giovedì 8 febbraio 2018

LA MIA PROFESSORESSA DI LETTERE DELLE MEDIE

Sono seduta nel salone dove mia madre per anni si recò ad ascoltare le Professoresse delle sue tre figlie femmine, per le quali, d’accordo con mio padre, aveva deciso che studiassero qui, presso l’Istituto scolastico cattolico vicino a casa.
All’epoca l’istituto era frequentato solo ed esclusivamente da donne.
Donne le suore orsoline, ovviamente, donne le professoresse laiche, donne le allieve, donne le mamme che si recavano ad ascoltare con rispetto ed educazione le insegnanti.
Sono cresciuta in mezzo alle donne. Ho dieci cugine, rigorosamente donne. Ho avuto otto zie, tutte molto presenti nella mia vita. Unico uomo della mia infanzia è stato mio padre: un grande uomo.
Non ho avuto nonni e i tre zii acquisiti erano piuttosto assenti. Uno solo, un cugino di secondo grado mi è stato tanto vicino da sentirlo padre e amico.
Ho deciso di trascorrere qualche giorno a Roma e ho scelto di tornare dove ho studiato, dove ho calpestato per anni il pavimento, mentre i miei pensieri e la mia testa volavano oltre quei muri, oltre quel chiostro, oltre quella chiesa.
Ho ricevuto premi, medaglie di argento e di bronzo, mai di oro, ho ricevuto complimenti e rimproveri, ho visto film che non dimenticherò mai, ho ballato sognando di diventare una novella Carla Fracci, ho giocato a pallacanestro nel bel cortile contornato da pini mediterranei. Lo guardo ora quel campo da basket e penso a come eravamo diverse allora.
Nessun genitore aveva il tempo di assistere ad una partita intera di basket e nessuna sorella o fratello assisteva e tifava. La squadra era la nostra e noi giocavamo, senza tifo, per il piacere di giocare, con rispetto delle regole e con la soddisfazione di aver centrato il canestro. Era la squadra e l’allenatrice, ovviamente donna, a darci la giusta carica. Se avevamo un infortunio era considerato ovvio, visto che giocavamo a basket.
Peccato che per amore smisi troppo presto di giocare, ma questa è un’altra storia.
A scuola eravamo sole con la nostra realtà, i nostri successi ed insuccessi e nessuno della famiglia avrebbe mai superato quel confine, quel territorio nel quale dovevamo metterci alla prova, sperimentare ingiustizie, delusioni e temprarci per la vita.
Oggi i genitori, lo sappiamo bene, vogliono vivere momento per momento la vita dei figli, sostituirsi, discutere, commentare, avulsi dal contesto vogliono ricostruirlo, alla ricerca delle ingiustizie dalle quali proteggerli, senza farli crescere, anche nella delusione, soprattutto nella sconfitta.
Quello che poi ci veniva ripetuto tante volte era la parola BONTA’.
Negli anni successivi le parole indicanti concetti assoluti, quali la bontà, sono state eliminate dal nostro vocabolario,  si aveva paura a pronunciarle. Credo sia stato un errore, visti i risultati. Noi siamo stati una generazione che ha conosciuto i sensi di colpa e che ha cercato di evitarli ai propri figli. Eppure, se non si diventa paranoici, i sensi di colpa  possono essere utili, se non a noi, agli altri. Sono limiti, paletti. Lo so, scrivo cose scomode, fuori moda. Soffrire per aver commesso un atto che nuoce all’altro è un ottimo modo per non ripetere quell’atto, perché non si vuole soffrire. Non per paura di punizioni esterne, per paura della punizione che ci infliggiamo da soli perché comprendiamo il dolore dell’altro.
Si impara ad essere buoni, si può provare, non remissivi, ed essere gentili, altruisti è solo un merito per sé e un piacere per gli altri. Non si è degli sconfitti, dei perdenti o degli sfigati, come direbbero i ragazzi oggi: ad essere buoni, ovvero a perseguire il bene, c’è solo da guadagnare oggi, qui, sulla Terra, senza aspettare ricompense future.
Dante ha mostrato con chiarezza che ciò che siamo, saremo per sempre e ciò che abbiamo fatto, resta, indelebile, per sempre, inanellando una catena di conseguenze che ricadono sugli altri. Sempre.
A tal proposito consiglio un testo tra i tanti del filosofo Norberto Bobbio “Elogio della mitezza” . Riporto qui un passo: “Il mite può essere configurato come l’anticipatore di un mondo migliore” “Il mite non è remissivo e neanche bonario…la mitezza è una virtù.”

