domenica 25 febbraio 2024

GREEN BORDER

 Quattro anni fa, il 1 febbraio del 2020 in Italia fu dichiarato lo stato di emergenza sanitaria, a metà febbraio i primi casi in Italia e il nostro modo di percepirci al mondo cambiava radicalmente: un microscopico virus ci ricordava la nostra fragilità e impotenza. Aveva viaggiato dalla Cina, dove da mesi l’epidemia era scoppiata, all’Italia e via via nel mondo. Il Covid bloccò la vita di miliardi di esseri umani, falciandone tanti. Abbiamo vissuto una Pandemia, una tragedia che si ripete ogni cento anni, circa. 774.144.371 casi confermati nel mondo dall’Oms al 14.01.2024 (fonte GIMBE). 7.000.000 di morti nel mondo, ma sono i dati ufficiali. E’ molto probabile che siano molti di più.

Due anni fa, 24.02.2022, uno Stato geograficamente europeo invadeva un altro Stato geograficamente europeo, con i carri armati. I carri armati: quelli che osserviamo nei musei e ritenevamo sepolti dalla paura della guerra nucleare. Il nucleare che doveva essere un deterrente, anche se non si capisce come gli Stati che si sono dotati di armi atomiche abbiano potuto rifornirsi di così tante bombe nucleari, quando ne basta una sola a distruggere.

Abbiamo visto scavare le trincee come nella Prima Guerra Mondiale, più di cento anni dopo, le persone vivere nelle cantine, patire il freddo, la fame, la paura, abbiamo visto milioni di ucraini emigrare: due milioni sono stati ospitati in Polonia. Ricordati questo Stato: la Polonia, perché ne riparleremo tra poco. Abbiamo assistito, seduti nelle nostre case, a stragi, a distruzioni di villaggi e paesi, a bombardamenti di ospedali: la guerra in Ucraina non è finita e un’altra guerra atroce è sopraggiunta, in Palestina.

 Il nostro modo di percepirci è cambiato: l’Europa, la terra abitata da uomini che avevano compreso l’errore dei padri e  ne avevano fatto tesoro, moltiplicando le relazioni tra Stati, stringendo patti e lavorando insieme per una pace duratura, elaborando la Dichiarazione dei diritti umani, come la nostra Legge suprema, era sotto scacco.

Fragili e impotenti biologicamente, fragili e impotenti davanti ai carri armati di una potenza straniera in fila per entrare nella capitale ucraina.

Non dimentico le guerre balcaniche della fine degli anni 90 del 1900, ma gli storici le considerano guerre civili: mariti contro mogli, vicini contro gli altri vicini e via così, è stata un’altra orribile pagina della storia umana, che ha ridisegnato i confini degli Stati della penisola balcanica.

26 febbraio 2023: la strage di Cutro.  94 morti accertati, i corpi recuperati. Molti di nazionalità afgana.

Sto per scrivere del film. Ancora un momento.

Siamo  Europei, uniti dall’eredità dei nostri padri che hanno superato ostacoli e divisioni centenarie, giurato di non ricorrere più alle armi per risolvere i conflitti tra Stati, con il sogno di una Federazione Europea. In Europa i diritti umani si rispettano, molti uomini nati altrove vedono in noi la patria della libertà e della giustizia. Non deludiamoli. Non deludiamo noi stessi. In realtà questo non è vero  in tutta l’Europa, dipende da chi governa gli Stati, se si riconosce o no in questi valori sovrani. Ed ecco la nostra storia. Ci sono arrivata.

La storia che sto per raccontarti avviene al confine con la Polonia: inverno 2021. I protagonisti sono siriani e afghani.

Ingannare; Deportare; Abbandonare senza acqua, cibo, coperte

Picchiare; Spingere; Urlare in lingue sconosciute; Usare i cani

La Storia si ripete. Cambiano le date sul calendario, cambiano i protagonisti, magari lontani parenti di precedenti aguzzini, non cambiano i luoghi, perché non credo che esista un luogo sulla terra che non abbia ricevuto sangue e sudore di esseri umani innocenti e perseguitati.

Il film di cui scrivo, caro lettore e cara lettrice, si intitola “Green Border” della regista polacca Agnieszka Holland. Film presentato alla Mostra di Venezia e che ha ricevuto il premio speciale della Giuria.

Eppure nella sala cinematografica in pieno centro a Torino eravamo solo in tre a vederlo: In Italia è in sala da quindici giorni. Il bigliettaio mi ha detto che poche persone hanno visto questo film.

Nessun presentatore o presentatrice televisiva ha pensato di recensirlo?

Immagino di no, diversamente al cinema saremmo stati di più.

Cerco di fare ciò che posso: in rete potrai trovare altre recensioni, dal Sole XXIV ore alla rivista “Internazionale”, di cui ti inserisco il link.

