martedì 26 febbraio 2019

PESCE D'APRILE










Durante il weekend, al teatro Erba di Torino è stato rappresentato Pesce d’aprile di  Daniela Spada e Cesare Bocci.
I biglietti esauriti, una domenica pomeriggio di febbraio calda e soleggiata, un pubblico che sopraggiunge lentamente e a volte faticosamente a teatro.
Conoscevo l’argomento dell’opera: il dramma di una giovane mamma, colpita da un ictus mentre allattava sua figlia, neonata, il coma, la grave disabilità motoria e linguistica, la fatica per riprendere a vivere la sua vita di donna giovane e madre, accanto ad un attore famoso, Cesare Bocci.
Non sono riuscita a leggere il libro, perché introvabile, in ristampa e nelle  biblioteche comunali le copie del libro sono tutte in prestito. Prenotato, riuscirò a leggerlo, prima o poi.
Gli autori e gli attori sono riusciti a toccare corde profonde, a illustrare con estrema chiarezza il disorientamento, la rabbia, l’impotenza, la fatica dei rapporti con il servizio sanitario, che si aggiunge alla fatica di riorganizzare una vita intera, di ripensarla,  la determinazione di entrambi di vivere, nonostante la disabilità, superando barriere insormontabili.
Riuscirci.
Per i medici, per molti medici, i malati sono standard: la vita precedente viene cancellata dalla malattia, dalla disabilità e le cure seguono dei protocolli. “tu puoi odiare l’acqua, ma se nel protocollo c’è scritto che devi nuotare, devi nuotare”.
Il medico aveva decretato che la Sig.ra Spada non avrebbe più camminato. Non è stato così, ma è stata necessaria la sua caparbietà per riuscire a camminare.
Lui bello, famoso, cercato, ammirato, lei disabile: prima dell’ictus lei era gelosa delle sue colleghe, dopo è indifferente, non sa più cosa sia la gelosia, l’invidia e non sa perché. E’ cambiata. Sua figlia è cresciuta senza Daniela, chiusa in una clinica per la riabilitazione, un luogo dove i bambini non possono entrare. La figlia non accetta la presenza della madre, al suo ritorno a casa. Scatta qui il bisogno di essere aiutati da uno psicoterapeuta, perché in tre anni ha beneficiato di tre colloqui con lo psicologo. Tre in tre anni. L’aiuto sarà provvidenziale per capire come affrontare la relazione con la figlia: esserci, semplicemente, dimostrare quanto la figlia sia importante per lei, quanto le sia mancata.
 Lui pronto ad aiutarla in tutto, a finire le sue frasi, a fare da mammo, a sostituirla nelle relazioni fino a quando lei gli ha chiesto di fare un passo indietro, di permetterle di vivere il tempo nella dimensione della lentezza, conseguenza inevitabile di ogni ictus, di permetterle di rapportarsi con la figlia.
Cesare sa fare un passo indietro.
Quanta fatica, quanto coraggio per affrontare, per superare, per ottenere per esempio la patente, per ritornare a vivere una vita affettiva e relazionale gratificante, quanto amore, che abbraccia, accoglie, dà le gambe, dà la forza di provare e riprovare.
Poi l’idea di scrivere il libro in due, di provare a raccontare ciò che è accaduto, mettere ordine, esprimere l’inespresso, ritrovarsi ancora in una storia nuova, corale, quella di tutti coloro che improvvisamente privati della loro vita di prima, devono imparare a vivere la vita  dopo l’ictus.
Ed infine adattare il libro al teatro, trovare un’attrice bravissima che sappia rendere le difficoltà di Daniela e di tutte le Daniele del mondo, senza permettere compassione e senza scivolare nella caricatura.
Cesare Bocci e Tiziana Foschi sono stati applauditi a scena aperta e al termine il pubblico non smetteva di applaudire.
Commossi noi in platea, commossi gli attori sul palco: dopo lo spettacolo Cesare ci ha concesso un incontro, a noi riuniti da un problema comune e appartenenti al Centro che a Torino si occupa della riabilitazione sociale degli afasici [1]. Mi hanno colpito la luce dei suoi occhi, la stessa di quando interpreta il famoso Mimì, i suoi modi cordiali, la sua capacità di ascoltare.
Devo dirtelo Daniela, Cesare è ancora bello, ma credo proprio che tu non abbia alcuna ragione di essere gelosa, perché ti ha dimostrato in maniera inequivocabile cosa significhi amare.




