lunedì 29 marzo 2021

TRENTA PER TE

 

 


Ho conosciuto Euro Carello quando insegnavo lettere all’I.C. Gozzi-Olivetti.

Era abitudine dei consigli di classe programmare per i ragazzi di terza media degli incontri formativi, altamente formativi. Tra questi vi era l’incontro con i volontari di Emergency e Euro era uno di loro.

Ricordo ancora oggi la sua passione nel raccontare ai ragazzi la guerra di oggi: le foto, i racconti, i libri e le domande dei giovani.

Ho terminato questa mattina, sul balcone di casa, in una giornata tiepida e primaverile di questo nuovo lockdown, la lettura dell’ultimo libro di Euro Carello: “Trenta per tre”.

Si tratta di un romanzo distopico. E’ un genere letterario che mi piace: gli scenari fantapolitici che vengono descritti in tali romanzi aiutano a riflettere su ciò  di cui gli uomini sono capaci per detenere il potere sui propri simili.

Autorevoli esempi sono Fahreneit 451 di R. Bradbury, 1984 di G. Orwell, senza dimenticare A. Huxley Il Mondo Nuovo o la più recente opera di Margaret Atwood, Il racconto della ancella.

Quando insegnavo, agli alunni di terza media leggevo e spiegavo“La fattoria degli animali”di G. Orwell, iniziandoli alla comprensione dei rapporti di potere tra esseri umani, attraverso una fiaba allegorica molto efficace.

E. Carello descrive nel suo romanzo, che ho letto tutto d’un fiato, la società italiana impregnata di razzismo verso i migranti attraverso la storia tre personaggi: Shamil, Jab e Sunee.

Sono tutti e tre degli “storti”, ovvero immigrati irregolari, senza permesso di soggiorno. Ognuno di loro ha trovato un modo per sopravvivere alle difficoltà della vita.

Shamil è un “caccia” ceceno, ovvero trova  i clandestini, rileva il loro DNA e li denuncia ai Rospi. E’ un duro, un violento, sempre muscoli e occhi tesi, sempre la mano dietro la schiena a contatto con la sua pistola. Per diventare regolare deve cacciarne trenta. Trenta per te, lo slogan che illumina le notti della città, ricorda che se ne denunci trenta, tu sarai salvo. La tua salvezza sta nella fine dell’altro, che trovato verrà picchiato e imprigionato, nella migliore delle ipotesi. Nessuno vuole andare al C3.

“Fotogrammi rapidi del C3. La camerata buia, la stanza elettrica e la sedia con le catene, lo scherzo del corridoio, come lo chiamavano i Rospi, i colpi che arrivavano da tutte le parti e la fila di divise verdi che non finiva mai, le facce che sghignazzavano feroci, la luce in fondo sempre troppo lontana. E i calci e il vomito e gli schizzi di sangue sul pavimento”.

Jab è un pass africano: accompagna i migranti appena sbarcati dai caporali, che li useranno come schiavi per raccogliere la frutta e la verdura nei campi per pochissimi soldi. Il suo compito è meno rischioso di quello di Shamil: è sufficiente far finta di non vedere, di non impicciarsi di ciò che capita a chi accompagna a destinazione.

Sunee è una giovane donna asiatica, carina. Lei, appena sarà regolare vorrebbe comprarsi un vestito nero e poi con il tempo un auto.  E’ riuscita ad affittare un appartamento piccolo e senza frigo fuori dal ghetto, ma per pagarlo è costretta a due lavori, uno di giorno, da badante irregolare in una casa di riposo per anziani e uno di notte in un locale come cameriera irregolare.

La notte e le ombre sono il contesto nel quale si svolge buona parte della vicenda, quella che porterà i tre protagonisti ad incontrarsi. L’Italia è un non luogo in realtà, dove si muovono esseri tesi solo a denunciare l’altro o a sfruttarlo.

Non c’è traccia di compassione, di solidarietà, di bellezza, di civiltà.

Tutti gli storti anelano alla “carta gialla”, il permesso di soggiorno,  che permetterebbe loro di vivere senza temere “i verdi” o i “caccia” e per ottenerla sono capaci di tutto.

Gli italiani, sullo sfondo, si ubriacano nei bar, tentano di violentare le donne, organizzano aste per aggiudicarsi le donne,  oppure non si accorgono di nulla o fanno finta di non accorgersi di nulla.

Una storia che ritrae una società senza speranza.

