mercoledì 29 dicembre 2021

Dalle borse ai Balcani

 


 

Oggi, caro e cara lettrice del mio blog, ti presento la vita lavorativa di una giovane donna: lavora nel borgo dove vivo da tanti anni, il borgo del fum o, come preferisco io, il borgo costruito tra i due fiumi, La Dora e il Po, il borgo delle lavandaie, il borgo mal sano nell’800, e che oggi è un luogo dove i torinesi passeggiano godendo il sole e la bellezza del panorama.

La collina da un lato, i fiumi e gli alberi lungo le sponde, tutto ciò rende questo luogo uno dei più belli di Torino: ti presento Vanchiglietta.

In questo borgo, lungo corso Belgio, tra i vari negozi ce n’è uno che, oltre ad avere articoli tradizionali di pelletteria, contiene prodotti completamente artigianali anche un po’ particolari e ospita manufatti di numerosi artigiani del territorio che lavorano pelle, cuoio, stoffe e anche materiali riciclati. Tra i numerosi articoli colorati spiccano le borse artigianali confezionate riciclando copertoni d’auto, camere d’aria e palloni e le mini sculture realizzate salvando i libri dal macero e molte altre cose che ti invito a scoprire.

Da qualche anno a gestire questo negozio colorato c’è lei,Chiara, una ragazza che conobbi bambina, quasi adolescente quando frequentò il corso di preparazione alla Cresima presso la Parrocchia Santa Croce e la ritrovai come compagna di studi universitari di mio figlio Simone, alcuni anni dopo.

La sua storia è interessante per me e spero anche per te come  testimonianza del mondo giovanile a Torino.

La prima passione di Chiara è scrivere. Passione e sogno. Da quando frequentava la scuola elementare Muratori lei da grande voleva essere una scrittrice.

In realtà Chiara è una scrittrice perchè ha già pubblicato.

 Ha pubblicato a Sarajevo il libro “La stagione dell’amore”, traduzione dell’opera Grozdanin Kikot di Hamza Humo tratto dalla sua tesi triennale. Ed è in attesa di risposte dalle case editrici in relazione alla sua ricerca sugli stupri etnici avvenuti in Bosnia Erzegovina durante le guerre degli anni Novanta. Come traduttrice, ha pubblicato dei racconti di Joseph Conrad, ha tradotto dal serbo l’opera “Sangue impuro”. Già perché Chiara, di professione commerciante, non ti ho ancora detto che ha tre lauree.

La prima in Lingue e letterature straniere, come mediatore linguistico. E le lingue scelte sono state inglese e serbo-croato.

L’amore per il serbo croato nacque quando le sue maestre (quanto importanti sono i maestri che incontriamo per via!) accolsero in classe due ragazzi bosniaci scappati da Sarajevo e arrivati a Torino con la famiglia per permettere ai loro genitori di curarsi (erano stati feriti dalle mine). In quegli anni purtroppo l’Europa riviveva l’incubo della guerra, quella guerra fatta di bombe, di distruzione, di fame, di morte. Quella guerra che i popoli europei avevano giurato di non volere mai più, unendosi intorno al manifesto di Ventotene di Altiero Spinelli e poi alla successiva Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Per non parlare della nostra Costituzione. Gli Europei avevano capito che al posto di trincee, bombe, campi di prigionia o peggio di sterminio, si dovevano stilare trattati, riunirsi per legiferare per il bene comune, costruire ponti, ferrovie, permettere a tutti di viaggiare e di sentirsi tutti cittadini europei. Ed invece ogni giorno in quegli anni il bollettino di guerra raccontava stragi, fratricidi, vicini di casa contro i vicini di casa, parenti contro i parenti, amici che diventano nemici,  in un escalation di morte. Proprio ai confini della nostra Italia.