Conto su di te per il passaparola: condividi. Ritengo che questo film vada visto. Certamente tutti o quasi tutti sappiamo dei respingimenti ai confini con l’Unione Europea, ma la regista settantacinquenne ha il merito di mostrare il sadico gioco sulla pelle dei migranti.

La storia racconta di una famiglia di siriani, un nonno, un uomo colto, che parla perfettamente l’inglese, suo figlio con la famiglia composta dalla moglie e tre figli, di cui uno  lattante. Partono dalla Siria martoriata, con un volo di linea di cui è previsto lo scalo in Bielorussia. Sono gli accordi tra Stati e loro li ritengono una gran fortuna: non sarebbero partiti per mare, troppo pericoloso. In questo modo contano di raggiungere la Polonia e in seguito un parente in Svezia, che gli ha organizzato il resto del viaggio. Sono molto sereni. Non sanno che il Presidente bielorusso vuole usare i migranti per destabilizzare l’Europa e che il governo polacco  ha ordinato alle guardie di frontiera di riportare in Bielorussia i migranti che si trovano nella foresta.

Con loro sale sul pulmino, già pagato dal parente in Svezia, una profuga afghana. Il loro viaggio comodo finisce al confine con la foresta di Bialowieza, l’unica foresta vergine rimasta in Europa, confine naturale tra la Polonia e la Bielorussia, che diventa dal 2021 il luogo dove i migranti sono respinti dall’uno e dall’altro, in un macabro gioco che vede le persone impaurite, spaesate, affamate, assetate, ferite, infreddolite, morire.

Le guardie di frontiera obbediscono perché sono convinte che questi esseri umani sofferenti e malati siano”proiettili” vaganti. Molto pericolosi.

Gli attivisti dei diritti umani, ai margini della legalità, si inoltrano notte tempo nella foresta per dare un poco di conforto con cibo e acqua, medicine e cure a chi incontrano.

Indicativa un’amica di Giulia, un’attivista, che rifiuta di aiutarla “perché deve mangiare”, “perché deve lavorare”. Aiutare è un reato, si tratta di “tratta di esseri umani”, abbandonarli o ucciderli no, non è reato. La Dichiarazione dei diritti umani è carta straccia in questo angolo di mondo.

Il film termina con un’inquadratura della famiglia, ridotta ai soli genitori con due figli, sfiniti, seduti per strada in Polonia con alle spalle un muro dove vi è disegnata la bandiera europea.

Da vedere e da far vedere.

All’uscita dal film ho temporeggiato prima di tornare a casa: il dolore era troppo grande. E ho aspettato giorni prima di scrivere questa recensione: sicuramente posso aver dimenticato dei particolari, ma le corse nella foresta, di notte, il bere l’acqua depositata sugli aghi di pino, gli sguardi impauriti dalle urla e dai cani rabbiosi che mordevano chi non correva abbastanza forte, le valigie e le persone buttate al di là del filo spinato, a costo di buttare anche il bimbo nel grembo di una donna gravida, no, questo non posso dimenticarlo e so che è successo, che non è finzione, che è tutta realtà. Anzi forse la realtà è peggiore.

La Polonia oggi ha un altro governo e spero che al confine con la Bielorussia il filo spinato, le guardie di frontiera e i cani rabbiosi siano solo un brutto ricordo.

Quanti sono i morti nel Mediterraneo e al confine terrestre con l’Europa?      

 

https://www.internazionale.it/notizie/annalisa-camilli/2024/02/08/green-border-frontiera-agnieszka-holland


                                         

 


 

 

 

 


martedì 9 gennaio 2024

FUMO SULLA CITTA' E PALAZZINA LAF

 










Per fortuna che esistono i librai indipendenti, quelli che leggono per sé e per te, cliente affezionata e a volte amica, quelli che quando gli esponi una curiosità ti indicano il libro per colmarla.

Io regalo molti libri: a Natale sicuramente, ma anche per i compleanni. Ai miei figli, ai miei nipoti, regalavo ai miei alunni, regalo ai miei amici.

Quindi a Natale mi sono recata più volte presso la “mia” libreria e parlando di Ilva e di Palazzina Laf mi è stato consigliato di leggere “Fumo sulla città”di Alessandro Leogrande.

Tu che leggi sai bene che se scopro un cammeo, devo comunicarlo anche a te.

Prima di ogni cosa ti presento Alessandro Leogrande, giornalista e scrittore, prematuramente scomparso. Lo faccio con le parole di C. Raimo, scrittore e giornalista, scritte su Internazionale del 25.11.2018:

“Nella notte tra il 25 novembre e il 26 novembre del 2017 è morto lo scrittore e giornalista Alessandro Leogrande. Il suo funerale è stato un momento impressionante: all’improvviso ci siamo resi conto di un’evidenza che era di fronte ai nostri occhi. Leogrande era il migliore tra gli intellettuali, i giornalisti e gli attivisti della sua generazione. Nicola Lagioia, scrittore e direttore del Salone internazionale del libro di Torino, mi disse: “Dobbiamo fare di tutto adesso per proseguire il lavoro che ha fatto, per provare a colmare quel vuoto”. Gli risposi che era materialmente impossibile.