L’unico che si salva è un cane nero, che appare quando Sunee è in pericolo di vita, per scomparire subito dopo.

In questo libro, a differenza di altre distopie, l’autore non prova neanche a disegnare un tentativo di riscatto, nessuno di innamora (Winston), nessuno cerca la salvezza  nei libri ( Guy Montang) comunicando la sua totale delusione nel genere umano.

 

 

 

venerdì 26 marzo 2021

CHI HA VARCATO LA SOGLIA N. 12


 


Condivido un'altra testimonianza facente parte del progetto di Cascina Macondo al fine di mettere a confronto i diversi punti di vista per SVELARE IL CARCERE, con l'augurio che le molteplici storie personali di coloro che ,a qualunque titolo, hanno varcato la soglia del carcere, condivise, possano essere spunto di riflessione, arricchimento intellettuale e letterario.


Questa volta, in sincronia con le celebrazioni dantesche, un verso di Dante ci aiuta a penetrare nel mondo carcerario e non solo. In questa testimonianza c'è una dichiarazione d'amore alla scuola e alla letteratura, come porta che si apre sul mondo per trovare la consapevolezza che tutti cerchiamo.

Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando,.. ( canto XIII Inferno).  Serrare e diserrare non solo gli spazi, ma il cuore altrui - dice Dante.

IO SON COLUI CHE TENNI
di  Mariella C. - insegnante





Sono un'insegnante di Lettere in pensione e la prima volta in cui  ho varcato quella soglia è stato in una luminosa mattina di luglio di alcuni anni fa, quando sono entrata in una Casa di reclusione  come docente volontaria di un progetto di scuola estiva della sezione carceraria di un Istituto di Istruzione Superiore di quella città. Di soglie nella mia vita ne avevo varcate altre: con il passare degli anni l'esperienza e la riflessione ci portano a mettere in crisi presunte sicurezze e a fare un salto oltre, superando ingiustificate paure e pregiudizi, per regalarci poi spazi inaspettati e fino ad allora inesplorati di conoscenza, comprensione e libertà. Ma queste sono soglie metaforiche, quella invece era ed è davvero una soglia, un limite che concretamente delinea due spazi ben divisi: il fuori, che mi lasciavo alle spalle, e il dentro, in cui un po' alla volta entravo, attraverso controlli, lunghi corridoi, porte pesanti che venivano aperte e poi richiuse, il tintinnio dei mazzi di quelle grosse chiavi (ben presenti a chi frequenta un carcere), che nella loro silenziosa  unicità trasmettono  un messaggio inquietante: mai come in questo luogo si ha la percezione di come esse siano davvero simbolo di apertura e chiusura, il che contestualizzato significa libertà e reclusione.
Io son colui che tenni ambo le chiavi del cor di Federigo, e che le volsi, serrando e diserrando,.. ( canto XIII Inferno).  Serrare e diserrare non solo gli spazi, ma il cuore altrui - dice Dante. Aprire il cuore e la mente sono, per chi si inoltra in una realtà e in una comunità umana di cui si ha conoscenza soltanto attraverso le cronache e i luoghi comuni, prerequisiti per capire e mettersi in relazione. Non so se ne ero allora così consapevole,  avevo accettato di entrare come insegnante volontaria in carcere sia perché ero curiosa, in senso positivo, di conoscere quell'ambiente e le persone che lì vivono, sia perché ho sempre amato la scuola e l'insegnamento. Mi intrigava poi la prospettiva di insegnare a degli adulti, esperienza che non avevo mai fatto.
Ero emozionata e anche un po' impaurita, perché nasconderlo? Quando l'agente che mi aveva accompagnata chiuse a chiave la porta dell'aula e mi trovai sola con un buon numero di persone detenute in una sezione di Alta Sicurezza, in un attimo mi  immaginai sequestrata e usata come ostaggio! Niente di tutto questo successe, tutto procedette serenamente e  fin dall'inizio io mi sentii a mio agio ed accolta: la lezione che avevo pensato e preparato (lessi loro una novella di Pirandello) fu motivo di scambio e di un vivace confronto.
Da allora (era il 2014) ho continuato ad essere presente nella scuola, ho conosciuto molti detenuti e contribuito alla preparazione di alcuni per l'esame di maturità, ho partecipato a progetti di incontro con scrittori, ho visto le pareti degli ambienti scolastici diventare pitture bellissime grazie all'impegno e alla professionalità dei docenti e al fattivo coinvolgimento degli studenti, in breve ho constatato di persona  l'importanza della scuola nei processi di formazione e di crescita personale.
Non sono una buonista, non sono andata lì pensando di fare un'opera di misericordia a dei disgraziati cui portare una salvezza non richiesta, ci sono andata mantenendo le mie convinzioni (aderisco ai principi e alle iniziative di Libera) e ponendomi in una posizione di rispetto, che è stato reciproco, e di autenticità, mantenendo il mio ruolo senza autoreferenzialità e non nascondendo mai le mie idee anche quando erano in contrasto con quelle di qualcuno. La letteratura, tema dei nostri incontri, offre la possibilità di confrontarci sull'idea che abbiamo della vita e del mondo, ci apre spazi di conoscenza, ci fa riconoscere  emozioni e sentimenti, ci interpella su ciò che è  bene e ciò che è male, ci chiarisce a noi stessi:  in sintesi ci mette di fronte alla complessità dell'animo umano. Ed è quello che ho sperimentato in questi anni di frequentazione del carcere, cioè che le persone non si esauriscono in un gesto o in un atto che hanno compiuto (senza peraltro sottovalutarne il peso e la gravità), ma sono questo e tanto altro, e che la scuola e ogni attività formativa offrono strumenti  per scoprire o riscoprire aspetti nuovi di se  stessi e per porsi in un cammino di ricerca e di consapevolezza. Le persone che ho incontrato sono  diverse fra loro, con alcuni è stato più facile intendersi, con altri meno, ma questo succede normalmente nelle nostre relazioni; la diversità di idee e anche i conflitti possono essere importanti opportunità educative, se condotti e gestiti nel rispetto reciproco.  Se continuo a varcare la soglia e mantengo rapporti epistolari con alcuni detenuti trasferiti in altre carceri,  è perché oltre quella soglia ho intrecciato relazioni significative: è stato  per me un percorso arricchente.



