Seydou è un giovane sedicenne senegalese che ama la musica,
frequenta la scuola ed è molto legato alla sua famiglia. Un bravo ragazzo. Ha un
cugino, Moussa, che insiste per voler partire per l’Europa dove prevede che
entrambi potranno diventare dei famosi musicisti e firmare autografi ai
bianchi.
Tranne questa frase in cui si citano i bianchi e implicitamente
un sentimento di riscatto verso i colonizzatori, nel film di Matteo Garrone ci
sono solo l’Africa e gli africani. Nel bene e nel male. L’Europa, la Francia,
sono miraggi.
Come ha detto lo stesso regista sul palco del Lido di Venezia
( 80° edizione della Mostra internazionale di arte cinematografica di Venezia)
al momento della consegna del meritatissimo premio, il Leone d’argento 2023,
questo film racconta la storia delle migrazioni dal punto di vista dei
migranti.
La lingua del film è il wolof, la lingua del Senegal. E un po’
di francese.
Seydou e Moussa progettano di scappare: le loro famiglie non
vogliono assolutamente che loro partano, è troppo pericoloso. Nei pomeriggi
dopo la scuola, grazie a dei lavoretti, risparmiano i soldi necessari per il
viaggio.
La Dakar dei mercati, della musica e dei balli, della
famiglia resta sullo sfondo, mentre questi due adolescenti viaggiano in autobus
ascoltando la musica e dormicchiando, come tutti i giovani in gita, alla volta
della prima tappa: il Mali.
Seydou aveva paura e ha paura, ma non vuole lasciare solo il
cugino e parte, con la spensieratezza propria dell’età.
La sua paura diventa presto coraggio: il coraggio di
affrontare il deserto, prima sulla jeep e poi a piedi. I mercanti di esseri
umani sono crudeli: corrono sulle dune del deserto per facilitare la caduta di
qualche passeggero, che non recuperano. Successivamente li fanno scendere e li
costringono a camminare a piedi per giorni, sotto il sole cocente, nel nulla,
dove chi è più debole muore per la fatica (memorabile e poetica l’immagine di
Seydou che abbraccia Madame morente e successivamente la sogna che si libra
nell’aria, libera e sorridente, tenendogli la mano).
Lui, il protagonista, sempre attento agli altri, sempre altruista,
soffre terribilmente, aiuta, soccorre.
Il viaggio, che sapevano essere lungo e costoso, ben presto
diventa un incubo, tra corrotti e approfittatori, fino ad arrivare alle
prigioni libiche, dove le torture fiaccano il giovane, salvato da un anziano
senegalese che lo protegge e consiglia.
Ritrovato il cugino, arrestato e successivamente ferito da un’arma
da fuoco, Seydou diventa un eroe, ma questa parte del film, deducibile dal
titolo, la lascio a te.
Sappi però che qui la lingua italiana diventa salvifica: Io
capitano!
L’attore è bravissimo, meritatissimo il premio ricevuto.
Guardare questo film proprio nei giorni in cui i tg e i
quotidiani titolano che a Lampedusa i barchini sono in fila per attraccare, che
l’isola è piena di migranti, 6000 ieri e oggi 7000, che Croce Rossa, Protezione
civile e non so chi altro sono intervenute in soccorso delle istituzioni dell’isola
allo stremo nello sforzo di accogliere chi arriva è un invito alla riflessione
per noi cittadini comuni.
Lampedusa però non ce la fa ad accoglierli. Questo è chiaro.
E’ un’isola piccola.
Mamadou, vero protagonista della storia reale, sullo stesso
palco, afferma che per fermare i mercanti di uomini serve una sola cosa: un visto,
un permesso per viaggiare.
Matteo Garrone, ancora una volta ci ha regalato un’opera
magistrale.
L’Italia è quella terra meravigliosa che tutti sognano e quando vedono si sentono salvi. Non
necessariamente per restarci: è la prima striscia di terra che questi esseri
umani scorgono all’orizzonte e che rappresenta la salvezza da chi li vorrebbe
morti. Morti per aver sognato e sperato in una vita diversa.
Chi di noi non ha un figlio, un nipote, un amico, un lontano
parente di oggi o di ieri che non è emigrato?
Nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo c’è
scritto all’art. 13 comma 1:
Ogni individuo ha
diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i confini di ogni Stato.
I diritti universali sono stati riconosciuti dopo che il
nazismo e la II Guerra Mondiale avevano istituzionalizzato il male nei Lager,
nei campi di prigionia, nella ricerca dell’arma micidiale e nel suo uso. Dall’orrore
è nata questa preziosa Dichiarazione.
Non dimentichiamocene, restiamo umani.
Possiamo permetterci di ospitare così tanti migranti?
Possiamo permettere di continuare a fingere di ignorare cosa
avviene tutti i giorni nei viaggi della disperazione?
In questo film non ci sono storie di profughi da calamità
naturali o da guerre o perseguitati politici: sappiamo però che ci sono e sono
tanti, sempre di più.
Non dimentichiamocene, restiamo umani: qualsiasi soluzione
deve tenere conto dei diritti fondamentali di ogni essere umano.
Consiglio vivamente la visione del film.
Temo di non farcela.
RispondiEliminaIl regista non si sofferma sulle sofferenze, sul dolore.
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