Nessuno di noi avrebbe avuto né il tempo di formarsi sulle migliaia di testi di storia, sociologia, filosofia, letteratura che lui aveva letto, mentre noi ci eravamo persi nelle mode letterarie e politiche del momento. Né la capacità e la voglia d’intrecciare le centinaia di relazioni che Leogrande ha intrecciato per scrivere i suoi articoli, le sue inchieste, cercando e conoscendo le persone giuste, quelle che non avevamo avuto l’intelligenza di riconoscere come le voci più interessanti per capire il nostro tempo e i nostri luoghi, le ultime generazioni degli operai dell’Ilva, le famiglie delle vittime del caporalato, i sindacalisti di origine straniera, i maestri imprevedibili.

Ma non era solo questo. Leogrande non è stato soltanto il recettore e il traduttore della migliore cultura che l’Italia ha visto nascere: il meridionalismo di Gaetano Salvemini, il socialismo di Giuseppe Di Vittorio, il pacifismo di Danilo Dolci e Aldo Capitini. Goffredo Fofi, che gli ha fatto da fratello maggiore, fino ad ammettere il proprio di debito – la sua prefazione al libro postumo Dalle macerie è un colpo al cuore – è colui che di più sta portando quest’eredità dolorosa di cui avremmo voluto davvero fare a meno.”

 

“Il migliore degli intellettuali”: io onestamente non lo conoscevo e ora colmerò questa lacuna.

 

Il saggio “Fumo sulla città” racconta della bellezza della città di Taranto, per duemila anni arroccata su l’isola, bagnata e difesa da due mari, ricca per la bellezza del suo mare e per la pesca, poi per la costruzione di navi militari ed infine sede della più grande acciaieria d’Europa, l’Italsider oggi Ilva.

Ti consiglio di leggere questo saggio,  perché racconta le vicende politiche di Cito, sindaco e successivamente parlamentare italiano, condannato per diversi reati, che puoi trovare in rete, che di onorevole hanno ben poco: dal concorso esterno in associazione mafiosa a concussione, abuso d’ufficio, falso ideologico, corruzione, violenza privata. Non potendosi ricandidare, candida suo figlio per ben due volte come sindaco di Taranto.

Mentre leggevo trovavo surreale che si possa candidare un figlio per poter poi governare di fatto e che questo sia concesso.

Una storia che  parla di televisioni private locali usate come megafono per campagne elettorali volte solo a screditare e infangare gli avversari. Insomma la politica nazionale a cui ci siamo abituati nella Seconda Repubblica in anticipo di un paio di anni nella città di Taranto. Negli stessi anni l’Italsider produce tonnellate di acciaio, di fumi e fanghi inquinanti, la città si espande in quartieri operai troppo vicini alla fabbrica, molti si trasferiscono a Taranto in cerca del lavoro sicuro, i cittadini iniziano ad ammalarsi, a morire e nessuno ha in mente un progetto che coniughi il lavoro, la produzione con la salute umana e del territorio.

Leogrande ricorda che:

 a Duisburg, tra il 2000 e il 2003 sono state sostituite tutte le cokerie con batterie di nuova generazione. Le emissioni di benzopirene si sono abbattute e il costo della trasformazione è stato di soli 800 milioni di euro….. A Linz l’inquinamento è stato ridotto in venti anni. I modelli da seguire ci sono, ma in Italia sembrano un miraggio.[1]

I risultati dello studio “Sentieri” sulla mortalità e le malattie contratte dalla popolazione di Taranto e di Statte per l’esposizione all’inquinamento industriale nel periodo 2003-2009 sono impressionanti. Siamo nel 2024: cosa è stato fatto?

In questi giorni sui quotidiani si scrive dell’Ilva e del mancato accordo tra il governo e gli attuali proprietari ArcelorMittal. Siamo nel 2024 e a Taranto si continua a morire di cancro, gli operai continuano a lottare per un posto di lavoro, la città non offre alternative, salute e lavoro continuano a sembrare in opposizione e continua a mancare una politica industriale nazionale che bonifichi l’area, salvi la produzione e i lavoratori.

Sulla Stampa di oggi Marco Zatterin scrive:

“ per rendere possibile questo compito immane (un buon esecutivo) potrebbe far attendere qualche semestre le riforme istituzionali e anche il Ponte sullo Stretto”.