martedì 23 marzo 2021

UN QUADERNO BIANCO SU UNA PANCHINA VERDE

 


 

Molti giorni fa, passeggiando sul Lungo Po Antonelli con una mia amica, notai dei foglietti di carta incollati alla spalliera delle panchine. Mi fermai e lessi frasi tratte da canzoni italiane, canzoni d’amore.  Su uno c’era scritto:

Mi sei scoppiato

Dentro al cuore

All’improvviso

Sarà perché m’hai

Guardato come

Nessuno m’ha guardato

Mai

Mina

Franca ed io pensammo che a lasciare questi pensieri fosse una donna, giovane e molto innamorata. 

Arrivate all’incrocio tra Lungo Po e Corso Belgio, sull’ultima panchina vedemmo due quadernini (dentro una busta di plastica con annesso il disinfettante) con su scritto:

“Scrivi una tua storia o semplicemente qualcosa che vuoi lasciare andare".

Aprimmo e leggemmo qualche frase scritta da viandanti come noi due.

Immediatamente nacque in me il desiderio di intervistare la creatura che aveva avuto questa idea: un quaderno a disposizione di chi cammina sulle sponde del fiume più lungo d’Italia, per raccontarsi.

Capita sempre più spesso di “incontrare” dei libri lasciati in regalo a sconosciuti: all’inizio ne gioivo, poi con il passare del tempo mi congratulavo, ora lo trovo normale.

Non mi era ancora successo di trovare una raccolta di pensieri, riflessioni, poesie su una panchina, di tutti e per tutti, semplicemente per comunicare.

Siamo soliti trovare dei quaderni nei luoghi della cultura, delle mostre, persino nei rifugi o negli agriturismo, per segnalare il gradimento delle opere esposte o del servizio.

Mai un quaderno per raccontare di noi.

L’ho trovato geniale, oltre che gentile e poetico, anche terapeutico.

Grazie a fb e al gruppo “Sei di Vanchiglietta se..” ho rintracciato la giovane donna che ha ideato tutto ciò.

Mi ha raccontato che purtroppo due giorni fa i due quaderni sono scomparsi, ma che in questo mese lei ha raccolto ringraziamenti e storie, che le sono rimaste impresse nel cuore. C’è chi ha scritto di storie di amore, chi del tempo della guerra, chi semplicemente ha descritto la propria giornata, chi ha scolpito su un foglio di carta la propria solitudine.