[1] Fondazione Carlo Molo-Cirp (eccellenze italiane) con il difficile compito della riabilitazione sociale al termine delle prestazioni del SSN e A.it.a, associazione italiana afasici che riunisce afasici e caregiver

MEDITERRANEO REQUIEM









E poi succede.
Semplicemente.
Di ritrovarti in fila, una fila ordinata che arriva in via Milano, una sera di febbraio, questa sera di febbraio, tiepida, davanti al Duomo di Torino, in attesa del permesso di entrare e capita di sorridere alle persone avanti a te, proprio perché siamo lì, perché siamo simili, perché è evidente che crediamo negli stessi ideali, nello stesso ideale, nell’umanità, nella compassione. Siamo felici di essere in coda, credo che sia la prima volta che io sia felice di essere in fila.
Quando ci danno il permesso di entrare nel Duomo temo per un attimo che la folla ordinata e silenziosa si slabri, si getti in avanti alla ricerca del posto, invece no, la fila entra in Chiesa, nessuno supera l’altro. Un piccolo miracolo in Italia. Ma è solo il primo.
L’evento: in Duomo attori, musicisti e coristi provenienti da tutta l’Italia a proprio spese hanno organizzato un concerto gratuito in memoria dei migranti morti nel Mediterraneo.
Bisogna esserci, i torinesi silenziosi, che in questi mesi stanno sopportando parole e fatti che non condividono, devono diventare visibili.
Così è stato. La Chiesa era stracolma di gente,  molti in piedi e tutti silenziosi ad ascoltare i testi scelti e recitati da Davide Livermore e dagli attori del teatro Baretti e poi il coro nel Requiem di Faurè, accompagnato dal pianoforte di Carlo Caputo, diretti da Fabio Biondi con i solisti Valentina Escobar e Roberto d Candia. 
Mentre le parole e poi la musica riempivano lo spazio vuoto, le immagini di questi anni scorrevano nella mia mente, i barconi naufragati, i morti che galleggiavano, i giubbetti di salvataggio, la pagella cucita nel giubbotto, le bambole che galleggiano.
Teste basse, mani giunte.
Sarebbe stato meglio non dover organizzare una serata in memoria dei morti nel Mediterraneo, sarebbe meglio che nessuno muoia nel Mediterraneo.
Appena distoglievo lo sguardo dal coro, incontravo quello di un’amica, chi maestra appassionata della lettura tanto da diventare una volontaria della lettura ad alta voce, chi accesa sostenitrice del verde pubblico, chi corista come me, chi sconosciuto ma non per questo meno importante, anzi importante perché lì, presente, invece di stare a casa, comodo, sul divano. Tutte persone che nella vita donano energie e tempo  agli altri.

E’ poca cosa, forse anche un po’ chic, ascoltare un concerto in memoria dei naufraghi, ma se ognuno di noi fa ciò che sa fare, chi cantare, chi suonare, chi recitare, chi scolpire, chi disegnare, chi scrivere, chi curare, chi tradurre, chi ascoltare, chi imbiancare, chi cucinare, chi coltivare, chi costruire, chi educare….per il bene altrui, allora questo mondo potrebbe diventare un mondo migliore.
Questa sera per un’ora mi è sembrato possibile.

Grazie.


