sabato 25 aprile 2020

IL MONDO IN UNA STANZA N. 5: 75 ANNI DI FORTUNA








25 aprile 2020: sono trascorsi settantacinque anni dalla Liberazione dell’Italia dall'occupazione nazi-fascista.
Questo festeggiamo tutti gli anni, tutti, indipendentemente dalle nostre simpatie politiche, noi italiani festeggiamo di esserci liberati da un regime totalitario, che ha scatenato la II Guerra Mondiale, che  aveva il progetto di sottomettere tutta l’Europa e di sterminare gli ebrei, gli zingari, gli omosessuali, i testimoni di Geova, i malati psichiatrici, i disabili e gli oppositori politici, ovviamente.
Festeggiamo la fine dei combattimenti, delle rappresaglie, dei bombardamenti, delle deportazioni, delle torture, del terrore vissuto da milioni di esseri umani nei campi di concentramento e di sterminio.
 Festeggiamo la fine della fame causata dalla guerra e della paura.
Molti, moltissimi non tornarono.
Da allora abbiamo chi studiato, chi vissuto la crescita sociale ed economica del nostro bel Paese: giorno dopo giorno i nostri padri hanno lavorato sodo per realizzare il sogno di una Repubblica fondata sul lavoro, nella quale i cittadini fossero uguali nei diritti e nei doveri, ai quali fossero garantiti i diritti fondamentali sanciti dalla nostra Costituzione, gioiello del pensiero dei nostri Padri costituenti.
La Repubblica italiana non è un sistema politico perfetto, lo sappiamo tutti.
Il problema non è tanto il sistema, quanto le persone, ma non è  questo che voglio raccontarti oggi.
Il confronto tra i due sistemi politici, il totalitarismo di destra e la Repubblica parlamentare, mette a nudo la differenza tra  l’orrore, l’indicibile e l’incompiuto, il perfettibile.
Il confronto ha le stesse caratteristiche se consideriamo come primo termine di paragone il totalitarismo di sinistra e tutti i totalitarismi, anche quelli a cui ancora non abbiamo dato un nome. Questa precisazione è necessaria per evitare incomprensioni con te lettore, nel caso tu non conoscessi il mio amore per la libertà, per la responsabilità individuale, per la dignità dell'uomo e dei suoi diritti inalienabili.
Quest’anno, settantacinque anni dopo, l’Italia si trova a festeggiare in un momento in cui il mondo intero piange migliaia e migliaia di vittime della pandemia di “esso” (ricorda: non lo voglio nominare) che ha stravolto la vita di 7,79 miliardi di esseri umani.
Quattro miliardi di noi sono confinati a casa, secondo i quotidiani nazionali, per contenere la pandemia.
Non ci saranno cortei, non ci saranno incontri, non ci saranno spettacoli teatrali, proiezioni di film, dibattiti, non ci saranno testimonianze.
Io porto il mio piccolo contributo ricordando un testimone degli orrori degli anni del nazismo: si tratta di una delle tante preziosissime testimonianze che ho avuto l'onore di ascoltare e di proporre ai miei alunni nei miei anni di insegnamento di storia.
A te che leggi abitualmente il mio blog si tratta di una figura cara, a cui ti sei abituato, che conosci, ma oggi aggiungerò qualche altro particolare, per definirla sempre più, per ricordarla.
Mi ha colpito in questi giorni il paragone che alcuni opinionisti hanno fatto tra il periodo della guerra e la attuale pandemia. Un paragone tra eventi completamente diversi, ma che hanno sicuramente in comune una frattura tra il prima e il dopo.
Ognuno di noi ricorda nella propria vita personale eventi che hanno segnato la propria esistenza in modo tale da marcarla per sempre, con un "prima" e un "dopo".
Questo accade per la nostra storia personale e questo accade per la Storia.
Per la la II G.M. e per la attuale pandemia si può sicuramente dire che nulla fu come prima del 1939 e nulla sarà come prima del gennaio del 2020.
Dalle ceneri della Guerra nacque un nuovo mondo: ricordo per tutti la Dichiarazione universale dei diritti umani.
Dalla fine della pandemia, speriamo nasca un mondo solidale e sostenibile. Siamo in molti a sperarlo e a volerlo.
Se i luoghi della Seconda Guerra Mondiale sono anche i rifugi antiaerei, i lager, le prigioni, le città rase al suolo, i rifugi in montagna, i luoghi della pandemia sono gli ospedali per i malati e per chi li cura, i cimiteri con le bare allineate e sole, le finestre e i balconi per chi resta a casa.