Se ne deduce che le persone hanno tanto bisogno di raccontarsi e appena qualcuno tende una mano, ecco che si aprono, seppur ad una persona sconosciuta. Molti si sono firmati, una sigla, un nome di battesimo.

Serena, la giovane donna, è rimasta impressionata dal racconto di un anziano che, paragonando la guerra al virus alla Seconda Guerra Mondiale, sottolineava come oggi per lui è più difficile perché manca il contatto tra le persone, l’aiuto reciproco, il sostegno.

La giovane, in realtà non so esattamente quanti anni abbia ma non più di venti, al telefono si mostra timida e schiva, e fatico a ottenere risposte alle mie domande, ma quando le chiedo se è una  donna innamorata la risposta è immediata: “ Sono innamorata della vita”. Non avrei potuto ricevere una risposta migliore oggi come oggi, con l’aumento dei casi di depressione tra i giovani o in generale di disturbi psicologi a causa della pandemia, sentire che lei è innamorata della vita, che ha fiducia nel prossimo, che ama Vanchiglietta, ritienendola una delle più belle zone di Torino e per questo ha lasciato proprio lì il suo quaderno, quindi oltre che ottimista è anche piena di iniziativa, ecco, da Professoressa e da mamma ho provato gioia.

Serena sarebbe potuta essere una mia allieva: ha frequentato una Scuola secondaria di primo grado dove ho insegnato anche io, la sua Professoressa di italiano, Amelia, era stata una mia collega.  Mi ha confidato di esserle molto grata, anche se gli anni delle medie tende a rimuoverli dai suoi ricordi, come molti d’altronde.

Qual è la motivazione che ha spinto Serena a depositare un quaderno bianco su una panchina verde?

E’ forse anche lei sola, come molti, pur se giovane e coccolata dalla famiglia e dagli amici? La solitudine non è forse uno stato dell’essere, che prescinde da quante persone intorno abbiamo? La solitudine non è anche sentire la propria unicità, capire che l’intensità con cui ciascuno di noi sente e vive la vita, difficilmente si riesce a condividerla realmente, difficilmente si incontra un altro che sappia leggere il nostro cuore?

Spero che i quaderni tornino presto sulla panchina  verde, se non quelli già scritti, uno nuovo, magari lasciato da un’altra persona, così che la magia del raccontarsi  possa continuare.

Sarà perché mi hai guardato come nessuno mi ha guardato mai” Mina

 

 

sabato 20 marzo 2021

CHI HA VARCATO LA SOGLIA N. 10 E N. 11

 

Car* lettrici e lettori,

questa settimana condivido, come già sapete, il progetto di Cascina Macondo di mettere a confronto i diversi punti di vista per svelare il carcere, con l'augurio che le molteplici storie personali di coloro che,a qualunque titolo, hanno varcato la soglia del carcere, condivise, possano essere spunto di riflessione, arricchimento intellettuale e letterario.

Questa sera condivido due testimonianze ( perchè sono io in ritardo di una settimana). 