domenica 3 febbraio 2019

IL RACCONTO DELL'ANCELLA







Il libro su cui voglio scrivere non è una novità editoriale, anzi.
Pubblicato nel 1985, tradotto in Italia da Mondadori nel 1988, io ho acquistato la settima ristampa nel 2018 e solo ora l’ho letto.
Ho sempre una pila di libri da leggere, ci sono quelli che inizio e abbandono dopo una cinquantina di pagine, quelli che inizio e centellino giorno dopo giorno e quelli che divoro in poche ore.
La storia che ti racconterò l’ho divorata in poche ore, nonostante le sue  398 pagine.
E’ possibile che tu abbia già visto la serie televisiva, pare molto fortunata, non so, ancora non ne ho vista una, nonostante ne parlino in molti.
E’ la storia di  Difred, ovvero la donna di Fred: il suo nome è perso, cancellato, così come la sua vita di prima, i suoi affetti dispersi, la sua casa, il suo lavoro, le sue cose. Lei è solo una donna di un uomo potente della nuova  società.
Lei è fortunata, perché è una donna in età feconda che, nella vita precedente al nuovo ordine, ha procreato una creatura bella e sana, quindi viene salvata, perché ha un compito importantissimo: procreare un figlio di Fred, sano.
Le altre donne sono tutte condannate alla Colonia, ovvero a lavorare fino alla morte a contatto con sostanze contaminanti che le condurranno ad una morte precoce e certa. Si salvano le vecchie Zie, tutori di questo nuovo ordine e le Marte, ovvero le donne che accudiscono ai lavori in casa. Ci sono anche le Mogli dell’elite dominante, che accolgono le Ancelle, a cui delegano il compito di procreare. Nella repubblica di Galaad non esistono più uomini sterili, ma solo donne feconde e infeconde.
Ma come è stato possibile un cambiamento radicale della società? Le donne erano libere, studiavano, lavoravano, avevano un conto in banca, decidevano della loro vita alla pari con gli uomini. Poi, all’improvviso, una mattina, la sua card non le ha permesso di acquistare il giornale e poco dopo il direttore della biblioteca dove lavorava l’ha licenziata, per legge.
Improvvisamente la sua sopravvivenza dipendeva da suo marito. Il suo conto in banca non esisteva più e così il suo lavoro. Per legge.
Se fossero esistiti ancora i soldi cartacei, questo non sarebbe stato possibile, così velocemente.
Per legge.
Divisa dalla figlia e dal marito, sola, annoiata, non potendo fare nulla, né leggere, né scrivere, né lavori manuali, senza nome, vestita di rosso, alla mercè di altri, la protagonista  tesse le lodi dei sensi: la gioia di sentire il profumo dei fiori e vedere la loro bellezza (i fiori non sono proibiti), desiderare di toccare e di essere toccata, desiderare di nominare il proprio nome, di essere guardata e di guardare, di andare al fiume o al mare, di guardare il cielo e le stelle. Sogni ovviamente, ad occhi aperti, in un mondo asettico, vuoto di cose e di persone, di relazioni e di parole.
Occhi bassi, alette che le impediscono di guardare a destra e a sinistra, parole dovute, sempre uguali, prudenza perché gli Occhi sono ovunque e la pena è la morte.
Un romanzo da aggiungere a 1984 di George Orwell e Fahrenheit 451 di R. Bradbury.
Se c’è un barlume di speranza in questa storia, lo puoi scoprire leggendolo.
Questa volta a scrivere un romanzo distopico è una donna e parla di donne: Margaret Atwood, Il racconto dell'ancella.






sabato 2 febbraio 2019

UN RACCONTO DA PLATEUX BATEKE'











