Ovvero COLUI CHE SI ARRAMPICO’
SULL’ALBERO
Oggi ti presento un personaggio
così poliedrico e complesso, che spero di stupirti, meravigliarti,
incuriosirti.
Racconterò del giovane poeta
Pietro Tartamella, che si arrampicò su un albero a Torino, in Piazza Carlo Felice,
il 9.12.1973. La sua fu una protesta,
una delle tante che hanno segnato la sua vita.
Il narratore, lo scrittore,
l’insegnante di dizione e lettura ad alta voce, l’affabulatore, l’organizzatore
di momenti culturali che conobbi io tra la fine degli anni ‘90 del secolo
scorso e i primi sei anni del 2000, capelli lunghi bianchi, legati in una coda
di cavallo, voce profonda e andatura lenta, pipa in bocca, era un bambino di
quattro anni quando si traferì con la sua famiglia da Camporeale a Ventimiglia.
Nelle stradine e nelle piazzette
di Ventimiglia Alta, Piazza Rocchetta, Pietro sperimentò, visse, osservò e
comprese le ingiustizie e le vessazioni perpetrate da bande di ragazzini
violenti. Ben presto nacque in lui il profondo bisogno di giustizia, che, così
piccolo, interpretò come risposta violenta alla violenza. Non abbassò la testa,
non si nascose, non si ritirò, pagò il prezzo della sua ribellione con l’essere
rimandato a settembre in terza elementare. Preferì essere bocciato: non voleva
tornare in quella classe e con quei compagni.
I suoi genitori lavoravano tutto
il giorno e lui, con due fratelli dovette andare in collegio. Anche da lì
scappò.
A tredici anni era capobanda di GWR, che aveva lo scopo di difendere i
deboli. L’inizio della sua vita fu quindi rocambolesco, ma in quella Piazza, in
quelle stradine comprese le dinamiche sottese nei rapporti umani e decise da
quale parte stare. Scelse.
La sua storia da adolescente è
costellata da incontri importanti, che gli permisero di crescere e maturare.
Molti furono gli incontri: cito
il Prof. Sismondini, che fu da Pietro accompagnato a scuola ogni giorno. Era
cieco. Ed era il suo prof. di diritto. La scoperta della disabilità sensoriale
e le piacevoli conversazioni in treno aiutarono il nostro giovane ribelle a
concepire altri modi per ribellarsi alle ingiustizie, meno cruenti delle zuffe
e delle liti di strada.
Durante l’estate fu assistente
alle colonie e più tardi animatore negli ospizi, confrontandosi con due età della
vita molto particolari, entrambe connotate dalla fragilità e dalla dipendenza.
L’altro aspetto della personalità
del giovane Tartamella è il suo amore per la lettura: con fatica abbandona i
libri per svolgere lavori estivi necessari alla sopravvivenza della sua
famiglia numerosa e sempre in grandi difficoltà economiche.
Un profondo amore lo lega ai suoi
genitori, ai quali riconosce i tratti fondamentali del suo carattere: il
profondo senso della comunità e l’amore per l’ironia.
Festeggiati i suoi diciotto anni,
decise di partire per un viaggio in Europa in autostop. Qui incontrò Bruno
Veri, con cui condivise una lunga amicizia.
Diplomatosi Geometra, si
trasferisce a Torino dove inizia una carriera universitaria accompagnata
costantemente da lavori diversi e saltuari, carriera che cambia e alla fine
abbandona per la profonda convinzione che non è il “pezzo di carta” che rende
migliori le persone.
Fonda la rivista “La tenda”:
pubblica poesie e si occupa di letteratura. Scrive e vende le sue opere e
quelle dei poeti della “tenda” sulle spiagge della Romagna, sotto un sole infuocato,
fermandosi a parlare con decine e decine di persone. Fu per lui un periodo
affascinante e molto faticoso.
Dopo aver lavorato per la casa
editrice Universo per quattro anni, decide di aprire un’edicola.