Sempre in questi giorni nelle sale cinematografiche italiane è proiettato il film Palazzina Laf. Michele Riondino, regista e attore, impersonifica un operaio addetto alle batterie, intossicato dai fumi, senza scrupoli morali, che viene usato dalla proprietà come spia all’interno della palazzina Laf dove erano isolate persone scomode, per lo più impiegati, che erano costrette a trascorrere otto ore senza fare nulla se non erano disposti ad accettare compiti e lavori dequalificanti rispetto al loro ruolo.

In altre parole spero che i riflettori accesi sull’Ilva portino ad una soluzione di un problema che risale ai tempi della proprietà Riva e che ancora non ha trovato delle soluzioni.



[1] Alessandro Leogrande, Fumo sulla città, 2013 Fondango ed. 2022 Feltrinelli p. 210

sabato 6 gennaio 2024

PERFECT DAYS

 

 


 

Eccomi a scrivere Buon Anno ai miei lettori e alle mie lettrici.

Ho letto libri e guardato film di cui vorrei scrivere, ma come prima recensione del 2024 scelgo di raccontarti lo sguardo sul mondo che sento universale, che auguro a tutti di avere o di scoprire. Komorebi. Leggi ancora perché lo spiego tra qualche riga.

Premetto che ammiro il regista Wim Wenders. “Il cielo sopra Berlino” e “Il Sale della terra” sono film indimenticabili per me.

La storia di “Perfect days” si svolge a Tokyo: premetto che non conosco la capitale del Giappone e i giapponesi se non per i reportage che ho letto. Io ho ammirato la calma che i giapponesi hanno dimostrato durante e dopo il tragico terremoto del 2011 con le conseguenze che tutti sappiamo e che riguardano l’umanità intera. Leggo dei loro turni di lavoro massacranti, della forza che hanno dimostrato dopo la tragedia della bomba atomica sulle loro isole, in altre parole ho di loro un’idea eroica.

Il protagonista non è un eroe, un samurai, un monaco.

L’ultimo film del regista tedesco, un maestro del cinema, è nato dopo aver visitato i nuovi bagni pubblici di Tokyo, realizzati da grandi architetti, su invito di Takuma Takasaki dopo i vari lockdown. 

E’ un film di sguardi.

Prima di ogni altro lo sguardo del protagonista sul mondo, Hirayama: uno sguardo poetico. In aperto contrasto con il lavoro che svolge, quello di pulire i bagni pubblici di Tokyo, lavoro che svolge con grande cura e professionalità, un lavoro umile e che lo costringe a guardare in basso, ecco che appena può alza lo sguardo e tutto lo incanta: la foglia, l’ombra ,l’albero, il bambino, il vecchio, il passante. E’ la vita che scorre che lo fa sorridere: coglie in tutto ciò che vede e che incontra la sacralità. Ed è pronto a cogliere con la sua macchina fotografica analogica la luce che filtra tra gli alberi, il contrasto tra le ombre e la luce.

In giapponese c’è una parola che rende tutto questo: Komorebi.

E’ un film di silenzi.

Lo spettatore segue la sua vita, la sua routine dal risveglio al riposo notturno. Le parole sono poche, essenziali, indispensabili. I dialoghi assenti, tranne pochi e significativi.

E’ un film di un non tempo: quello del suono musicale inciso su un nastro, di libri cartacei e lampadine flebili, di macchine fotografiche analogiche e stampe fotografiche, di telefoni fissi, di doccia nel bagno pubblico. Un mondo sparito, che i giovani non conoscono. In questa storia niente telefonini e display, tv o pc.

Non sappiamo nulla del protagonista, possiamo ipotizzare che avrebbe potuto avere una vita lussuosa e che abbia scelto la solitudine e la povertà come cifra dell’essenzialità.

Quando può, aiuta. Così aiuta il suo giovane collega, al quale presta i suoi già pochi soldi, così aiuta un uomo malato di cancro al quale regala un momento di gioco o  sua nipote, che accoglie ed ascolta.

La vita alla fine che cos’è? Una serie di rituali, di abitudini: alzarsi, lavarsi, bere un caffè, innaffiare le piante, andare a lavorare, mangiare, leggere, ascoltare la musica e dormire. Se in tutto questa continua ripetizione ognuno di noi sapesse scorgere la magia, la luce, se sapesse tendere la mano a chi incontra, la vita sarebbe perfetta.

L’attore protagonista, Yakusho Koji ha vinto la Palma d’oro come miglior protagonista e il film è candidato all’Oscar per il Giappone, pur essendo stato diretto da un regista tedesco.

La musica di sottofondo è “Perfect day” di Lou Reed, alternata a brani dei Rolling Stones e di Patty Smith.