TESTIMONIANZA N° 10


RIFLESSIONI DI UN ÈX RAGAZZO
CHE HA VARCATO LA SÒGLIA SIN DA ADOLESCÈNTE
di ANÒNIMO - P.S.  - detenuto




Dopo avér trascorso quasi 30 lunghi anni della mìa vita tra càrcere minorile, case circondariali e case penali, pènso, dall'alto (o dal basso) della mìa esperiènza, di potér dire la mìa.
Il motivo che mi ha fatto varcare la sòglia la prima vòlta è da attribuìre al solo fatto che, crescèndo in mèzzo alla strada, hò cominciato a desiderare le còse che un adolescènte pòvero e privo di punti di riferimento può volere in più.
Quasi inevitàbile il destino di finire in càrcere.
Non sono però un vittimista, uno di quelli che pènsano che la colpa sìa sèmpre degli altri.
Il càrcere mi ha tòlto e mi ha dato.  Va da sé che nel lungo perìodo trascorso nelle varie galère, hò potuto assìstere ai meccanismi del sistèma e vìvere in prima persona la vita carceraria.
Banalmente pòsso affermare che in càrcere tròvi tanta povertà, ignoranza, e soprattutto tanta violènza, che a mìo avviso è dettata da una forma di cultura e di difesa.
Pòsso anche assicurare che nel mìo lungo percorso dentro le mura hò trovato molte persone sensìbili che dèdicano il loro tèmpo ai reclusi, che vanno dai criminòlogi e psicòlogi, educatori, volontari, ma soprattutto docènti. L'univèrso carcerario è composto però anche di persone a cùi dei reclusi non impòrta nulla: queste persone pòssono èssere acculturate o ignoranti, ma si sènte che non hanno umanità e quindi a noi non pòssono insegnare nulla con l'esèmpio, ma solo scatenarci dentro i sentimenti più negativi come rabbia, rancore, in cèrti casi òdio.
Da parte mìa hò intrapreso un percorso di istruzione nelle varie istituzioni e con grande interèsse hò studiato (con pèssimi voti...), recitato nei vari teatri e credo che tutto ciò mi abbia insegnato la tolleranza vèrso il pròssimo.  
Un bèl giorno, avvertèndo che respiravo male, vado in vìsita mèdica: come sèmpre, paracetamòlo e cortisone.
Dopo vari cicli di medicine, un mèdico del càrcere decide di farmi fare una tac.
Èsito funèsto: un problèma classificato "eteroplàstico", più semplicemente adenocarcinòma.
Con le lungàggini del càrcere e del magistrato di sorveglianza, il tumore intanto da 17mm passa a 47mm.
Trascórrono altri dùe anni con la spiacévole sensazione di avere una bestia che ti cresce dentro mentre tu non hai diritto alla cura: metàstasi e linfonòdi.
Quando apprèndo con certezza che il mìo problèma di salute è di quelli sèri, il mìo umore ha un colpo psicològico: sono pièno di ansia e di incertezze per vìa che in càrcere - con i tèmpi lunghìssimi e la burocrazìa carceraria che va dal magistrato di sorveglianza al DAP, di nuòvo al càrcere e infine al dirigènte sanitario - sarà difficilìssimo venirne a capo.
Dèvo pur aggrapparmi alla vita e, per vìa del mìo caràttere, sènto di dovér lottare e di non lasciarmi andare. L'ansia però divènta ogni giorno più opprimènte e per distrarmi da essa inizio a frequentare i corsi di biodinàmica, teatro, educazione fìsica offèrti dalla scuòla, ma per vìa dei tèmpi lunghìssimi il mìo problèma va aggravàndosi.
Nella mìa tèsta sò che non dèvo cèdere all'ansia o al rancore: non dèvono sopraffarmi e mi impongo di fare tutte le còse di cùi sopra, anche se la mìa situazione fìsica è sempre più débole.
Finalmente, dopo un mìo esposto alla procura e martellamento di mìa moglie all'estèrno del càrcere, mi ricóverano alle Molinette per il primo ciclo di chemioterapìa.
Mi sospèndono la pena e vèngo scarcerato, pòi mi danno i domiciliari: affronto dùe intervènti e tèrmino vari cicli di chèmio e radio.  
Òggi continuo con una terapìa antitumorale.
Ora c'è il coronavirus, molti detenuti hanno paùra, ma ìo mi permetto di dire loro di non arrèndersi mai e di lottare. Ìo non sono guarito, ma sono vivo e vègeto e stò abbastanza bène. I problèmi più urgènti ora sono altri: sulla sòglia dei 60anni, mi tròvo ancora ancorato a problèmi di giustizia. Prèndo 290 èuro di pensione di invalidità e i problèmi econòmici pésano anche all'intèrno delle mura domèstiche.
Condivido il pensièro di Dostoevskij,  cioè che la civiltà di un paese si misura con lo stato delle càrceri. Qualcuno potrà obiettare sul fatto che sono di parte: è vero, non lo biàsimo, ma dalla mìa di parte ci sono 30 anni di branda.
In bocca al lupo a noi tutti!

 