In questo contesto Chiara incontra due bambini, Ajla e Ammar, che diventeranno suoi amici, che furono i suoi primi insegnanti di quella che diventerà la sua lingua del cuore: il bosniaco. Si perderanno di vista di lì a poco, ma i loro insegnamenti sarebbero rimasti con lei negli anni a venire.

Per Chiara Sarajevo è casa sua e la lingua bosniaca è la lingua amica.

Con questo spirito laurearsi e scrivere  una tesi in bosniaco credo che sia un valore aggiunto e capisco che sia stata pubblicata.

La seconda laurea è quella di traduttrice editoriale e tecnica dalle lingue serbo-croato e inglese, sempre presso la facoltà di Lingue e letterature straniere di Torino.

La scuola italiana persevera nel sostenerla in questa strada: mentre frequenta il Liceo Scientifico Gobetti l’insegnante di lettere organizza uno scambio culturale con un liceo di Sarajevo. Sarà ospite a casa di Tarik, un ragazzo molto timido ed educato, che ora ovviamente è un suo caro amico. Quello scambio fu l’inizio del suo legame con quella città. Grazie a Sarajevo conobbe Lejla, la sua attuale migliore amica. Molti anni dopo, mentre era a casa della zia di Lejla, sfogliando l’album di famiglia trovò anche se stessa tra le foto che la famiglia aveva fatto durante un triste soggiorno a Torino durante la guerra, quando erano venuti in Italia per curare il marito reso invalido da una mina. In quel momento tutto ebbe un senso, perché il cugino della sua amica Lejla non era altri che Ammar, il bambino che molti anni prima le aveva insegnato le prime parole di bosniaco, insieme ad Ajla.

L’ultima laurea, la terza, l’ha conseguita presso il campus Einaudi in Scienze Internazionali. Materia scelta: Storia dei crimini di guerra. Ovviamente, si era iscritta proprio per poter scrivere una tesi sugli orrori della guerra a Sarajevo e in Bosnia. La tesi è stata molto impegnativa, se consideriamo anche che è stata scritta in costanza di lavoro, quello di commerciante.

Molto impegnativa anche per l’argomento. Un argomento importantissimo ed io non vedo l’ora di leggerla. Sullo stesso argomento ha anche pubblicato sulla rivista di storia contemporanea Qualestoria, “Novecento balcanico. Un secolo di guerre”.

Ho precisato il lavoro attuale perché in realtà Chiara ha sempre lavorato, dopo il liceo. Dog-sitter, baby-sitter, commessa, traduttrice, insegnante di lingue. Una giornata complicata, intricata di appuntamenti, impegni e scrittura, la sua cara e amata scrittura, vero rifugio. Tre lavori in un giorno. Lo so, non scrivo nulla di nuovo. Questo mondo è solcato ogni giorno da creature giovani che provano ad avere il corrispettivo di uno stipendio sommando lavoretti. Quanta fatica e quanto spreco di energie ed intelligenze.

Una ragazza così qualificata ed intelligente costretta a scrivere nei ritagli di tempo perché nessuno le ha offerto la possibilità di dedicare tutto il suo tempo solo alla ricerca. Pensa a quali vette sarebbe potuta arrivare una donna, questa donna, se avesse potuto dedicare tutto il tempo alla ricerca.

Credo di aver dimenticato la Scuola di specializzazione per traduttori editoriali, un Master di secondo livello finanziato dall’UE, lo stage dal quale è nata la pubblicazione della traduzione del libro “Strane avventure di Sherlock Holmes in Giappone” da Marcos y Marcos.

Chiara persevera. Aspetta che la sua ricerca sulle violenze di genere venga pubblicata.

E prepara il suo negozio per Natale, alberi, babbi natali, tanta pazienza verso i clienti, capacità organizzativa, scelte attente agli articoli e agli artigiani, un blog in cui racconta la sua vita da commerciante di borse, cappelli, ombrelli e guanti.

Lei vive in un limbo e ha un grande desiderio: realizzarsi come ricercatrice, se non ero stata chiara.