Ti racconto oggi, caro lettore e cara lettrice una storia vera.
 La storia di un episodio accaduto recentemente ad un giovane torinese, un brillante  biologo specializzatosi nella bioconservazione e nella biodiversità animale, che attualmente vive in Gabon, esattamente nel Parco Nazionale dei Plateux Batéké,  con il compito di pianificare e monitorare le attività di reintroduzione di gorilla e di lotta al bracconaggio all’interno del Parco stesso.
Mi trovo nella sua casa, adiacente alla succursale dell’Istituto scolastico nel quale ho lavorato alcuni anni della mia vita, anni molto importanti per me. Gli ho chiesto un’intervista, in questi giorni in cui è tornato a Torino per curarsi dalle ferite procuratesi a causa di uno scontro con un gorilla del Parco dove lavora. Avevo saputo della sua storia e ho provato la curiosità di conoscere meglio le motivazioni che lo hanno spinto a cambiare completamente la propria vita: vivere nei Parchi africani, osservare gli animali è sicuramente affascinante, ma non è certo esente da rischi.
Oggi l’aria di Torino ha un odore acre e maleodorante, nonostante non lontano da qui si distenda un’area verde sia lungo le sponde del fiume più lungo d’Italia, sia lungo la ridente collina.
Uno strato di aria inquinata avvolge tutti noi, togliendoci la gioia di respirare a pieni polmoni.
Con una tazza fumante di tisana, inizio ad ascoltare la sua storia.
Alessandro ha iniziato ad amare l’Africa durante il suo soggiorno a Johannesburg, a sedici anni, quando, grazie ad un progetto di scambio studentesco, ha  studiato per sei mesi in un liceo sudafricano vivendo presso una famiglia che risiedeva a pochi metri da uno squatter camp, dal quale a volte provenivano sinistri colpi di pistola. Ha iniziato così a scoprire i mille volti dell’Africa, ma l’Africa cui aspirava lui non era quella delle città, dei termitai umani, bensì quella dei vasti spazi, degli orizzonti di fuoco, degli incontri con i grandi mammiferi.
L’amore per l’Africa e i grandi mammiferi, oggetto  della sua ricerca per la tesi di laurea, oggetto oggi del suo lavoro, ha radici profonde, come spesso succede, nella sua infanzia, nei pomeriggi trascorsi a guardare i meravigliosi documentari di Piero Angela, padre putativo di molti giovani della generazione dei nati negli anni ’80. L’amore per la Natura nasce dalle domeniche trascorse con la sua famiglia,  dai viaggi con i suoi genitori, che gli hanno trasmesso il bisogno del contatto con l’ambiente naturale.
Racconta di essere molto legato a Torino, ma sente che la città è malata, la definisce un organismo malato perché non in equilibrio con il resto dell’ambiente. Alessandro ha vissuto in luoghi, dove l’uomo non ha lasciato le sue tracce, in Tanzania e in Namibia e sa la differenza tra un ambiente equilibrato e uno malato. Mi confida che a Torino sente che l’uomo è triste, che sta boccheggiando. Inoltre non ci sono volti giovani in città. Vero, purtoppo, i giovani ci sono, ma sono pochi rispetto ad altri luoghi del mondo.
Qui sostituisco l’ascolto al dialogo: il tema mi è particolarmente caro, i nostri giovani studenti e figli sono cresciuti con noi, si sono formati come cittadini e ora molti di loro sono altrove, lasciando a noi, diversamente giovani il fardello, ancora una volta, di occuparci della democrazia, di sorvegliare gli atti dei nostri governanti, senza poter sperare in un ricambio generazionale e senza poter contare sulla gioia e la consolazione che i  giovani offrono a chi giovane non è più.
Mi piace dialogare con Alessandro, ci allontaniamo un po’ dal Parco, dalla sua bellezza che leggo negli occhi vivaci e sognanti del giovane che ho di fronte a me, per parlare di quanto lui sia orgoglioso di essere italiano.
“ Sono orgoglioso della cultura italiana e del cuore degli italiani. Sono innamorato della diversità intrinseca all’Italia. Siamo complessi e in generale generosi. Sono orgoglioso della voglia di vivere insieme. Sono  allo stesso tempo spaventato da ciò che osservo ultimamente. Ovvero la paura del diverso e la miopia della gente sempre più egoista.”
 Essere nati italiani è quindi una fortuna, anche se l’italiano è un individualista, non ha il senso della comunità, guaio serio, indubbiamente, di cui siamo testimoni ogni giorno. Non tutti, però, la diversità cui allude il giovane biologo è reale e ci vede spesso divisi su molte questioni.
Dal concetto della comunità è facile tornare a parlare del mondo animale: per lui osservare gli animali, rapportarsi a loro è empatia pura. “Gli animali sono genuini nelle loro azioni, ogni giorno  so che, osservandoli, imparerò da loro qualcosa, perché gli animali capiscono più di quello che capiamo noi. Ogni giorno provare a capire gli animali per me è aprire sempre di più gli occhi. Noi abbiamo creato sovrastrutture per giustificare tutto e rispondere alla banale questione del motivo delle nostre azioni. Queste problematiche nascono dal distacco dalla realtà e anche quando ormai affrontiamo problemi basilari, ci mancano le chiavi di lettura semplici della Natura. In questo ambito vedo la Natura (di cui l’uomo fa parte, anche se vuole pensare di esserne distaccato) come un sistema complesso gestito da regole lineari e mai in contrapposizione.”.
