Questa volta lettore, lettrice, ti racconto una storia
contenuta in un libro, dirai tu, la solita recensione, no, non è la solita
recensione perché dovrò trattenermi per non parlare anche di me.
La incontro nella Sala Olimpica del Padiglione I del Salone
del Libro di Torino.
È lunedì pomeriggio: in alcuni stand si stanno già preparando
alla chiusura di questo straordinario momento culturale della città. Si respira
l’aria della festa che sta per finire. Mi piace molto lo stand dell’Aboca con i
suoi alberi e i semi.
È sempre stato un momento eccitante: scrittori e scrittrici
di fama mondiale si sono susseguiti negli anni, accanto a uomini e donne di
spettacolo, politici e tutti coloro che vivono intorno al libro, cartaceo e
digitale. Eppure, i lettori e le lettrici diminuiscono, mentre questo evento è
in crescita. Ma è un’altra storia.
La mia amica Cristina mi indica Paola, la scrittrice che
siamo venute ad ascoltare con i nostri mariti afasici: eccola, la sento
un’amica, mi rivolgo a lei come farebbe una mamma, è così giovane, le do subito
del tu e ho voglia di accarezzarla. Lo faccio.
Ho letto il suo libro, nel quale racconta la sua vita dal
momento dell’ictus ischemico al momento in cui parte con il suo compagno per
l’Amazzonia: era un suo sogno, prima che una malattia l’ho trovata “distratta,
mi ha bussato alle spalle mentre ero sul trampolino della vita, proprio quando
credevo che il meglio dovesse ancora venire ed ero pronta a salpare con i miei
sogni”[1]
Non le chiedo l’autografo: so che la sua mano fatica a tenere
la penna in mano. So quanto ne soffra, lei che ha due lauree con il massimo dei
voti, un dottorato di ricerca e corsi e pubblicazioni.
Un diario. Senza date all’inizio del capitolo, un diario
scritto a ritroso, dopo diversi anni, quando è riuscita a trovare il modo di
scrivere, scritto dopo cinque anni, quando ha sentito di essere libera
dall’incubo di una recidiva, scritto sull’onda della memoria e degli appunti
che via via prendeva con l’aiuto della logopedista.
Un diario che racconta gli errori della nostra sanità, di cui
andavamo tanto orgogliosi. Gli errori sono evidenti: otto ore in attesa in
ospedale, dopo un ictus, vuol dire che sono morte milioni di cellule cerebrali.
A trent’anni. Se le ore di attesa sono dovute al fatto che chi l’ha accolta in
ospedale ha pensato fosse una tossica e successivamente una isterica e questo
accadeva nel 2017 nel Nord Italia, si può inorridire ed indignarsi. Il tempo è
prezioso in casi di infarto e ictus. Lo sanno tutti. Ecco credo che non ci sia
altro da aggiungere se non leggere la sua storia, nella quale, per fortuna
l’ironia salva lei e te che leggi e la sanità pubblica si salva grazie a chi
cerca di porre rimedio come il “fisioterrorista” (il fisioterapista che le
insegna nuovamente ad andare in bici, ma anche a lavarsi i capelli) e il
neurochirurgo che la opera, rischiando, dopo nove ore di attesa, ma salvandola.
E chi scrive è una caregiver da diciannove anni di un marito
che è stato lasciato solo in ospedale, senza assistenza, dopo un ictus avvenuto
all’alba, perché non era monitorato, non era in una stroke unit. A Torino non esistevano ancora le stroke
unit. Nella stanza dell’ospedale era accanto ad un uomo che viveva in stato
vegetativo, a seguito di un ictus, assistito notte e giorno, tranne nelle ore
dell’alba, quando si avviavano le pulizie del reparto e a nessuno era permesso
restare. Proprio quando Franco è caduto,
mentre si radeva la barba e nessuno se ne è accorto. Il suo telefono era muto,
il mio tentativo di entrare in contatto fallito, la mia richiesta di
informazioni prima dell’orario di visita in ospedale liquidato con: il paziente
del letto x sta bene. Sta bene? Cosa ho visto quando siamo arrivati nella
stanza dell’ospedale dove lo avevo ricoverato per proteggerlo? i nostri figli ed io? Non stava affatto bene
e nessuno se ne è accorto! Erano le 12.30 quando ci è stato permesso di entrare
nella stanza. Ma questa è un’altra storia, che forse un giorno racconterò.
Paola scrive perché scrivere è l’unico modo che conosce per
metabolizzare, “recuperare i pezzi, cercare di ricomporli, per poi voltare
pagina”[2]
Un diario che racconta come gli altri, i cosiddetti normali,
possono facilmente ferire, quando si lotta per tornare alla vita di tutti i
giorni.
Un diario che racconta la forza del gruppo, quello che un
gruppo può fare per aiutare, sostenere, motivare nel momento peggiore, quello
in cui proprio non sai se vivrai e come vivrai e allora gli amici, come un
branco di delfini, ti sostengono.
È molto emozionata, ci dice che ha timore di confondersi con
le parole, come succede a tutti gli afasici e che per lei la presentazione è
una prova faticosa, che ha dormito tanto la notte precedente per essere
riposata oggi e ci racconta come, anche se lei appare a noi con eloquio
fluente, ancora le capitano episodi spiacevoli, come poche sere prima a cena quando
ha chiesto al cameriere la pasta con il pesto di pidocchi. Abbiamo sorriso e
sull’onda di questo buon umore si è avviata verso il palco. Si siede davanti al
pubblico con la sua editrice e noto che il suo piede sinistro rimane per tutto
il tempo con la punta del piede appoggiata a terra, solo la punta, come una
ballerina. Nel libro parla di un dolore costante alla gamba, del suo alluce
impennato e delle sue dita accartocciate a griffe. e mi chiedo se quella
posizione da ballerina non sia un modo per tenere a bada il suo dolore o sia
solo un ulteriore modo per essere graziosa.
Ha i capelli corti, occhi chiari e luminosi, ma è tutta
luminosa, gioiosa, direi bella.
Prima dell’ictus, era già scrittrice di guide di viaggi, la sua passione, ma anche una assegnista universitaria, una biostatistica con diverse pubblicazioni.
Questo libro ha vinto il premio Pieve Saverio Tutino 2023.
Per chi di voi non conoscesse questo Premio, sappia che a Pieve (Toscana)
esiste un archivio di diari e ogni anno, a metà settembre, c’è la premiazione
per uno di questi.
La sua scrittura è fondamentalmente ironica, oltre che
precisa e chiara. Un grande dono quello dell’ironia, che non sempre viene
conservato dopo un evento traumatico e che occorre avere prima dell’ictus.
Ho scritto troppo: vorrei che tu leggessi questo libro.
Vorrei scrivere molto di più: ho preso appunti, ma mi
trattengo per non toglierti il gusto della lettura.
Ancora un assaggio della sua preziosa testimonianza per tutti
coloro che vivono ogni giorno le difficoltà conseguenti ad un ictus sia esso
ischemico o sia esso emorragico, per tutti noi caregiver, per gli amici che
fanno i delfini, per tutti coloro che ci incontrano nel loro cammino:
se dall’esterno sembri sana, per il resto del mondo tu lo sei
e si pretenderà che tu ti comporti di conseguenza[3]
Di questo libro mi piace molto il sottotitolo, di cui la storia che Paola narra, la sua, è esempio lampante.
Buona lettura.