Intanto, augurandole di riuscirci, se volete leggere il suo diario di commerciante, cliccate su www.pelletteriagivogre.it

E mi raccomando, andate a trovarla in negozio.

sabato 4 dicembre 2021

PIAZZA SAN CARLO

 



L’appuntamento è per le nove del mattino con il mio gruppo fotografico.

Obiettivo: fotografare Torino dal mio punto di vista.

Ufficialmente l’inverno deve ancora arrivare: qualche fogliolina colorata ondeggia precaria dai rami spogli, superstite di un autunno dorato e luminoso, che ha restituito agli occhi il sole estivo nel giallo delle foglie dei platani o dei ginko biloba. Ora tappeti di foglie marroni ricoprono giardini e parchi. La temperatura  è quella dei primi giorni di dicembre a Torino: al limite dello zero, un po’ più sotto di notte, con ghiaccio mattutino e un po’ più su verso le dodici, quando il sole scalda.

Sono attrezzata con il mio smartphone nella tasca del giaccone bene abbottonato. Sono pronta.

La passione per la fotografia è nata recentemente: ho sempre amato fotografare, ma quando esistevano i rullini, mi capitava di fotografare nelle grandi occasioni, durante le vacanze e senza particolare maestria.

Poi la vita ha iniziato a regalarmi un po’ di tempo libero e ho visitato delle mostre fotografiche, ho conosciuto grandi fotografi, Sebastio Salgado, Steve McCurry, Robert Capra, Yann Arthus-Bertrand, ho incontrato fotografe meno note come Anna Balbiano, prematuramente scomparsa, che mi ha insegnato a scoprire la vita in ogni angolo della città: ho scoperto una passione.

Lo smartphone è sempre a disposizione e così ho iniziato a fotografare tutto ciò che mi piaceva, mi colpiva, visi umani, fiori, alberi, paesaggi naturali e urbani. Qualche foto l’ho postata sullo status di wattsapp e ho ricevuto dei complimenti. Qualche foto ha illustrato il mio libro, su esplicita richiesta del mio editore, che apprezza le mie foto.

Ed eccomi qui ad imparare come renderle migliori, come raccontare storie con le immagini, in un linguaggio che è universale. E questo mi piace moltissimo, visto che amo raccontare storie.

La piazza è deserta, i negozi sono chiusi, le gru e le impalcature regnano sovrane, ostacolando il mio sguardo e l’oggetto della mia ipotetica foto.

Potrei realizzare un reportage sull’impatto del 110% sulla città.

 Ci sono loro, quattro senza fissa dimora, sopravvissuti al freddo della notte, seduti sulle panchine, che chiacchierano.  Vorrei fotografarli, sono belli nel loro condividere il risveglio, senza le liti per il posto notte. Non lo faccio: la foto del regista Mimmo Calopresti scattata proprio in questa piazza pochi giorni fa, di notte, ad un clochard, ha reso a tutti la tristezza di questi tempi, tra le vetrine dorate e la miseria, un contrasto tra i tanti del mondo delle disuguaglianze.

Inizio a percorrere con lo sguardo ciò che mi circonda pensando ad un reportage da Torino: non certo una meta esotica, non certo originale, ma la mia Torino.

Mi piacciono i lampioni torinesi,  bella la vista da Via Bertola verso le montagne innevate della Val Susa ma, una enorme gru si erge sovrana, belle le due cupole di San Lorenzo e quella del Duomo, ma, Piazza Castello è tutta rossa di mezzi dei vigili del fuoco che festeggiano santa Barbara. Trovo il modo di immolarle nella mia Torino: il Guarini mi piace e con lui le sue cupole. La città è vuota, i negozi sono ancora chiusi, ma fotografare Chiese e palazzi è arduo tra una gru e un ponteggio.



Sto cercando la mia Torino e mi avvio verso Via Alfieri, dove c’è la sede della Banca Nazionale del Lavoro, a Palazzo Levaldigi con la sua porta del diavolo.