Lo consiglio, anche se so che è un film lento e silenzioso. Proprio per questo. Durante il primo lockdown abbiamo appreso a rallentare e abbiamo detto che dopo saremmo stati migliori. No, il mondo ha ripreso a correre, gli  uomini a fronteggiarsi in conflitti antistorici, i capitalisti a sfruttare risorse, territori, uomini. Non siamo migliori e non abbiamo imparato nulla.

Allora evviva la lentezza, il silenzio, almeno per due ore. Che lo sguardo di

Yakusho Koji resti in te. Questo è il mio augurio. Buon 2024.

lunedì 11 dicembre 2023

C'è un luogo in questa città che non è città

 Cara lettrice e caro lettore, 

questo racconto è stato pubblicato nel volume Vanchiglia e Vanchiglietta stories edito da Graphot, dove potrete trovare molte storie dei due borghi torinesi. Questa è la mia storia.

 


C’è un luogo in questa città che non è città

Mai, io non vivrò mai a Torino.

Così dissi l’anno della mia maturità, dopo aver letto Italo Calvino. In un racconto, “La nuvola di smog”, l’autore descrive una città, di cui non fa il nome, ma che si ritiene sia Torino, immersa nell’inquinamento, nella polvere finissima. I davanzali tutti sporchi di grigio, li lavi e il giorno dopo sono nuovamente ricoperti di polvere grigia. Tutto è grigio: in casa, in ufficio, per le strade. La polvere entra ovunque e il protagonista si lava continuamente le mani per liberarsi dal nero della polvere.

Mai, mi dissi, io non vivrò mai a Torino.

Ero molto sicura di me. Ero nata e studiavo nella capitale: ero stata fortunata, chi mi poteva spostare da lì?

Mai dire mai nella vita.

Pochi anni dopo decisi di sposarmi e con la decisione di cambiare stato civile era compreso anche un trasferimento geografico: dalla capitale d’Italia alla città della Fiat.

Le mie amiche continuavano a sconsigliarmi il trasferimento, ma io, sicura di me stessa, ero certa che avrei superato la proverbiale riservatezza e austerità sabauda insieme all’aria grigia ed inquinata.

Purtroppo, i miei primi anni a Torino confermarono la descrizione del famoso scrittore e i timori delle mie amiche. Abitavo proprio ai confini con il quartiere Mirafiori: gli odori, i colori, i profili grigi delle case sorte velocemente per ospitare operai, l’aria inequivocabilmente inquinata, tutto ciò contribuì a non sentirmi a casa, ai confini della Repubblica, ai piedi delle maestose Alpi, in questa città orgogliosa del suo passato di capitale.

Ma Torino aveva in serbo una sorpresa per me: possedeva, anzi possiede uno scrigno verde, in città, non in collina, proprio in città, a due chilometri dal centro storico.

C’è un luogo in questa città dove un tempo potevi cercare un traghettatore per raggiungere l’altro lato del fiume Po o guardare le lavandaie lavare i panni.

C’è un luogo in città, che forse non è città, dove puoi godere dei colori autunnali, delle foglie gialle a ventaglio del Ginkgo biloba a quelle a cuore del tiglio, semplicemente passeggiando lungo le sponde dei fiumi.

C’è un luogo in questa città dove puoi sederti e ammirare il lento scorrere dell’acqua del fiume più lungo d’Italia, magari leggendo un buon libro tra il cinguettìo degli uccellini.

C’è un luogo in questa città dove puoi guardare le folaghe fare un nido, gli strassi giocare, i germani reali accoppiarsi, le nutrie nuotare, il sole giocare con l’acqua.

C’è un luogo in questa città, che non è città, eppure alla città è vicina, anzi ne fa parte: ci sono autobus e tram, negozi e centri di aggregazione sociale, scuole e uffici, una libreria, chiese e persino un ospedale.

Si chiama Vanchiglietta. Il mio borgo.

Lo scoprii per caso e da allora ci vivo. Sono trascorsi trentaquattro anni e mi reputo super fortunata a vivere tra due fiumi, a poter contemplare dalla finestra maestosi tigli, sentirne il profumo nella tarda primavera e osservare lo scintillio del sole sulle acque del fiume più importante di Italia.  Fu allora che mi innamorai di Torino.

È un luogo un po' appartato rispetto ai grandi corsi di scorrimento che questa città offre ai suoi cittadini, che dal centro portano fino alle valli montane.

È un luogo dove pensi di essere in campagna: certo l’aria è proprio la stessa dei corsi di scorrimento, la città è sempre quella che svetta in classifica per l’inquinamento, ma la vista degli alberi che la circondano da ogni lato e da ogni casa, che sia vicina al Parco della Colletta che sia vicino al Parco Naturale del Meisino, che affacci sul Lungo Po, che sia su Corso Belgio o su Corso Casale o sul Lungo Dora. Da ogni parte ci sono alberi.

