lunedì 17 febbraio 2020

UN KILO DI VOGLIA DI VIVERE




E’ una donna minuta, vestita alla moda, con i pantaloni di velluto al polpaccio, capelli a caschetto rigorosamente bianchi. Mi dice di essere  molto distratta: quando inizia a raccontarmi la sua infanzia, intuisco come mai sia così distratta.
La pelle del viso tradisce la sua età, mentre il corpo è magro e morbido.
L’ho conosciuta anni fa, grazie alle attività culturali della Fondazione C. Molo.
Mi piaceva molto la sua amicizia con Teresa e la sua energia, la voglia di fare e di esserci.
Poi, per caso, un pomeriggio, su un pullman che ci portava all’Astelav, ad indagare il mondo del riciclo e del riuso,  ho scoperto che Claudia, questo è il suo nome, è una profuga istriana.
La sua storia te la devo raccontare.
Nacque il giorno successivo all’uccisione di suo padre, in licenza per raggiungere la moglie per il parto. Padre di altri quattro figli, aveva scelto dopo l’8 settembre del 1943 di essere repubblichino. Fu colpito a Fiume da un cecchino il 23.02.1944. Si chiamava Ugo Danielis.
Era nato a Trieste. Di lui non so altro. So invece che la mamma di Claudia, Ortensia, era di Veglia, oggi Kerk, fu scortata dai tedeschi per riconoscere il corpo del marito, mentre i suoi quattro figli erano a casa e in giro vi erano cecchini pronti a sparare, in particolare ai tedeschi e a chi era con loro.
Ortensia, detta Tea, partorì in ospedale e come per i precedenti parti ebbe un’emorragia post partum, per cui, al momento del bombardamento fu lasciata in corsia con Claudia, che pesava appena 1 kg, nonostante fosse nata a termine.
Quando le infermiere tornarono in corsia, trovarono mamma e figlia abbracciate sotto al letto, a causa dello spostamento di aria di una bomba.
Vive.
E questo è solo il secondo fatto eccezionale della vita di Claudia. Un inizio un po’ turbolento.
Racconta che all’età di 15 mesi non camminava, non riusciva a stare seduta, non aveva denti, non parlava. La mamma non avendo latte la nutriva con l’acqua del riso. Per fortuna fu visitata da un Professore che, dopo aver sgridato la madre per la denutrizione della figlia, di cui la donna ovviamente non aveva alcuna colpa, essendo vedova e con cinque figli, la salvò con una terapia a base di raggi infrarossi.
Tra i  parenti vi erano dei comunisti: il cognato, Mario Hervat, fu prigioniero a Dacau e successivamente all’isola Nuda, Goli Otok, dove soffrì terribilmente per le angherie dei titini nei suoi confronti, stalinista. Quando tornò a Fiume pesava trentatrè kg.
La madre quando si trattò di scegliere, scelse di partire per l’Italia.
La prima tappa fu Udine dove rimasero pochi giorni, da lì furono inviati nel 1948 a Laterina, in provincia di Arezzo. Ugo junior, Edda, Danilo, Nirvana, Claudia con Ortensia e i nonni.
 Claudia ricorda il filo spinato, le baracche e la fontana, la sabbia alla quale lei era allergica, per cui spesso e volentieri dovevano ricorrere alle cure ospedaliere ad Arezzo.
Laterina fu un campo di concentramento, poi un campo di prigionia ed infine un campo profughi: i profughi giuliano-dalmati.
Mentre mi racconta della baracca che ospitava anche sessanta persone tutte insieme, mi racconta della gioia quando tornavano i fratelli, che  studiarono in collegio, e andavano tutti a fare il bagno in Arno, oppure i giochi tra bambini, perché per i bimbi era anche bello stare tutti insieme, molto meno per gli adulti, che soffrirono molto quella condizione di povertà, di promiscuità, di incertezza.
Ciò che ricorda, nonostante fosse piccola, è che loro per i paesani erano i fascisti da cui stare attenti.
Nel 1952 il campo di Laterina fu chiuso e la famiglia fu spostata a Torino, alle Casermette. La mamma aveva trovato lavoro come colf e il fratello studiava e di notte spalava la neve per aiutare la famiglia.
Ricorda con riconoscenza sia i nonni materni che sono rimasti sempre con loro, sia la zia Sidonia, la sorella della mamma, che li aiutò per tutta la sua vita.
Restarono alle Casermette dal ‘52 al ‘56 e poi si trasferirono in Via Sansovino, dove erano state costruite le case per i profughi.
Da allora vive lì, con suo marito. Ha avuto due figli e ha lavorato in Provincia. Una vita normale, potremmo dire: il suo fisico è rimasto minuto, i suoi occhi esprimono molta vivacità e  la sua vita è molto ricca di interessi, di viaggi, di sport. Corre, viaggia e danza.
Claudia è la dimostrazione che nella vita ce la puoi fare, anche se vivi condizioni estreme, se rimani orfana, se tua madre non sa come dare da mangiare ai suoi figli e si affida alla bontà delle suore delle Missioni della Consolata o a chiunque possa darle qualcosa. Ricorda l’uva e le foglie di tabacco che venivano regalati dai contadini toscani.
Puoi crescere, studiare e vivere la tua vita con grinta e determinazione.
Un bellissimo esempio per tutti.
Negli anni ho incontrato diversi profughi istriani.  Nessuno di loro mi ha mai raccontato nulla ed io non ho mai chiesto nulla e oggi mi dispiace non aver nutrito interesse verso la loro vita e la loro sofferenza. Quel silenzio sulla tragedia degli italiani dell’Istria e della Dalmazia, che dovettero abbandonare le loro case, i loro cari, i loro beni se non accettavano di diventare slavi, per giungere in Italia e vivere da “profughi”, senza casa, senza beni, senza lavoro, alla mercè degli altri, quel silenzio era il silenzio di ciascuno di loro.
Il silenzio di chi non ha voluto raccontare e il mio che non ho saputo ascoltare.
La storia di quel periodo storico non si esaurisce nel ricordo del dramma delle foibe. La storia è di tutte le persone come Claudia che ancora vivono in Italia.
Una storia da conoscere.
Una storia da scrivere.



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