Diventa giornalaio. Nel 1983
comprò l’edicola di Via Vanchiglia 25. In questo periodo, durato circa dieci
anni, pur lavorando quattordici ore al giorno, partecipò attivamente alla vita
del quartiere, assunse, lui Hey Hoka, ruoli istituzionali, diventò consigliere
comunale, sindacalista, scrisse gli “Sgabellari” (riflessioni, racconti, poesie
che ha diffuso lasciandoli sullo sgabello di legno fuori dall’edicola)e “Questo
mestiere di giornalaio” (saggio di politica sindacale) mise in pratica la non
violenza, frequentò corsi di teatro e di
mimo, di giornalismo, tornò in Sicilia, fondò l’associazione ARISC
(Associazione per la riappropriazione della sovranità dei cittadini) e si prese
un esaurimento nervoso che curò ascoltando la musica di Ravel tutti i giorni,
per cento volte al giorno, fumando la sua pipa.
Di tutta questa frenetica
attività, che ha reso Pietro l’affabulatore, poeta e scrittore che molti di noi
torinesi e non torinesi conoscono, mi urge raccontarti due momenti cruciali.
Il primo, non in ordine
cronologico, è la lettera aperta che Pietro scrisse ai rapitori del piccolo
Marco Fiora. Pietro conosceva quel bimbo che si recava da lui a comprare le
figurine e che a volte non aveva i soldi necessari per comprarle. Sentì che
doveva agire e lo fece scrivendo una lettera nella quale espose la sua idea di Stato:
lo Stato deve punire i delitti o creare le condizioni affinché quel delitto non
si compia? Cosa ha costretto quegli uomini a compiere un sequestro di un bambino innocente, che porterà per sempre le ferite di quella
esperienza? Li invita a liberare Marco,
per dimostrare di aver capito, “per dire senza parlare”: non tutti hanno la
capacità di usare le parole per difendersi e Pietro gli offre le sue.
Pietro per 40 giorni si bendò, ovvero fece lo
sciopero della vista: intervistato, il suo sciopero fece scalpore, fu invitato
da Costanzo, fu contattato dai rapitori. Marco fu liberato.
Il nostro giornalaio seppe
trasformare la sua lotta contro le ingiustizie, dalle botte tra i vicoli
all’uso sapiente della parola scritta usata per difendere e difendersi dai soprusi.
Il secondo momento che desidero
raccontarti è la sua lotta contro il Fisco, esattamente contro l’art. 74 del Dpr
597, che riteneva guadagno anche il costo del giornale. Scrisse una lettera al
Ministro Visentin e per centoventidue giorni fece lo sciopero della parola.
Muto. In negozio. A casa. Vinse la prima causa, ma fu nuovamente tartassato dal
fisco e continuò a lavorare in un’edicola svuotata di ogni arredamento, con i
giornali appesi con mollette a corde improvvisate. Fino allo sfratto
dell’abitazione dove abitava.
La sua vita e quella della sua
famiglia, Anna, insegnante elementare e le sue due figlie, cambia nuovamente.
Mentre ascoltavo Pietro al
telefono e mentre leggevo le sue note biografiche, mi immedesimavo nella moglie
Anna, che ha avuto accanto un combattente, un paladino dei deboli: non si sarà
annoiata sicuramente nella sua vita coniugale.
Da questo momento Pietro si
trasforma nell’ospite accogliente di Cascina Macondo, che sceglie, ristruttura
e fa vivere con sua moglie Anna.
Cascina Macondo è un luogo di
incontri, un luogo per coloro che amano leggere ad alta voce, condividere la
passione per la scrittura, per la ceramica, per la condivisione di momenti di
riflessione e di divertimento.
Tutto a Cascina Macondo invita il
viandante: le poesie appese agli alberi, il tepee nel cortile, le ceramiche
raku, gli sgabelli davanti al fuoco per ascoltare racconti, la voce di Pietro,
il calore e il sorriso di Anna.
Dal 1993, anno di fondazione
dell’associazione culturale Cascina
Macondo, mille altri progetti sono stati partoriti dalle menti di Anna e
Pietro: il fil rouge è sempre l’attenzione ai più deboli, disabili e carcerati
e il piacere della letteratura e della creatività.
Molte altre attività ho
dimenticato di raccontarti, dall’amore per il circo e per il teatro di strada,
al concorso internazionale dell’Haiku, ai viaggi e all’amore per la scrittura
ortoépica, ma a questo punto, se non conosci Cascina Macondo, se non conosci
Pietro e Anna, il mio consiglio è di cercare su google il loro sito e andare a
trovarli.
Non ti stancherai di ascoltarli e
di seguirli nel loro modo di rendere il mondo migliore.
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