TESTIMONIANZA N° 11

FINALMENTE LIBERO
di Raul Bucciarelli - medico


Era il 1995 ed ero davvero  ancora agli inizi della mia professione di medico. Il lavoro di sanitario presso una struttura carceraria durò un paio di anni. Un periodo breve, ma che mi ha insegnato molte cose.  Lui lo ricordo ancora molto bene, anche dopo venticinque anni, fra i tanti volti passati,  visti e rivisti tante volte da dietro l'austera scrivania della infermeria della Casa Circondariale di B.  Quella scrivania era divisa dalla libertà da otto solerti porte automatiche e centocinquanta passi. Lui era  alto e magro, con una barbetta brizzolata ruvida e rada, gli occhi vivissimi e guizzanti, i capelli incolti e lunghi..... Il suo volto scavato raccontava con trasparenza un infinito dolore e rassegnazione. Il cognome declinava con certezza le sue origini siciliane. Il suo dialetto inconfondibile e schietto raccontava sicuramente Palermo. Lui era  uno dei tanti detenuti che al mattino faceva la fila nell'ambulatorio del carcere. Non ho mai voluto sapere, naturalmente,  perchè fosse finito in un penitenziario. E alla fine non l'ho mai saputo.  Questo era per me un principio fondamentale ed imprescindibile  per poter esercitare con serenità  il lavoro di medico in un posto non facile come quello. Ogni tanto gli agenti di custodia mi raccontavano  qualche cosa sul passato dei miei pazienti,  ma io cercavo di  glissare sempre. I miei pazienti erano solo dei malati.  Lui era un paziente abituale, e passava in infermeria abbastanza spesso. Si sedeva appoggiando il gomito destro sulla scrivania, mi guardava fisso negli occhi e mi ripeteva: "Dottore, non mi funziona bene il cervello". Lo diceva con tono accorato e anche un pò teatrale con gli occhi rivolti verso il cielo, quasi a cercare una sorta di benedizione o qualto meno di approvazione divina. Gli chiedevo di spiegarmi bene, ma non c'era molto da dire.... si prendeva la testa fra le mani e mi diceva: "Il cervello dottore.... il cervello". La sua cartella clinica raccontava innumerevoli valutazioni psichiatriche con variopinte diagnosi: "Stato depressivo", "Note di delirio persecutorio", "Disturbo schizotipico di personalità".... Nessuna di queste definizioni raccontava chi era.... Lui si recava in infermeria più per chiacchierare o per chiedere di aumentare il dosaggio già altissimo degli psicofarmaci per alleviare chissà quale disagio profondo.
Gli agenti di custodia lo consideravano un tipo bizzarro ma nella sostanza non particolarmente pericoloso.... Un mattina però arrivò più agitato del solito e finalmente riuscì a dirmi qualcosa di più.  
Era molto preoccupato, perchè tra qualche giorno avrebbe concluso la detenzione e come si suole dire: "si sarebbero aperte le porte del carcere". Con la testa tra le mani continuava a ripetermi: "Dottore adesso dove andrò? Non ho nessuno che mi aspetta...dovrò tornare a Torino..."
Non avevo mai riflettuto su  una situazione del genere. Non si pensa mai che per molti esseri umani il carcere rappresenta una sorta di casa. Fuori mancano spesso  affetti, amicizie, legami familiari. Molti hanno la residenza nell'istituto di pena e non sanno neanche dove dormire. Fuori manca il  lavoro, non si è più nessuno. Il carcere per molti rappresenta una sorta di identità e il dopo è solo insicurezza.  
Ho avuto un colloquio non facile. Cosa si può dire oltre qualche ovvietà? La direzione da me interpellata mi ha assicurato che sarebbe stato in qualche modo comunque affidato ai servizi sociali di Torino.
Dopo tre giorni è uscito. Mi hanno detto che aveva uno scatolone legato col cordino e un sacco nero dell'immondizia con tutte le sue cose. Aspettava l'autobus per la stazione. Finalmente libero.


lunedì 15 marzo 2021

PRENDERSI CURA DI CHI SI PRENDE CURA

 



Carissim*,

ho partecipato con entusiasmo e motivazione alla richiesta della Dott.ssa Maria Teresa Matera, socia fondatrice del CIRP, di raccontare in un video CLICCA QUI la mia esperienza di caregiver  insieme all’amica Maria Nella Abbassetti.

Nel blog non ne ho mai parlato espressamente, velatamente sì in “Prendo amore” e “Pesce d’aprile”.

Alcuni dati per circoscrivere il problema:

1.     Nel mondo l’ictus è la prima causa di disabilità.

2.     In Italia esistono 7 milioni di caregiver, ovvero di persone che si prendono cura delle persone disabili (fonte Istat)

3.     Molti di loro vivono la disabilità del proprio parente con sintomi ansiosi o con sindromi depressive

4.     Le cure sanitarie in Italia sono rivolte esclusivamente al malato

5.     Il caregiver deve affrontare da solo il  cambiamento della propria vita e della vita del proprio caro.

 

Se ne deduce facilmente che occuparsi  dei caregiver non è tempo sprecato, non sono soldi persi, bensì si tratta di un investimento sulla salute di tutti, disabili, familiari, caregiver.

