Cara lettrice e caro lettore,
questo racconto è stato pubblicato nel volume Vanchiglia e Vanchiglietta stories edito da Graphot, dove potrete trovare molte storie dei due borghi torinesi. Questa è la mia storia.
C’è un luogo in questa città che non
è città
Mai, io non vivrò mai a Torino.
Così dissi l’anno della mia maturità, dopo aver letto Italo
Calvino. In un racconto, “La nuvola di smog”, l’autore descrive una città, di
cui non fa il nome, ma che si ritiene sia Torino, immersa nell’inquinamento,
nella polvere finissima. I davanzali tutti sporchi di grigio, li lavi e il
giorno dopo sono nuovamente ricoperti di polvere grigia. Tutto è grigio: in
casa, in ufficio, per le strade. La polvere entra ovunque e il protagonista si
lava continuamente le mani per liberarsi dal nero della polvere.
Mai, mi dissi, io non vivrò mai a Torino.
Ero molto sicura di me. Ero nata e studiavo nella capitale:
ero stata fortunata, chi mi poteva spostare da lì?
Mai dire mai nella vita.
Pochi anni dopo decisi di sposarmi e con la decisione di
cambiare stato civile era compreso anche un trasferimento geografico: dalla
capitale d’Italia alla città della Fiat.
Le mie amiche continuavano a sconsigliarmi il trasferimento,
ma io, sicura di me stessa, ero certa che avrei superato la proverbiale
riservatezza e austerità sabauda insieme all’aria grigia ed inquinata.
Purtroppo, i miei primi anni a Torino confermarono la
descrizione del famoso scrittore e i timori delle mie amiche. Abitavo proprio
ai confini con il quartiere Mirafiori: gli odori, i colori, i profili grigi
delle case sorte velocemente per ospitare operai, l’aria inequivocabilmente
inquinata, tutto ciò contribuì a non sentirmi a casa, ai confini della
Repubblica, ai piedi delle maestose Alpi, in questa città orgogliosa del suo
passato di capitale.
Ma Torino aveva in serbo una sorpresa per me: possedeva, anzi
possiede uno scrigno verde, in città, non in collina, proprio in città, a due chilometri
dal centro storico.
C’è un luogo in questa città dove un tempo potevi cercare un
traghettatore per raggiungere l’altro lato del fiume Po o guardare le lavandaie
lavare i panni.
C’è un luogo in città, che forse non è città, dove puoi
godere dei colori autunnali, delle foglie gialle a ventaglio del Ginkgo biloba
a quelle a cuore del tiglio, semplicemente passeggiando lungo le sponde dei
fiumi.
C’è un luogo in questa città dove puoi sederti e ammirare il
lento scorrere dell’acqua del fiume più lungo d’Italia, magari leggendo un buon
libro tra il cinguettìo degli uccellini.
C’è un luogo in questa città dove puoi guardare le folaghe
fare un nido, gli strassi giocare, i germani reali accoppiarsi, le nutrie
nuotare, il sole giocare con l’acqua.
C’è un luogo in questa città, che non è città, eppure alla
città è vicina, anzi ne fa parte: ci sono autobus e tram, negozi e centri di
aggregazione sociale, scuole e uffici, una libreria, chiese e persino un
ospedale.
Si chiama Vanchiglietta. Il mio borgo.
Lo scoprii per caso e da allora ci vivo. Sono trascorsi
trentaquattro anni e mi reputo super fortunata a vivere tra due fiumi, a poter
contemplare dalla finestra maestosi tigli, sentirne il profumo nella tarda
primavera e osservare lo scintillio del sole sulle acque del fiume più
importante di Italia. Fu allora che mi
innamorai di Torino.
È un luogo un po' appartato rispetto ai grandi corsi di
scorrimento che questa città offre ai suoi cittadini, che dal centro portano
fino alle valli montane.
È un luogo dove pensi di essere in campagna: certo l’aria è
proprio la stessa dei corsi di scorrimento, la città è sempre quella che svetta
in classifica per l’inquinamento, ma la vista degli alberi che la circondano da
ogni lato e da ogni casa, che sia vicina al Parco della Colletta che sia vicino
al Parco Naturale del Meisino, che affacci sul Lungo Po, che sia su Corso
Belgio o su Corso Casale o sul Lungo Dora. Da ogni parte ci sono alberi.
A Vanchiglietta sei abbracciato dagli alberi. Quelli che si
stanno vestendo per la primavera, ancora spogli ma già verdi, di un verde
pallido che ricorda i capelli dei bimbi biondi appena nati, una peluria che
promette folte chiome al vento. Quelli che sono in ritardo, che tardano a
vestirsi di verde. Quelli che sono già fioriti. Quelli che si allungano per
raggiungere il fiume, mollemente si adagiano con dolcezza andando verso
l'acqua.
Poi ci sono
quelli che non ci sono più.
Di loro rimane
a volte un segno, un cippo dove è cresciuta dell'erba, a volte solo un vuoto, a
volte il vuoto è lungo metri e metri e diventa desolazione.
Se ti siedi su
una panchina a guardare il Po, se sei vicino ad un albero noti come i suoi rami
siano braccia tese nell'aria per dare sostegno e riposo agli uccelli, vedi
correre uno scoiattolo lungo il tronco, vedi la vita che scorre e ne rimani
incantata, rapita.
Eppure sei in
città, non lontano da lì scorgi la Mole Antonelliana e le file di palazzi che
si susseguono per chilometri dentro la città. Se cammini sulla passerella
pedonale da un lato ammiri Superga e dall’altro i Cappuccini.
A Vanchiglietta
sei abbracciato dagli alberi.
Gli alberi
siamo noi.