La strada è stretta e il sole non è ancora arrivato fin qui, forse non ci arriva proprio. A destra e a sinistra si elevano palazzi signorili, sedi di Banche. Piano piano torno indietro nel tempo e aspetto che dalla porta del Diavolo esca quella ragazza romana, appena sposatasi con un giovane torinese incontrato in vacanza, che lavorò per qualche anno nella sede della BNL. Il bar, dove quella giovanissima donna mangiava un panino a pranzo, è stato sostituito da una tabaccheria. Per il resto appare tutto uguale tranne che la sede del bancomat è proprio nello stesso posto dove lavoravo io, con quel primo enorme terminale che si bloccava sempre e che creava tanta ansia a me e ai clienti.

Il freddo inizia a impossessarmi di me: è la vertigine del pensiero degli anni trascorsi, dei sogni di quella ragazza romana e di questa donna che oggi è qui, e scrive e fotografa.

La foto del portone è pessima. L’emozione dei ricordi mi travolge letteralmente e non trovo nessuna inquadratura adatta a rendere la tempesta che vivo.



Il freddo: non lo amo. Il freddo è contrazione del mio corpo, dei pori della mia pelle, della testa nel berretto, della bocca nella mascherina, delle mani nelle tasche, è uno strano intorpidimento cerebrale che mi rimanda al caldo, al desiderio struggente di calore dentro. Il freddo è chiusura: odio le porte chiuse, odio i muri.

La mia Torino diventa quindi un’altra Torino, quella dei ricordi di un tempo lontano, ma poi anche quella del sorriso del Topolone che incontri per via con i palloncini colorati, 



quella del mangiatore di fuoco che si esibisce davanti ad un pubblico di bimbi, quella del pompiere che mi risponde che quel bel mezzo motorizzato, il primo, era del 1700 e davanti al mio stupore si scusa che non sa proprio dirmi la data precisa. Lui è un pompiere, io non saprei fare il suo pericoloso lavoro, lo ringrazio ma penso che la cultura di base sarebbe auspicabile per tutti. Quello era il senso della scuola media unica. Quella Scuola nella quale ho lavorato con orgoglio e soddisfazione e saprei fotografare quelle porte attraverso le quali sono entrata e uscita tante volte.

La mia Torino è quella del musicista che incontri per via,   è quella dei volontari dell’associazione Ail che vendono le stelle di natale per contribuire alla ricerca e la cura delle leucemie,linfomi e mieloma,




 la mia Torino è quella di due pianoforti che si abbracciano davanti alla statua di Emanuele Filiberto per una esibizione di un giovane influenzer, Pietro Morello, a sostegno dell’Istituto di Candiolo.








Mi piacerebbe ascoltare in questa piazza Emiliano Toso, il mio musicista preferito, la cui musica è balsamo e sollievo, gioia e danza.

Guardo le scarpe del giovanissimo musicista che ha dieci anni meno del mio secondogenito, è più giovane dei miei allievi, ex, vedo le suole pulite. Mi colpiscono quelle suole nuove di zecca, penso ai piedi nudi di Emiliano quando suona, penso alle suole delle scarpe di chi cammina molto, penso a chi non ha scarpe, a chi le cerca nelle discariche (Vittorio Zucconi “Stranieri come noi”), a chi scende dai barconi con gli infradito, a chi si avventura nella neve per arrivare in Europa con scarpe di fortuna, guardo le mie.

Piazza San Carlo prima deserta ora è affollata di persone con la mascherina, alcuni con le mani piene di pacchettini: molti sono seduti al bar, molti in piedi ad ascoltare il concerto dell’influenzer.

Un famoso scrittore si sedette ad un tavolino di un bar a Parigi e aspettò: vide scorrere la vita e la descrisse.

Aspettare e osservare: ottimo esercizio per aspiranti scrittrici e fotografe.