A Vanchiglietta sei abbracciato dagli alberi. Quelli che si stanno vestendo per la primavera, ancora spogli ma già verdi, di un verde pallido che ricorda i capelli dei bimbi biondi appena nati, una peluria che promette folte chiome al vento. Quelli che sono in ritardo, che tardano a vestirsi di verde. Quelli che sono già fioriti. Quelli che si allungano per raggiungere il fiume, mollemente si adagiano con dolcezza andando verso l'acqua.

Poi ci sono quelli che non ci sono più. 

Di loro rimane a volte un segno, un cippo dove è cresciuta dell'erba, a volte solo un vuoto, a volte il vuoto è lungo metri e metri e diventa desolazione.

Se ti siedi su una panchina a guardare il Po, se sei vicino ad un albero noti come i suoi rami siano braccia tese nell'aria per dare sostegno e riposo agli uccelli, vedi correre uno scoiattolo lungo il tronco, vedi la vita che scorre e ne rimani incantata, rapita.

Eppure sei in città, non lontano da lì scorgi la Mole Antonelliana e le file di palazzi che si susseguono per chilometri dentro la città. Se cammini sulla passerella pedonale da un lato ammiri Superga e dall’altro i Cappuccini.

A Vanchiglietta sei abbracciato dagli alberi.

Gli alberi siamo noi.

 

                                                   



       

 

 

sabato 4 novembre 2023

C'E' ANCORA DOMANI

 



 

La storia di Delia, madre di tre figli e sposa di un uomo violento, Ivano, si svolge a Roma all’indomani della fine della Seconda Guerra Mondiale.

Gli abiti rammendati e scoloriti, la mancanza di cibo ancora razionato, le case umide e spoglie, i lavoretti per sopravvivere, l’esercito americano ancora presente nelle vie di Roma sono il contesto nel quale si svolge la vita della protagonista.

Delia lavora tutto il giorno fuori casa e in casa per poi essere regolarmente maltrattata e frequentemente picchiata da Ivano: è una storia di violenza domestica come purtroppo sappiamo che succede ed è successo a milioni di donne nel mondo di ieri e di oggi.

Lei accetta passivamente la sua condizione di donna che non conta nulla: accetta di essere pagata meno di un uomo, di essere picchiata, di non essere creduta dal marito, di dover stare zitta.

Lentamente però inizia a prendere consapevolezza del fatto che volendo potrebbe cambiare la sua vita: sono gli sguardi terrorizzati di sua figlia Marcella, quando sa che suo padre sta per picchiarla, le parole delle amiche e delle vicine di casa, ma soprattutto è l’amore per sua figlia, la paura che anche lei possa essere maltrattata, che la spinge a trovare il coraggio di cambiare. Infine il disprezzo che sente nelle parole della figlia che lei ha appena salvato dalla furia del padre: “Mamma ma non lo capisci che non conti nulla?”

L’occasione del cambiamento è una cartolina che le viene recapitata: fino all’ultimo lo spettatore ignora il suo contenuto.

Il finale è epico e non voglio rivelartelo, se non dicendoti lettore e lettrice del blog, che mi sono commossa pensando all’importanza storica di quell’evento, alla lunga attesa di milioni di donne che finalmente hanno iniziato a contare, a contarsi, a esserci.

In un mondo cinico, dove pochi credono di poter ancora cambiare le troppe ingiustizie dell’umanità, questo film è documento e speranza. Perché in effetti “c’è ancora domani”.

Un momento liberatorio.

Attrice protagonista e regista: una magistrale Paola Cortellesi che ha saputo raccontare le storie ascoltate dalle donne della sua famiglia, la nonna, le zie.

Un film da vedere, senza alcun dubbio.

 

martedì 24 ottobre 2023

Lettera dal carcere Rodolfo Morandi di Saluzzo

 In memoria di Pietro Tartamella, che organizzò corsi di scrittura per alcuni detenuti della Casa di reclusione R. Morandi di Saluzzo e per la stima che mi lega ad Annamaria, che continua a credere che esista una possibilità per tutti di cambiare e tesorizza il lavoro di anni svolto accanto a Pietro, condivido, con molto ritardo e mi scuso per questo, la lettera aperta alla cittadinanza che alcuni detenuti hanno scritto in occasione dell'8 settembre.

Alla cortese attenzione della cittadinanza,

alle testate giornalistiche, ai giornalisti, ai politici, alle radio, alle televisioni,

alle fanzine, ai social network, a coloro che hanno un profilo Facebook /Instagram/Twitter,

a tutti coloro che, in qualsivoglia maniera, hanno l'opportunità di diffondere una lettera che un gruppo di detenuti della Casa di Reclusione Rodolfo Morandi di Saluzzo, a partire dal 2018, 

ha deciso di scrivere ogni anno, a ridosso dell'8 Settembre.

