Sono seduta nel salone dove mia madre per anni si recò ad
ascoltare le Professoresse delle sue tre figlie femmine, per le quali,
d’accordo con mio padre, aveva deciso che studiassero qui, presso l’Istituto
scolastico cattolico vicino a casa.
All’epoca l’istituto era frequentato solo ed esclusivamente
da donne.
Donne le suore orsoline, ovviamente, donne le professoresse
laiche, donne le allieve, donne le mamme che si recavano ad ascoltare con
rispetto ed educazione le insegnanti.
Sono cresciuta in mezzo alle donne. Ho dieci cugine, rigorosamente
donne. Ho avuto otto zie, tutte molto presenti nella mia vita. Unico uomo della
mia infanzia è stato mio padre: un grande uomo.
Non ho avuto nonni e i tre zii acquisiti erano piuttosto
assenti. Uno solo, un cugino di secondo grado mi è stato tanto vicino da
sentirlo padre e amico.
Ho deciso di trascorrere qualche giorno a Roma e ho scelto di
tornare dove ho studiato, dove ho calpestato per anni il pavimento, mentre i
miei pensieri e la mia testa volavano oltre quei muri, oltre quel chiostro,
oltre quella chiesa.
Ho ricevuto premi, medaglie di argento e di bronzo, mai di
oro, ho ricevuto complimenti e rimproveri, ho visto film che non dimenticherò
mai, ho ballato sognando di diventare una novella Carla Fracci, ho giocato a
pallacanestro nel bel cortile contornato da pini mediterranei. Lo guardo ora
quel campo da basket e penso a come eravamo diverse allora.
Nessun genitore aveva il tempo di assistere ad una partita
intera di basket e nessuna sorella o fratello assisteva e tifava. La squadra
era la nostra e noi giocavamo, senza tifo, per il piacere di giocare, con
rispetto delle regole e con la soddisfazione di aver centrato il canestro. Era
la squadra e l’allenatrice, ovviamente donna, a darci la giusta carica. Se
avevamo un infortunio era considerato ovvio, visto che giocavamo a basket.
Peccato che per amore smisi troppo presto di giocare, ma
questa è un’altra storia.
A scuola eravamo sole con la nostra realtà, i nostri successi
ed insuccessi e nessuno della famiglia avrebbe mai superato quel confine, quel
territorio nel quale dovevamo metterci alla prova, sperimentare ingiustizie,
delusioni e temprarci per la vita.
Oggi i genitori, lo sappiamo bene, vogliono vivere momento
per momento la vita dei figli, sostituirsi, discutere, commentare, avulsi dal
contesto vogliono ricostruirlo, alla ricerca delle ingiustizie dalle quali
proteggerli, senza farli crescere, anche nella delusione, soprattutto nella
sconfitta.
Quello che poi ci veniva ripetuto tante volte era la parola
BONTA’.
Negli anni successivi le parole indicanti concetti assoluti,
quali la bontà, sono state eliminate dal nostro vocabolario, si aveva paura a pronunciarle. Credo sia stato
un errore, visti i risultati. Noi siamo stati una generazione che ha conosciuto
i sensi di colpa e che ha cercato di evitarli ai propri figli. Eppure, se non
si diventa paranoici, i sensi di colpa
possono essere utili, se non a noi, agli altri. Sono limiti, paletti. Lo
so, scrivo cose scomode, fuori moda. Soffrire per aver commesso un atto che
nuoce all’altro è un ottimo modo per non ripetere quell’atto, perché non si
vuole soffrire. Non per paura di punizioni esterne, per paura della punizione
che ci infliggiamo da soli perché comprendiamo il dolore dell’altro.
Si impara ad essere buoni, si può provare, non remissivi, ed
essere gentili, altruisti è solo un merito per sé e un piacere per gli altri.
Non si è degli sconfitti, dei perdenti o degli sfigati, come direbbero i
ragazzi oggi: ad essere buoni, ovvero a perseguire il bene, c’è solo da
guadagnare oggi, qui, sulla Terra, senza aspettare ricompense future.
Dante ha mostrato con chiarezza che ciò che siamo, saremo per
sempre e ciò che abbiamo fatto, resta, indelebile, per sempre, inanellando una
catena di conseguenze che ricadono sugli altri. Sempre.
A tal proposito consiglio un testo tra i tanti del filosofo
Norberto Bobbio “Elogio della mitezza” . Riporto qui un passo: “Il mite può essere configurato come l’anticipatore
di un mondo migliore” “Il mite non è remissivo e neanche bonario…la mitezza è
una virtù.”
Immersa in queste riflessioni, ripensando all’educazione
ricevuta in perfetto accordo tra la scuola e la famiglia, ricordandomi la
patente di bontà che ci veniva data se facevamo dei fioretti, ovvero dei
piccoli sacrifici, a cui venivamo abituate, aspetto la mia Professoressa di lettere
delle medie.
Io avevo 11 anni, allora, quando mi insegnava a scrivere i
temi, oggi sono anch’io una docente di lettere delle medie, anche se in
pensione.
I soffitti del salone sono alti, le porte hanno i vetri
smerigliati, le poltrone di pelle formano tre salottini per conversare, due
tavoli, qualche quadro alla parete con soggetti sacri e profani, piante finte.
Tutto sobrio, essenziale, ma accogliente.
