30 ° Salone
internazionale del Libro di Torino
E’ anche una
questione di identità.
Il Salone
sta registrando un grande successo di pubblico e, leggo sulla Stampa di oggi,
20 maggio 2017, che c’è tempesta sul presidente dell’Aie per come ha organizzato
il famoso salone di Milano, al suo primo anno di vita, Tempo di libri.
Io non sono
nata a Torino e non è qui che ho studiato negli anni fondamentali della
formazione, ma sono italiana e so che Torino nel secolo scorso non era solo la capitale dell’auto ma anche la
sede della casa editrice Einaudi, ovvero la casa editrice di Italo Calvino, di
Natalia Ginzburg, di Cesare Pavese, per citare solo alcuni nomi eccelsi della
nostra letteratura.
Certo, il
mercato, l’economia ama uccidere la storia, le radici, le identità: gli
interessi di pochi spazzano via le vite altrui, si sa.
In questo
caso stiamo parlando di libri, di ciò
che essi racchiudono nelle righe, nelle pagine di carta ovvero tutto ciò che
noi esseri umani siamo, abbiamo capito e non abbiamo capito e non è proprio
possibile che un tesoro totale e totalizzante, prezioso al punto che molti
lettori faticano a disfarsi del proprio libro, dei proprio libri, al punto che
nelle case, in alcune case, la libreria ha il posto d’onore nelle stanze, ecco,
scrivevo che non è proprio possibile credere che dopo ventinove anni ad
aspettare il salone del Libro di Torino, i grandi editori decidano di cambiare
sede.
Per me
quindi il successo che si sta registrando a Torino in questi giorni è anche il
frutto di un moto di dignità che ha avuto la città, i suoi abitanti, i lettori,
i librai indipendenti, gli editori non allineati, che hanno scelto con coraggio
di scommettere su questa bella e orgogliosa città, di metterci anima e cuore,
quel cuore che manca a tutti coloro che ragionano solo con i numeri.
Però i
numeri in questo caso sono a favore di Torino.
Leggo sempre
sull’articolo di Mario Baudino che Alberto Gaffi riferisce che quando l’Aie
decise di organizzare a Rho, Torino “sembrava morta”.
Come
cittadina di Torino sono molto stupita da questa affermazione.
Torino è una
città estremamente vitale dal punto di vista culturale, ogni giorno la città,
dal centro alla periferia è un moltiplicarsi di eventi e gira la testa a
leggerli ed è un dolore non poter essere ovunque.
La vocazione
culturale di Torino è nata negli anni 80, in seguito alla crisi della Fiat, è
stata voluta dall’ex sindaco Castellani e dai sindaci Chiamparino e Fassino,
insieme ai loro assessori alla cultura, Alfieri prima e Braccialarghe dopo.
Il Salone
del Libro nel 1987 e poi il Circolo dei Lettori nel 2006, per citare solo due
realtà che sono due fiori all’occhiello, ma come non ricordare il TFF e la
Biennale della democrazia, Torino Spiritualità: intorno alle idee e alle
immagini, ci sono i libri, che le racchiudono e ne fanno tesoro.
Per me
quindi il Salone Internazionale del Libro è Torino per una questione di
identità che inizia nel 900 e si radica nel 2000 per vocazione.
Qualcuno ha
mai pensato che le migliaia di operai di ieri, oggi sono operatori della
cultura? Quanti sono i lavori, le attività che ruotano intorno alla cultura di
massa? Qualcuno sa il tasso di disoccupazione a Torino?
Sradicare un
Salone del libro è anche questo.
Milano ha un’altra
storia, era ed è la città industriale di Italia, era ed è la capitale
finanziaria di Italia, quella dove forse si trova ancora lavoro e tutto ciò è
riconosciuto da tutti.
E’ errato
concentrare tutte le attività in una sola città.
Leggo ancora
l’ipotesi di alternare due saloni al Lingotto e uno a Rho: potrebbero titolare
alla ricerca del compromesso. Non mi piacciono tanto i compromessi. Certo è
doloroso ammettere di aver sbagliato, ma ogni tanto succede e riconoscerlo è
segno di onesta intellettuale. Invito a farlo.
Potrebbe
essere, ammettere l’errore, un esempio per questa classe dirigente italiana che
non è mai capace di dire: “Ho sbagliato” provo a correggere, a riparare il
danno fatto ai cittadini .
Il Salone
del Libro è sempre stato un miscuglio di incontri con la letteratura alta, i
grandi scrittori e i critici letterari, nelle Sale che accolgono persone in
coda per ore, pur di ascoltare i loro autori preferiti e gli stand, dove
curiosare e scoprire realtà editoriali sconosciute o poco conosciute.
Ieri sono
stata a visitare la 30° edizione e ho trovato qualcosa di nuovo, qualcosa di
più. Complimenti a tutti coloro che hanno reso possibile questa rinascita.
Condivido in generale l'articolo, però devo fortemente rettificare degli errori storici che attribuiscono onori immeritati e dimenticano chi invece li merita.
RispondiEliminaL'epoca d'oro della politica culturale torinese è nata alla fine degli anni Settanta. Giorgio Balmas, musicista, fondatore dell'Unione Musicale, e assessore alla cultura del Comune di Torino tra il 1975 e il 1985, durante la giunta Novelli, ideò e diede vita ai Punti Verdi nel 1976; per alcune stagioni estive confluirono a Torino i maggiori artisti in campo teatrale, musicale, della danza. Grazie al prezzo politico del biglietto la cultura "alta" potè coinvolgere strati della popolazione che mai vi si erano avvicinati, come testimoniavano le lunghe code ai botteghini nei parchi della città. Ho ancora negli occhi la bellezza di alcuni spettacoli. Nel 1978 Balmas fece nascere Settembre Musica. Tra l'altro, il suo fu il primo assessorato con delega specifica alla Cultura.
Castellani, Chiamparino e Fassino sono venuti dopo, negli anni Novanta, e non mi pare si possa dire che la cultura fosse in cima alla loro agenda politica. Altri tempi e altre risorse, certo, ma anche tutt'altro respiro sulle politiche cittadine.
Io mi sono trasferita a Torino da Roma alla fine del 1978. Ricordo i punti verdi e ricordo la nascita di Settembre musica, ma, la città mi appariva molto grigia, molto allineata sulla cultura industriale, appiattita sulla Fiat che regnava incontrastata. Solo successivamente ho colto il fervore, le iniziative, anche se man mano le risorse sono dimimuite, è vero.
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