Una lettera aperta alla cittadinanza

 

 

8 Settembre 2023

 

Da cinque anni ci siamo dati un appuntamento: scrivere a ridosso dell'otto settembre, giorno in cui si festeggia l'armistizio e  la  nascita della resistenza, una lettera alla cittadinanza, chiedendo alle associazioni Cascina Macondo e Liberi Dentro, che da anni ci supportano con i loro corsi di lettura- scrittura - letteratura e poesia, di diffonderla il più possibile. Per noi detenuti della C.R. Rodolfo Morandi è un modo per attraversare il ponte immaginario che in questi anni, attraverso la scrittura e la lettura, abbiamo costruito tra noi e il mondo esterno. La ricorrenza di questa giornata dovrebbe servire per farci riflettere e fare in modo che i sacrifici fatti dalla Resistenza e la forza della resilienza nata in quegli anni non siano stati vani. Tra queste mura ci siamo noi esseri umani pensanti che, per svariati motivi, stiamo espiando una pena che lo Stato ci ha inflitto. Abbiamo delle cose da dire e da ascoltare e confidiamo nell'attenzione di chi crede che questo dialogo possa avvenire. Speriamo simbolicamente che queste nostre parole possano portare qualcuno a riflettere seriamente e a trovare conclusioni costruttive.

In questi anni ci siamo occupati di tanti argomenti che abbiamo ritenuto essere motivo di riflessione, sempre attraversando situazioni di emergenza che purtroppo si ripetono.

Siamo passati dalla pandemia alla guerra in Ucraina. Guerra irrisolta e combattuta ogni giorno con bombardamenti estenuanti, con tante vittime e devastazioni che sembrano essere entrate nella routine quotidiana, come se ci fossimo ormai abituati a una situazione in cui la Nato e la Russia si scontrano in un terreno neutro che è l’Ucraina. E’il gioco del più forte, dove la diplomazia dimostra un fallimento e non riesce a mettere fine a questa mostruosità, dando per scontato che non ci riguarda perché lontana da noi. Eppure c’è un filo così sottile che ci separa da una guerra nucleare!

Non si vuole capire che tutto ciò potrebbe portare alla fine del genere umano.

Un altro argomento che quest’anno ci ha colto di sorpresa e ci sta a cuore è il cambiamento climatico; cambiamento che sta creando al pianeta gravi problemi, dovuti sicuramente all’azione dell’uomo: guerre, disboscamenti, rifiuti, mancanza di rispetto per la natura. Pochi gli accorgimenti presi nel corso del tempo per salvaguardare il pianeta. Se ne parla molto, ma le azioni messe in atto sono davvero insufficienti per risolvere i problemi dell'inquinamento, delle frane e delle inondazioni.

Cronache di alcuni mesi fa che dovrebbero indurre ad agire: l’Emilia-Romagna sommersa dalle piogge torrenziali. Non basta dare una mano per risolvere un problema locale. Occorre dare una mano a tutto il nostro Pianeta che mostra segni inequivocabili di squilibrio naturale. Bisogna agire affinché la sostenibilità ambientale sia un punto fermo nelle politiche future per un equilibrio tra il consumo delle risorse e la loro rigenerazione. La produzione inquinante deve essere smaltita con intelligenza, senza speculazioni, per il rispetto delle generazioni future. Difesa del suolo, tutela delle acque, tutela dell’aria, perché anche l’inquinamento atmosferico si ripercuote sull’uomo, sugli edifici, sul clima. Gestione ecocompatibile del territorio, questa è la strada da perseguire.

Questa lettera aperta vuole essere un urlo a tutti quelli che hanno in mano il timone della società, a tutti quelli che si riempiono la bocca con belle parole, alla ricerca del consenso elettorale, per dire che ora basta! Bisogna passare dalle parole ai fatti.

Ci auguriamo che il nostro punto di vista, anche se non preso in considerazione, possa essere un  piccolo seme che induca alla riflessione e possa far prendere coscienza ai cittadini che le soluzioni  si possono trovare, i giovani devono credere in questo cambiamento: ragazzi, il futuro del Pianeta   è nelle vostre mani.

 

Noi dei gruppi di lettura-scrittura-letteratura e poesia della C.R. Rodolfo Morandi di Saluzzo




La foto, tratta dal Festival della fotografia etica di Lodi, mostra con evidenza la tragedia degli incendi.

Mi sembra una foto adatta al contenuto della lettera aperta.


lunedì 23 ottobre 2023

Festival della fotografia etica di Lodi

                                                                 ...sono le azioni che contano. i nostri pensieri, per quanto buoni possano essere, sono perle false fintantoché non vengano trasformati in azioni. sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo. Mahatma Gandhi.

NO, i bambini no

E piange. Io le accarezzo il braccio, lei si gira e si allontana. Non la ritrovo più nelle stanze e davanti alle foto che raccontano storie.

