martedì 15 febbraio 2022

CROSSROADS







L’ultimo libro di Jonathan Franzen viene reputato dai critici letterari come il migliore dei suoi romanzi. 

Personalmente io sono stata rapita dalla narrazione e dal narratore, dalla sua bravura nell’indagare e descrivere l’ambivalenza dei sentimenti umani, dalla capacità di spogliare le persone, di mostrarle fragili e vulnerabili come sono veramente al di là dei ruoli e delle maschere sociali.

Franzen  definisce il suo romanzo come storico. In effetti è ambientato in una località fittizia all’inizio degli anni ’70 e i temi corali emergono non solo trattando della guerra del Vietnam dal punto di vista dei pacifisti, dei problemi sociali e politici dei nativi americani, ma anche dei contrasti generazionali, tipici di quegli anni, dell’irrompere della droga e dell’alcool nella vita della gioventù americana, dei rapporti con l’autorità che perde autorevolezza agli occhi dei giovani e tra le autorità primeggia Dio, la ricerca da parte di tutti i personaggi del romanzo di una fede diversa da quella ortodossa.

L’autore definisce il suo un romanzo realistico nel quale racconta i dubbi, le domande, i rimorsi, le speranze di persone comuni.

Si tratta infatti della storia della famiglia Hildebrabdt, formata dal padre Russ, ministro di culto della First Reformed, dalla moglie Marion e dai loro quattro figli.

La storia inizia nei giorni che precedono le feste natalizie ed è interessante che la vita di tutti e sei i componenti della famiglia cambi radicalmente a causa degli avvenimenti che accadono nella stessa serata.

Non sono gli avvenimenti in sé e per sé che mi hanno incollata al libro per ore e ore, bensì la rara capacità di comprendere profondamente i dissidi interiori, i conflitti sui comportamenti ritenuti “buoni” o “cattivi”, sul male che si agisce e si subisce,  sulle fragilità psichiche che fanno fare ciò che non si vorrebbe, sulla cattiveria che nasce da quella fragilità, sull’angoscia che porta all’ossessione e sull’ossessione che porta alla follia.

Il capitolo migliore per me è proprio quello dedicato a Marion, straordinaria figura di donna che, innamoratasi perdutamente di un uomo sposato, rifiutata da lui quando lei sa di aspettare un bambino, impazzisce e sperimenta le cure psichiatriche di quegli anni. Dichiarata guarita e ritornata alla vita, diventa vittima di una fede superstiziosa, fin quando non incontra Russ, un giovane bello e puro, di famiglia di religione mennonita, al quale non racconta il suo passato. Lui per lei rinuncia alla sua famiglia: insieme iniziano una vita che perde via via la giosità iniziale e si riduce in una quotidianità nella quale Marion inizia a eccedere con il cibo fino a diventare sgradevole agli occhi del marito, invisibile nella sua mammità.

Sono stata rapita dalla capacità di raccontare il “cratere” che una persona fragile psicologicamente sente avvicinarsi e cerca disperatamente di evitare in tutti i modi.

Marion è il punto dei riferimento dei figli e del marito, ma l’indifferenza del marito verso di lei le riporta a galla i suoi sensi di colpa, il rimorso per il non detto, per il suo passato.

Il cuore del romanzo per me è la capacità di descrivere le relazioni tossiche tra le persone della stesso nucleo familiare fino alla follia del figlio Perry, che genera un nuovo ordine all’interno della famiglia.

L’autore ha previsto una trilogia, per cui aspetto con molto interesse il seguito.

Mi chiedo quanto sia adatto un romanzo di 640 pagine ai lettori di oggi. Siamo tutti abituati a letture di pochi minuti, siano gli articoli di un quotidiano on line, i post dei nostri amici, i messaggi su wattsapp.

Eppure caro lettore, cara lettrice, perdersi in una storia per ore e ore, perdere il senso del tuo tempo, dei tuoi problemi, interrogarsi insieme ai protagonisti sulla fede, sul male, sulla follia, sulla fedeltà, sul coraggio, insomma su temi universali è possibile solo con opere come queste, che ti aiutano a comprendere meglio te stesso e gli altri. Un capolavoro.