La contrapposizione, la manipolazione, la falsificazione, le contraddizioni: sono ciò che dobbiamo affrontare ogni giorno. La Natura appare come un mondo semplice dal racconto di Alessandro, lineare.
Piano piano stiamo arrivando a parlare dei gorilla e del gorilla, quello dell’incontro ravvicinato.
La  prima regola alla quale si attiene è quella di non leggere mai i comportamenti dei gorilla in chiave antropomorfa. Nonostante ciò, quando un gorilla ha un’espressione triste è proprio perché è triste,  si può comunicare, è un ponte della comunicazione tra noi umani e il mondo animale.
I gorilla sono onesti e genuini, cosa che non può dire degli scimpanzé, che spesso nascondono le loro vere intenzioni, usando una forma di furbizia che  spaventa, perché sono troppo simili agli uomini.
Nonostante ciò che gli è accaduto   a dicembre, mi parla dei gorilla con estrema amicizia e fiducia. E’ tranquillo mentre racconta, non trapelano segni di trauma, mi faccio coraggio e gli chiedo di raccontarmi esattamente cosa sia accaduto quel fatidico mattino: il tempo dell’intervista sta finendo, purtroppo, ma Alessandro mi racconta con molta calma che il gorilla avrebbe potuto ucciderlo, se avesse voluto, pesando ben 160 kg. Invece in realtà voleva solo riportare nella sua famiglia, nel suo clan, la giovane veterinaria che per mesi lo aveva nutrito e curato, dopo una terribile esperienza: la morte dei suoi genitori ad opera dei bracconieri e la rottura di un suo arto. Apprendo così, per la prima volta, che in Africa c’è chi mangia la carne di gorilla. Non per fame. Una volta che il gorilla è stato reinserito nel Parco in libertà, il nostro primate non aveva più rivisto la giovane veterinaria e quella fatidica mattina, incontrandola, ha ritenuto doveroso prenderla con sé, come membro del suo gruppo. Ecco tutto, se avesse voluto ucciderli, lo avrebbe potuto fare subito. Ciò che è seguito è stata una lotta, certo, di Golia contro Davide. Nel nostro caso, Davide si chiama Alessandro e ha cercato di liberare la sua giovane collega: ciò che è seguito, la lotta, il salvarsi nella palude, dove il gorilla non entra per paura dell’acqua alta, ha confermato le intenzioni pacifiche del mammifero, il quale ai bordi della palude si batteva le mani sul petto, usando una melodia conosciuta dal nostro coraggioso biologo, che dimostrava il desiderio del primate di proteggere la giovane, di volerla portare con sé. Immaginiamo la paura della giovane dottoressa.
Indubbiamente questo episodio, il primo incidente in venti anni nel Parco, che fortunatamente è finito bene per tutti, modificherà le uscite future  per monitorare il reinserimento dei gorilla. Le donne non saranno più esposte a questi rischi.
Sono trascorsi pochi giorni, Alessandro è stato curato dalla Sanità pubblica torinese e ora può e vuole tornare nella sua casa, nel suo ambiente, con i suoi animali, dai quali continuare ad imparare.
E’ notizia di questi giorni il tentato colpo di Stato in Gabon: mi rassicura, la situazione è tornata alla normalità, se normalità è una dittatura.
Il mio pensiero corre ad un giornalista che mi ha fatto odorare e respirare l’aria africana, Kapuscjinski in Ebano. I suoi racconti in giro per l’Africa negli anni 60, gli anni della decolonizzazione e dei signori della guerra. Tra una guerra e l’altra, si intravedeva la cultura africana, le tribù, la loro solidarietà, condivisione, gioia di vivere, i cieli infuocati, gli spazi immensi, gli odori e i colori. Di tutto ciò vorrei ancora parlare, ma il tempo è tiranno, qui, da noi in Occidente.  Ancora un’ultima risposta alla mia curiosità sulle sue motivazioni profonde a vivere una vita così diversa da quella di tanti giovani di oggi.
Mi racconta che la sua missione è compensare, restituire ciò che ha preso dalla natura, cioè la bellezza, non può pensare che lui e tutti noi un giorno non avremo più la meravigliosa complessità che la natura, quella vergine, ha e che noi cittadini abbiamo estirpato quando abbiamo costruito il nostro alveare, la città. “La città non è in netta contrapposizione. Le città sono i nostri alveari e dobbiamo accettarle. Quello che è inaccettabile è lo sfruttamento incontrollato delle risorse fuori dalle città, causato da uno spreco o un uso smoderato dentro le città”.
Ci salutiamo, ma io ho ancora tante domande da fargli, spero proprio di rivederlo presto quando tornerà a trovare la sua famiglia.