Ancora oggi, anzi direi soprattutto oggi, nel pieno della pandemia, non si può attendere che la sanità pubblica se ne occupi, già oberata da altre urgenze. Speriamo che sia possibile nel futuro.

Proprio oggi però le persone sono ancora più isolate e sole con i loro problemi.

Urge aiutare, specialmente quando i confini sono quelli dell’appartamento e gli unici a potervi stare sono i conviventi.

Si nasce anagraficamente una volta, ma psicologicamente moltissime volte.

Se potete condividere il post, il video e l’iniziativa, se potete sostenere il progetto, anche con cifre minime, fatelo, farete sicuramente il bene di qualcuno.

 

 

 

 

sabato 6 marzo 2021

CHI HA VARCATO LA SOGLIA N.9

 

Continua la collaborazione con Cascina Macondo, progetto “Chi ha varcato la soglia” al fine di mettere a confronto i diversi punti di vista per svelare il carcere.


La lettura di questa testimonianza mi ha fatto pensare a quanta forza sia necessaria per vivere situazioni limite come quella del carcere e quanta forza sia necessaria alle vittime dei reati, ai sopravvissuti, ai figli, alle mogli, ai mariti.

E' un mondo di dolore.

Quando penso al dolore mi chiedo sempre se sia eliminabile. Mi chiedo se in una società più attenta all'altro, ai segnali che un giovane invia a chi lo circonda per dichiarare il suo disagio psichico, mi chiedo se così tanto dolore non si possa limitare.

Spesso quei segnali si ignorano.

Li ignorano la scuola, la famiglia, gli amici.

Nel mio blog ho sempre raccontato storie di vittime.

 Io sto dalla parte delle vittime. 

Ringrazio ancora pubblicamente Pietro Tartamella di Cascina Macondo per questo progetto che mi permette di entrare in questo mondo e svelarlo.

L'immagine che ho scelto questa volta è un ulivo salentino. L'ulivo, piegato dalla forza del vento, mi pare l'immagine adatta per una realtà umana così destabilizzante per vittime e carnefici.

L'ulivo però resiste, si piega ma resiste.






NON E' DI QUESTO MONDO   
di Antonia Di Polito - docente



Ho varcato la soglia nel lontano settembre 2001, prima sede dopo immissione in ruolo, assegnata in primavera per il successivo anno scolastico e, perciò, accompagnata da un'estate pensierosa su quanto potevo aspettarmi; già, perché mi domandavo: cosa può farci una docente di scuola elementare in una struttura carceraria per adulti? Cosa mai potrà insegnare ad alunni ormai "grandi"?
Primo giorno di scuola, in compagnia di una collega veterana: prima porta che si apre e primo incontro con chi ti chiede le generalità e gli oggetti che non possono "passare"; prima impressione: "mi schedano". Secondo step: questa volta è un cancello che si apre con una bellissima chiave di ottone e seconda annotazione delle generalità su un registro; entri e dietro di te il cancello si chiude; seconda impressione: sono "dentro"; ancora un cancello e, rassicurata dalla collega, arrivo finalmente in aula. Poco dopo arrivano i discenti: sono bastate poche parole di presentazione per capire subito che, mentre le porte si chiudono alle spalle, davanti si apre un mondo e puoi cominciare da dove vuoi, tanti sono gli input per una lezione di vita, prima e oltre che di scuola.
Dopo vent'anni posso riassumere la mia esperienza in alcune riflessioni: ho visto tanti volti ed ho conosciuto tante persone, ho insegnato poco ed ho imparato tanto, è stato un "crescere insieme" dove, da una parte, "la paura" ha lasciato il posto al "rispetto", il "pregiudizio e la "diffidenza" alla "fiducia", la convinzione di "stare dalla parte giusta" alla "consapevolezza" di essere stata semplicemente più fortunata, e dall'altra, la "sofferenza" lascia il posto al "bisogno di umanità", la "disperazione" alla "speranza" di poter ricominciare una vita nuova con nuova libertà, dopo aver riflettuto sul proprio sbaglio, per il quale si sconta una pena che non è solo privazione della libertà, ma anche vergogna per la propria famiglia, pensiero e lontananza da figli, genitori, affetti tutti e paura di continuare ad essere indicati, una volta "fuori".
Negli anni ho aggiunto all'attività scolastica il mio contributo di volontaria per animazione di funzioni religiose, che pure si svolgono in tali luoghi, dove, spesso, la fede viene riscoperta ed assume grande rilevanza per la crescita spirituale dei detenuti e non solo. Ricordo le parole di papa Francesco per il Giubileo straordinario: "Nessuna cella è così isolata da escludere il Signore, nessuna; Lui è lì, piange con voi, lavora con voi, spera con voi; il suo amore paterno e materno arriva dappertutto".
Sicuramente la fede mi ha indicato la strada per guardare il tutto con occhi liberi da pregiudizi e aperti ad una relazione interpersonale basata sul rispetto per la persona che si ha di fronte, sull'accoglienza dell'altro con tutti i suoi limiti, sulla disponibilità all'ascolto, sulla solidarietà, sulla condivisione, ed è così che ho portato "dentro" altri volontari, amici, i miei stessi figli, ancora giovanissimi.
Quei cancelli che si aprono quasi silenziosamente per entrare, si chiudono alle tue spalle con un colpo non più silente ed è quel rumore di ferro che, ancora, dopo anni, continua a colpire le orecchie e il cuore, forse perché, uscendo, avverti concretamente il confine tra il "dentro" e il "fuori" ed è allora che pensi alla sofferenza di chi resta, ma anche di chi va via dopo una visita, perché da quell'incontro ti porti dentro qualcosa che torna alla mente nei tuoi momenti di riflessione e che, magari, ti fa vivere in modo diverso la tua vita e la tua storia familiare, sociale e lavorativa.
Quanto alla giustizia, dico: non è di questo mondo!
 


