Il silenzio ha caratterizzato questi mesi estivi: dopo tanto tempo mi sono tuffata nelle relazioni familiari e amicali, accantonando il piacere della scrittura.
Ricomincio da una storia molto personale, lasciando in sospeso i grandi problemi che avvolgono le nostre vite.
Ricomincio da una foto, per me emblema della vita di ciascuno di noi, sempre in bilico tra la gioia e il dolore, tra la salute e la malattia, tra....
Ieri mia cugina mi ha confidato che ha sempre trovato delle
somiglianze tra me e Loretta Goggi.
Loretta Goggi era una bellissima donna e una bravissima
cantante e l’accostamento mi ha lusingato e tuffato nel lontanissimo 1981,
quando ero un’altra persona.
Vivevo a Torino dalla fine del 1978. Con mio marito, sempre
troppo impegnato con il lavoro per percepire il vuoto che sentivo intorno a me
da quando per lui, per il suo lavoro, non avevo esitato a chiedere il
trasferimento da Roma e Torino, ottenendolo subito con l’avvertimento a non
sognare di poter tornare, in caso di separazione, perché difficilmente avrei
ritrovato il mio lavoro a Roma.
Non avevo ancora compiuto ventitré anni.
Lo studio, che ha accompagnato tutta la mia vita lavorativa,
in quel periodo lo posponevo al lavoro, alla cura della casa e della relazione
matrimoniale. In altre parole riuscivo a presentarmi alla Sapienza per sostenere
gli esami al massimo un paio di volte l’anno: il mio libretto universitario si
riempiva di voti molto lentamente.
La mia strada, i miei sogni erano tutti riposti in quei testi
che studiavo nei momenti liberi, ma la mia indipendenza era prioritaria. Lo
stipendio. Non chiedere nulla a nessuno, anche se i miei genitori erano
disponibili a sostenermi negli studi, come avevano già dimostrato con le altre
figlie.
Mio padre non approvò le mie scelte: trasferirmi e sposarmi
prima della laurea equivaleva a non laurearmi più e per lui questo era
inconcepibile. Le sue figlie dovevano essere tutte laureate. Mancavo solo io
all’appello.
Non conversammo, non esaminammo il problema.
Com’era sua
consuetudine disse poche parole, lapidarie: “Non sono d’accordo”. “Da Roma, se proprio
decidi di partire, devi essere laureata”.
Lui, che non si era laureato in Economia e Commercio, negli
anni del fascismo, quando era sufficiente, mi raccontava, presentarsi agli
esami con la divisa di Tenente per essere promosso. Lui non accettò quel
sistema e non si laureò.
Io partii da diplomata, inseguendo i sogni, sicura di me,
dopo pochi mesi di fidanzamento. Avevo fretta. Mio padre, nei giorni precedenti
al mio matrimonio, soffrì di ulcera gastrica. Ero una bambina, non capivo nulla
del suo dolore e di ciò a cui io stavo andando incontro. Ero una bambina
maggiorenne e libera di scegliere.
Il desiderio di mio padre, che era sicuramente anche il
mio, mi accompagnò per anni, fino a
quando finalmente varcai la soglia della sala laurea di Palazzo Nuovo e
discussi la mia tesi di laurea.
Papà era morto undici giorni prima: io lo avevo visto per
ultima, nel letto di ospedale e avevo assistito alla sua morte. Papà morì
sapendo che finalmente anche la terza figlia aveva compiuto il suo progetto di
padre. La mattina, prima di partire per Roma, per raggiungerlo in ospedale, con
l’Intercity, otto ore di viaggio sulla bellissima linea tirrenica, perché il
Freccia Rossa era ancora un bel sogno, erano state pubblicate le date delle
discussioni delle tesi. Non esisteva ancora internet per noi studenti.
Torniamo però al 1981.
Nel 1981 al Festival di Sanremo Loretta Goggi arrivò seconda
con “Maledetta primavera”.
Pochi giorni dopo lessi su un fogliettino attaccato al
portone del palazzo di Via Torricelli, nella ricca Crocetta, dove vivevano i
miei suoceri, di un maestro di canto disponibile ad audizioni al fine di
preparare per concorsi canori. Chiesi un appuntamento. Mi presentai
all’audizione con “Maledetta primavera”. Ho riletto ora il testo e credo che
solo una frase risuonasse dentro di me, senza che io ne fossi consapevole: “che
fretta c’era?”
Già che fretta c’era a sposarmi a ventidue anni? Ad
abbandonare parenti e amici? E la mia amata città? E i miei colleghi di lavoro?
E la mia facoltà con Professori di fama internazionale? Ad addolorare così mio
padre, orfano di entrambi genitori per via della pandemia della Spagnola, padre
che a noi cercò di dare quelle sicurezze che lui non aveva mai avuto?
Credo che fossi bellina allora e soprattutto la mia perfetta
dizione, merito di mia mamma e la “c” toscaneggiante, rendeva la mia voce
piacevole.
Il maestro di canto approvò molto la mia performance e mi
propose di prepararmi addirittura per Sanremo. Lui sapeva come fare. Io però
avrei dovuto essergli grata.
Ero una bambina allora, incapace di difendermi, fosse
successo oggi, lo avrei distrutto con le parole e con una bella denuncia, ma
allora ero un pulcino indifeso, cresciuto tra la bambagia, sotto una campana di
vetro per diciannove anni, tra le Suore Orsoline e una mamma ansiosa.
Della vita non conoscevo nulla.
Credo che pagai persino la “lezione”, da ragazza beneducata,
mettendo i soldi nella bustina bianca, come mia mamma mi aveva insegnato,
perché i soldi sono sporchi sotto tutti i punti di vista. Non gli fui grata,
questo mi fu risparmiato quel giorno, ma non tornai mai più né da lui né da
altri maestri di canto. Avrei potuto cercare una maestra di canto, meno
pericolosa, ma il turbamento provato, il non averlo condiviso con nessuno,
perché mi vergognai, il lavoro, lo studio, i suoceri ammalati, il marito
assente, la famiglia lontana e non so cosa altro, mi fece archiviare del tutto
quel sogno, di salire su un palcoscenico, non dell’Ariston, mi sarei
accontentata di un teatro parrocchiale e cantare come avevo sempre fatto,
volteggiando per il salone pieno di luce della mia casa paterna.
Loretta Goggi e il suo “Che fretta c’era” l’ho compreso solo
ora.
Invecchiare ha tanti lati positivi: si mettono a posto i
pezzi del puzzle della vita.
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