Immersa in queste riflessioni, ripensando all’educazione ricevuta in perfetto accordo tra la scuola e la famiglia, ricordandomi la patente di bontà che ci veniva data se facevamo dei fioretti, ovvero dei piccoli sacrifici, a cui venivamo abituate, aspetto la mia Professoressa di lettere delle medie.
Io avevo 11 anni, allora, quando mi insegnava a scrivere i temi, oggi sono anch’io una docente di lettere delle medie, anche se in pensione.
I soffitti del salone sono alti, le porte hanno i vetri smerigliati, le poltrone di pelle formano tre salottini per conversare, due tavoli, qualche quadro alla parete con soggetti sacri e profani, piante finte. Tutto sobrio, essenziale, ma accogliente.
Eccola: arriva con passo deciso, senza il velo, che allora le copriva i capelli e una parte del giovane viso. I capelli sono corti e luminosissimi.
Dopo la terza media non ci eravamo più potute incontrare, era stata trasferita a Milano.
Io però la cercai tante volte, dopo essermi sposata, trasferita a Torino, diventata madre a mia volta, di due splendide creature, quando finalmente qualche anno fa,  nei miei continui ritorni nella casa paterna la ritrovai. Era tornata da Milano.
Quella volta mi accompagnò a vedere la mia aula, l’ultima del corridoio, vicina al giardino. Si ricordava perfettamente della mia classe, era stata una delle prime volte che insegnava, forse la prima. Si ricordava bene anche di me, proprio di me, cosa che mi parve preziosa, visto che aveva insegnato per tantissimi anni, credo 40 a tante creature. Eppure di me non si era scordata.
Quante volte avrei voluto rivederla e parlarle: il suo sguardo di giovane insegnante, pieno di amore,  uno sguardo che si posava su di me e mi accarezzava, mi faceva sentire unica.
Uno sguardo di cui avevo fame.
Oggi lei è per me una presenza, in un mondo di assenti.


Abbiamo moltissime cose da dirci,  non smettiamo mai di parlare e di scambiarci consigli, lei mi consiglia un programma da usare per scrivere velocemente ed io le insegno come aprire un blog.
Superattiva e con le antenne, capace di cogliere al volo e di comprendere le difficoltà di chi ha dinanzi, specialmente se giovane.
Questo è il carisma del suo Ordine, l’educazione dei giovani e mi dispiace sapere che le scuole sono quasi tutte, compresa quella dove ho studiato io, prive del supporto delle suore, oramai tutte anziane e in meritata pensione.
 Lei mi racconta che  la pensione è stato il momento di appropriarsi del tempo e di usarlo per crescere spiritualmente, un tempo di grazia, di preghiera e di ricerca.
Mentre parliamo in questo angoletto di una stanza grande, dimentico la grandezza della stanza, la stanza stessa e mi rifugio nella sua accoglienza, che sento profonda, totale.
Questo tempo di grazia lei lo vive impegnandosi nell’USMI  e frequentando con umiltà di chi deve ancora imparare una scuola di preghiera. Guida la macchina e me lo racconta con una punta di orgoglio, esce la sera, insomma è una donna in piena attività e in ricerca, questa parola continua ad usarla, è la cifra del suo essere suora.
Rimasta orfana di padre all’età di cinque anni, ha avuto la fortuna di avere una mamma che le ha dato amore e le ha consentito di studiare.
In lei però, fin dalla giovinezza, vi era un profondo bisogno di infinito ed era perennemente alla ricerca di una risposta, quando un giorno, che ricorda perfettamente, camminando per Via Salaria ha capito che doveva scegliere. In quel momento ha scelto di diventare una suora. Ha camminato ancora e ha incontrato sua mamma che era uscita con una delle figlie. Ha  comunicato la sua decisione e lei le ha solo detto: “cosa ti serve?”
Descrive la mamma come una santa, una presenza luminosa nella sua vita. “Dopo Dio per me viene mia mamma, Lei ci ha insegnato a chiedere nella preghiera a Dio cosa fare della nostra vita. Io avevo tutto, affetto e posizione economica agiata, possibilità di studiare, frequentavo il primo anno di università quando sentì la chiamata alla vita religiosa”
Le difficoltà sono arrivate dopo la scelta, specialmente a causa dei numerosi trasferimenti e il doversi adattare a tante situazioni diverse. “ La vita di comunità non è sempre facile ed io ho girato quasi tutte le comunità della congregazione, sempre insegnando alle ragazze. Io avevo ricevuto così tanto amore che potevo restituirlo”.
Oggi dopo 58 anni di vita religiosa sono sempre entusiasta, perché io volevo qualcosa di grande, ma probabilmente oggi sceglierei un istituto secolare. Allora non avevo una visione completa della Chiesa, studiavo dalle Orsoline e trovai naturale scegliere questa strada”
Ci soffermiamo a ragionare sui cambiamenti della vita religiosa avvenuti negli ultimi anni: prima di ogni cosa la carenza di vocazioni religiose, poi la vita di comunità  cambiata in meglio, prima dovevi chiedere il permesso per ogni cosa alla Madre superiora, la famiglia la vedevi raramente, mentre oggi si è libere di decidere, se questo non compromette la vita della comunità. In altre parole questa libertà è positiva, se hai una struttura religiosa solida, se comprendi da sola quali limiti devi porre alla tua libertà.
L’obbedienza, uno dei cardini della vita religiosa, è obbedienza allo Spirito, prima di tutto.
Ci salutiamo dopo avere assistito ad un breve incontro con una giovane donna: di lei intuisce subito difficoltà e timori.

Con lei mi sento a casa.

2 commenti:

  1. Mia cara, che belle parole colme di affetto, stima e rispetto.
    Tu voli in alto e ci porti con te sulle tue preziose ali.
    Chissà quanti studenti si sono sentiti a casa con te. Io, nonostante non ti abbia avuto come insegnante, ogni volta che ti vedo assaporo una porzione di familiarità. E di felicità.
    Fabiana

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