Eccola: arriva con passo deciso, senza il velo, che allora le
copriva i capelli e una parte del giovane viso. I capelli sono corti e
luminosissimi.
Dopo la terza media non ci eravamo più potute incontrare, era
stata trasferita a Milano.
Io però la cercai tante volte, dopo essermi sposata,
trasferita a Torino, diventata madre a mia volta, di due splendide creature,
quando finalmente qualche anno fa, nei
miei continui ritorni nella casa paterna la ritrovai. Era tornata da Milano.
Quella volta mi accompagnò a vedere la mia aula,
l’ultima del corridoio, vicina al giardino. Si ricordava perfettamente della
mia classe, era stata una delle prime volte che insegnava, forse la prima. Si
ricordava bene anche di me, proprio di me, cosa che mi parve preziosa, visto
che aveva insegnato per tantissimi anni, credo 40 a tante creature. Eppure di
me non si era scordata.
Quante volte avrei voluto rivederla e parlarle: il suo
sguardo di giovane insegnante, pieno di amore,
uno sguardo che si posava su di me e mi accarezzava, mi faceva sentire
unica.
Uno sguardo di cui avevo fame.
Oggi lei è per me una presenza, in un mondo di
assenti.
Abbiamo moltissime cose da dirci, non smettiamo mai di parlare e di scambiarci
consigli, lei mi consiglia un programma da usare per scrivere velocemente ed io
le insegno come aprire un blog.
Superattiva e con le antenne, capace di cogliere al volo e di
comprendere le difficoltà di chi ha dinanzi, specialmente se giovane.
Questo è il carisma del suo Ordine, l’educazione dei giovani
e mi dispiace sapere che le scuole sono quasi tutte, compresa quella dove ho studiato
io, prive del supporto delle suore, oramai tutte anziane e in meritata
pensione.
Lei mi racconta che la pensione è stato il momento di appropriarsi
del tempo e di usarlo per crescere spiritualmente, un tempo di grazia, di
preghiera e di ricerca.
Mentre parliamo in questo angoletto di una stanza grande,
dimentico la grandezza della stanza, la stanza stessa e mi rifugio nella sua
accoglienza, che sento profonda, totale.
Questo tempo di grazia lei lo vive impegnandosi nell’USMI e frequentando con umiltà di chi deve ancora
imparare una scuola di preghiera. Guida la macchina e me lo racconta con una
punta di orgoglio, esce la sera, insomma è una donna in piena attività e in
ricerca, questa parola continua ad usarla, è la cifra del suo essere suora.
Rimasta orfana di padre all’età di cinque anni, ha avuto la
fortuna di avere una mamma che le ha dato amore e le ha consentito di studiare.
In lei però, fin dalla giovinezza, vi era un profondo bisogno
di infinito ed era perennemente alla ricerca di una risposta, quando un giorno,
che ricorda perfettamente, camminando per Via Salaria ha capito che doveva
scegliere. In quel momento ha scelto di diventare una suora. Ha camminato
ancora e ha incontrato sua mamma che era uscita con una delle figlie. Ha comunicato la sua decisione e lei le ha solo
detto: “cosa ti serve?”
Descrive la mamma come una santa, una presenza luminosa nella
sua vita. “Dopo Dio per me viene mia
mamma, Lei ci ha insegnato a chiedere nella preghiera a Dio cosa fare della
nostra vita. Io avevo tutto, affetto e posizione economica agiata, possibilità
di studiare, frequentavo il primo anno di università quando sentì la chiamata
alla vita religiosa”
Le difficoltà sono arrivate dopo la scelta, specialmente a
causa dei numerosi trasferimenti e il doversi adattare a tante situazioni
diverse. “ La vita di comunità non è
sempre facile ed io ho girato quasi tutte le comunità della congregazione,
sempre insegnando alle ragazze. Io avevo ricevuto così tanto amore che potevo
restituirlo”.
“Oggi dopo 58 anni di
vita religiosa sono sempre entusiasta, perché io volevo qualcosa di grande, ma
probabilmente oggi sceglierei un istituto secolare. Allora non avevo una
visione completa della Chiesa, studiavo dalle Orsoline e trovai naturale
scegliere questa strada”
Ci soffermiamo a ragionare sui cambiamenti della vita
religiosa avvenuti negli ultimi anni: prima di ogni cosa la carenza di
vocazioni religiose, poi la vita di comunità cambiata in meglio, prima dovevi chiedere il
permesso per ogni cosa alla Madre superiora, la famiglia la vedevi raramente,
mentre oggi si è libere di decidere, se questo non compromette la vita della
comunità. In altre parole questa libertà è positiva, se hai una struttura
religiosa solida, se comprendi da sola quali limiti devi porre alla tua
libertà.
L’obbedienza, uno dei cardini della vita religiosa, è
obbedienza allo Spirito, prima di tutto.
Ci salutiamo dopo avere assistito ad un breve incontro con
una giovane donna: di lei intuisce subito difficoltà e timori.
Con lei mi sento a casa.
Mia cara, che belle parole colme di affetto, stima e rispetto.
RispondiEliminaTu voli in alto e ci porti con te sulle tue preziose ali.
Chissà quanti studenti si sono sentiti a casa con te. Io, nonostante non ti abbia avuto come insegnante, ogni volta che ti vedo assaporo una porzione di familiarità. E di felicità.
Fabiana
Grazie Fabiana
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