L'altro giorno sono uscita timorosa, con la mascherina e i guanti, per percorrere i miei 200 mt consentiti dal decreto del Presidente della Repubblica e andare a comprare il latte. In quei duecento metri ho visto una donna, seduta sul davanzale della sua finestra, al primo piano di uno stabile di sei piani, che si sporgeva in fuori per prendere l'ultimo raggio di sole. La foto del momento. Mi pento di non averla scattata, ma il rispetto per quella donna a me sconosciuta, affamata di aria e di sole, le sue gambe accavallate che la sbilanciavano verso la strada, mi ha portato a desistere. 
I balconi: la gente dal primo momento ha trovato nel balcone il luogo dove poter socializzare, cantando o parlando semplicemente con i vicini che prima della pandemia era degli sconosciuti di cui si ignorava persino il nome.
Il mio vicino di casa ha 94 anni e in questi giorni, per la prima volta, ha voglia di raccontarmi i giorni della guerra. Di quei giorni, in questi giorni, lui ricorda che era libero di uscire e di incontrare gli altri. L’anziano vicino di casa ripete che neanche durante la guerra visse tali limitazioni: durante i bombardamenti vi erano i rifugi, certo, la sera vi era il coprifuoco, certo, ma durante il giorno si usciva! lo ripete, incredulo di ciò che sta accadendo, incredulo di dover rimanere a casa, anche se fuori non piove, anche se lui sta bene, lui che non può portarsi il mondo in casa, non avendo un pc, uno smartphone, un ipad.
In questo insolito contesto, isolati, distanziati, diffidenti, insofferenti, preoccupati, sofferenti, spaventati, addolorati, prostrati, mi accingo a continuare a raccontare il senso del 25 aprile.
Torno a raccontarvi la storia di un giovane partigiano, a cui sono profondamente legata da un vincolo di testimonianza.
Italo, così si chiama un giovane sedicenne di Pinerolo, che nel 1944 era  staffetta partigiana. Nel gennaio del 1944,  fu arrestato, portato alle Nuove di Torino e dopo tre giorni rinchiuso in un vagone merci e trasportato nel campo di concentramento di Mauthausen, in Austria. E’ il 13.01.1944.
Trascorse nel lager diciotto mesi. Sopravvisse, tornò e dedicò buona parte della sua vita a catalogare tutti i trasporti (tutti le deportazioni avvenute in treno) da tutte le stazioni italiane verso i campi di concentramento nazisti.
Per ogni viaggio lui elencò la stazione di partenza e quella di arrivo, il giorno, il numero dei deportati, dei sopravvissuti e il nome, il nome di 40.000 matricole assegnate a donne, uomini e bambini.
Un lavoro meticoloso, lunghissimo, complesso,  una documentazione che lascia profondamente colpiti, arricchita dalla lettere dei deportati che raccontano, che cercano compagni di lager: Compagni di viaggio” di Italo Tibaldi.  In rete c’è il pdf che si può scaricare gratuitamente.
Dieci anni fa Italo fu mio ospite presso la scuola dove insegnavo: fu un dono la sua presenza tra noi.
Dieci anni fa festeggiammo insieme 65 anni dalla Liberazione: li definì “65 anni di fortuna”
Della vita di prima portava con sé tante cose: per esempio l’istinto di difendere il pezzo di pane con la sua mano a tavola con la mamma, per la paura di vederselo sottrarre, privandolo dell’unica fonte di sostentamento, paura vissuta per i lunghi 18 mesi di lager.
 Della vita di prima portava con sé il disagio profondo che viveva ogni volta che sentiva abbaiare i cani. I cani dei nazisti, pronti ad attaccarti ad un comando e a non lasciarti vivo.
 Della vita di prima portava con sé il disagio profondo quando era costretto a viaggiare in treno. Il treno per lui non fu più, come per moltissimi di noi, un mezzo di locomozione. Il treno è un'icona della deportazione.
Dalla vita di prima portava con sé il bisogno di ritrovarsi con i suoi "compagni di viaggio", come soleva chiamarli, come intitolò la sua ricerca.
Della vita di dopo ci disse che “lui era lì con noi per darci speranza e fiducia, che la vera umanità è la nostra, che non dobbiamo mai rinunciare a quello che possiamo dare agli altri, che noi siamo sempre con gli altri”.
Ecco, queste sue parole, in questi giorni tornano nella mia mente.
Perchè la storia e le testimonianze ci aiutano nel nostro cammino di vivi.
Quello che abbiamo capito tutti, spero, durante la pandemia è proprio il concetto di interdipendenza, tra noi esseri umani, tra la natura e noi. Siamo tutti collegati gli uni agli altri. Aggiungo anche il concetto di responsabilità individuale. Scegliere i propri comportamenti almeno per non nuocere.
Italo ci disse, “ non dobbiamo mai rinunciare a quello che possiamo dare agli altri”.
Ricordiamocelo non solo il 25.04, ricordiamocelo quando torneremo ad uscire,  a lavorare, a studiare.



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