nulla stereotipato. Volevo sapere cosa Albert avesse scritto del parto. Io 36 anni fa avrei voluto scrivere del parto di mio figlio.
Poi sono diventata nonna e ho rivissuto il parto, il mio parto, attraverso quello di mia nuora, ovviamente diverso.
 Sono riuscita a superare il disagio, a comprare il romando di Albert e a leggerlo e ora te lo racconto in breve, perché credo proprio che donna o uomo che tu sia, sia un libro da leggere, nonostante non sempre apprezzi la spregiudicatezza del linguaggio dell’autrice.
Al centro della storia c’è la sofferenza di Ari, che arriva da lontano, dal corpo della nonna, violato e abusato dai nazisti, dal corpo della mamma, nata grazie ad un farmaco che la porterà giovane alla morte per cancro e che l’accompagna come un incubo durante la sua vita di giovane madre. La sua sofferenza, che diventa depressione è legata al parto che l’ha sconvolta: si sente violata, tagliata, cambiata. Nulla nella sua vita è più come prima e in questo ogni donna si può riconoscere: la nascita di un figlio è innegabilmente un cambiamento radicale della vita di una donna.
Per Ari però il nodo è il parto, la violenza del cesareo sul suo corpo, essere stata aperta a metà per estrarre il figlio: il problema non è il figlio  che ama, che cresce, che allatta con amore.
In psicologia si parla del “trauma della nascita”, ma si dovrebbe iniziare a trattare  il tema del “trauma del parto”, quello che a volte procura depressione a tante donne o altre patologie psichiatriche, sicuramente sofferenza e fatica.
Molti studi scientifici hanno dimostrato come il rapporto madre-figlio/a inizi in modo diverso a seconda del modo in cui avviene il parto. Importante scriverne in modo letterario e non relegare questo evento centrale nella vita di chiunque  alle riviste scientifiche oppure ai manuali.
Nel romanzo ci sono altri tabù che vengono sdoganati, la retorica del femminismo e delle amicizie femminili, ma è soprattutto quella lente di ingrandimento sulla fatica di sopravvivere da sole al parto e ai primi mesi di vita di un figlio che merita la lettura del libro. Perché ha avuto il coraggio di scriverlo.

domenica 10 marzo 2019

PARLAMI DI TE






In modo delicato ed ironico il regista restituisce allo spettatore un evento drammatico della vita del protagonista, Alain.
Il film diretto da Hervé Mimran è ispirato al libro autobiografico di C. Streiff, ex CEO di Airbus.
Alain è uomo in affari, abituato al potere, a comandare, ad avere pochissimo tempo per gli affetti e per la bellezza del mondo circostante: la sua frase simbolo è “Mi riposerò quando sarò morto”.
Minimizza, anzi ignora i primi segnali di evidente malessere, fino ad arrivare al coma per ictus.
Si risveglia con una delle tante forme di afasia, quella che ti fa dire notte al posto di giorno o rasta al posto di basta,  ma se a interloquire con te è un manager altrettanto spietato come te, la speranza di essere accettato e compreso è ridotta allo zero per cento.
Come succede spesso nei casi di malattie invalidanti, il soggetto scopre le piccole cose della vita, anzi direi la vita stessa scorrere intorno a lui. A noi che lo osserviamo appare più simpatico ed umano da afasico che da Ceo.
Ad aiutarlo una logopedista capace di fargli ritrovare il filo della memoria  e il senso della vita, mentre lei stessa cerca di ritrovare le sue origini.
Alain mostra notevole resilienza, coraggio, determinazione nella sventura così come aveva fatto da uomo di successo: non si scoraggia e questo è il più bel messaggio del film.
A noi spettatori permette anche qualche risata liberatoria ogni qual volta le difficoltà linguistiche provocano incomprensione e stupore negli altri.
È esattamente quello che succede nella vita degli afasici e dei loro cari, che li accompagnano sempre timorosi del giudizio altrui e sempre pronti a sostituirsi a loro, a proteggerli e a difenderli. In realtà spesso se la sanno cavare benissimo da soli.
Fabrice Luchini è veramente super bravo nella parte dell’afasico.
Consiglio questo film a tutti.