lunedì 1 marzo 2021

CIO' CHE NEL SILENZIO NON TACE

 



Teresa ha ottant’anni. Per tutta la vita ha taciuto, convinta che quel segreto sarebbe morto con lei.

Invece in paese, un piccolo paese piemontese,  un giorno era apparsa lei, una ragazza dagli occhi verdi in cerca della Storia.

La ragazza, Aila, aveva iniziato a domandare e a cercare una suora.

Suor Emma era tornata per vivere la vecchiaia nel suo paese natio. Anche lei portava nel suo cuore dei segreti, che aveva voluto dimenticare il giorno nel quale, in treno verso Roma, aveva lasciato dietro di sé il carcere Le Nuove di Torino e le storie di dolore a cui aveva assistito da novizia.

La narrazione si dipana tra realtà e finzione. La Storia è quella vera: davvero Torino fu bombardata durante la Seconda Guerra Mondiale, la gente scappò verso la campagna in cerca di vita, i nazisti la occuparono,  i dissidenti e i partigiani furono imprigionati alle Nuove, alcuni furono uccisi al Martinetto, altri furono deportati nei campi di concentramento. Pochi tornarono.

Sono veri la fame e la paura, il silenzio e il freddo.

Aila conosceva una parte della vita della mamma Elda, sapeva che era stata deportata ad Birkenau e poi a Ravensbruck. Solo alcuni anni dopo la morte della mamma, svuotando la  casa aveva scoperto una lettera inviata ad Alfio in cui scriveva del loro bambino, Libero, fatto uscire dalle Nuove  da una suora. Aila doveva trovare la suora per trovare suo fratello. Iniziarono così le sue ricerche, che la portarono a Montevicino.

La storia si dipana tra il 1999, in una pianura padana autunnale, carica di nebbia e di freddo, e il 1944 con il suo carico di disperazione.

Martina Merletti, giovane scrittrice al suo esordio, fa vivere donne realmente esistite, come Suor Giuseppina, accanto a personaggi inventati che raccontano una storia realmente accaduta: il salvataggio di un neonato da morte certa, fatto uscire dal carcere tra lenzuola sporche.

A voi che leggerete questo libro, appena pubblicato, il piacere di scoprire tutto il resto.

Sono moltissimi i libri sulla Seconda Guerra Mondiale, molti i romanzi autobiografici, molti i testimoni che hanno raccontato.

In questo romanzo sento un passaggio di testimone.

Mi pare di cogliere in questa giovanissima scrittrice la consapevolezza di dover raccontare ai suoi coetanei ciò che è stato. Nel suo libro non c’è più l’urlo, la disperazione del sopravvissuto, ma la tristezza delle perdite, delle sofferenze che la guerra e la dittatura portano con sé e che si sommano alle sofferenze della condizione umana.

Consiglio a tutti i miei lettori e alle mie lettrici la lettura di questo libro, che ho letteralmente divorato.