Dieci spazi espositivi dislocati nel centro di Lodi dove immergersi in un affresco del mondo contemporaneo attraverso le foto di tanti fotografi.

Si tratta del Festival della fotografia etica. Non so perché abbiano deciso di usare l’aggettivo “etico”. Io avrei preferito “sociale”.

Dei dieci spazi ne ho visitati cinque e ti assicuro che ho ben presto iniziato a sentirmi svuotata.

Ogni foto è una storia: alcune le conosco altre no. Tutte insieme queste storie di sofferenza mi annientano.

Incrocio gli occhi di una giovane donna dietro di me: piange. Le tocco il braccio in segno di condivisione della sua sofferenza e lei dice: No, i bambini no.

Le foto in questione provengono da Mariupol, Ucraina. Una in particolare fece il giro del mondo in pochissime ore: una donna sdraiata su una barella con una mano sul pube insanguinato a cercare di trattenere il suo bambino, a cercare di salvarlo con un gesto materno. Intorno a lei e ai militari che la trasportano, distruzione, fumo e morte. Altri sanitari, di un altro ospedale provano a salvare il bimbo con un cesareo, ma il bimbo nasce morto e anche lei dopo poco muore.  Il fotografo si chiama Evgeniy Maloletka, vincitore del Concorso Internazionale del Festival della fotografia etica di Lodi con “The siege of Mariupol”. Io non ho fotografato né questa foto, né le altre, tutte intorno alla battaglia di Mariupol (24.02.2022-20.5.2022). Per i Russi l’ospedale era un covo di combattenti ucraini e non presidio medico. Nella città in quei giorni non c’era l’elettricità, non arrivavano i viveri e i corridoi umanitari erano chiusi.

Una fila di persone in silenzio sfila in coda rispettosamente davanti alle immagini di nonni abbracciati ai nipoti morenti, alle fosse comuni, alle città fantasma. I visi che ho accanto esprimono dolore. Io cammino silenziosamente e in raccoglimento.

Difficile non collegare questa situazione bellica ad un’altra che vede il mondo sospeso in questi giorni e milioni di persone soffrire indicibilmente.

Anche in questa nuova e vecchissima guerra dei bambini sono stati uccisi barbaramente.

Difficile non pensare che la guerra in Ucraina non è terminata, che di Mariupol ce ne sono state tante e che i focolai di guerra sono aumentati.

No, i bambini no.

Dovrebbe diventare un mantra da ripetere casa dopo casa, via dopo via, ufficio dopo ufficio, di piazza in piazza.

No, i bambini no.

La mostra si trova a Palazzo Barni e tutte le altre foto, gli altri progetti, per quanto interessanti, perdono ai miei occhi di interesse.

Lodi è inondata dal sole dalle persone che vagano, come noi, con la cartina in mano, da luogo a luogo. I ristoranti in Piazza della Vittoria sono al completo.

 


Nell’ex-Chiesa dell’Angelo mi ricreo a contemplare fotografie di maestri della fotografia naturalistica. Una boccata di ossigeno, “La Natura è il nostro rifugio”, così si intitola la mostra e così è, spesso.

 


La crisi climatica, come un colpo al cuore, viene mostrata in tutta la sua terribile realtà presso il Palazzo della Provincia, nel chiosco del Monastero di San Cristoforo.

Foto di incendi, di  inondazioni, di ghiacciai ridotti al nulla, di invasione di plastica si susseguono implacabilmente in un affresco della distruzione del nostro pianeta.

 


Ancora un luogo, la Banca Popolare di Lodi, per la mostra ufficiale World Press photo. In questi giorni è visitabile anche a Torino.

E qui, tra le centinaia di foto, ne scelgo una: una donna iraniana.




Non aggiungo altro sui contenuti delle storie che emergono dalle foto, che documentano, interrogano, scuotono. Ti invito ad andare a Lodi.

Due parole è doveroso aggiungerle sui fotografi:  fotografare durante i combattimenti o durante un incendio, immortalare una donna senza velo al tavolino di un bar in Iran tra altre completamente coperte dai loro veli neri, è estremamente rischioso per ogni fotografo. Rischiano di morire o di essere incarcerati. 

La fotografia è molto di più del semplice scattare foto: è uno stile di vita.

E' quello che senti, quello che vuoi esprimere, è la tua ideologia e la tua etica.

E' un linguaggio che ti permette di cavalcare l'onda della storia. 

Sebastiao Salgado

Chi di noi legge e ascolta le testimonianze sa ciò che è accaduto e ciò che sta accadendo, giorno dopo giorno.

Una domanda per me e per te lettore e lettrice: a cosa serve sapere?

Il festival della fotografia di Lodi sarà visitabile anche il prossimo weekend.