“…con l’avanzare degli anni, era arrivata una sorta di poetica della
follia…un bisogno di riposare, guardando il mondo con occhi che non accusano,
occhi che dipingono”. Chandra Candiani
Mi piacciono i film di
Pedro Almodovar. Sono ricchi di umanità.
Sapevo di voler vedere il
suo ultimo film “La stanza accanto”, Leone d’oro al Festival di Venezia del
2024, nelle sale cinematografiche italiane dal 5.12
Mi sono recata a cinema da
sola, convinta che ne sarei uscita molto provata psicologicamente.
Invece no, caro lettore e
cara lettrice, non è andata affatto così, perché il regista ancora una volta è
riuscito nel suo intento: quello di trattare un tema comune a tutti noi, la
morte e il desiderio di morire con dignità, in un modo tale da lasciarmi dentro
la dolcezza, la gratitudine, la bellezza.
Ti può sembrare strano, lo
so bene.
Le parole di Chandra
Candiani mi pare siano adatte allo sguardo che la protagonista del film ha sul
mondo (occhi che dipingono), sul suo passato (occhi che non accusano).
La storia è ambientata
negli USA, a New York. Le protagoniste sono due donne, Martha e Ingrid,
magistralmente interpretate rispettivamente da Tilda Swinton e Julienne Moore.
Sono due vecchie amiche,
due donne in carriera: Martha è stata una reporter di guerra e Ingrid è una
scrittrice di successo.
Per le vicissitudini della
vita non si frequentavano da anni, finché un giorno Ingrid viene a sapere da
una comune amica che Martha è malata di cancro e ricoverata in ospedale.
Si ritrovano e non si
lasciano più. Ingrid, spaventata dalla morte che non accetta, oggetto del suo
ultimo libro, sceglierà di “prendere in mano la morte” quando Martha le
chiederà di accompagnarla nella casa dove deciderà di porre fine alla sua vita,
grazie ad un farmaco trovato nel dark web. Tutto illegale, ma, “non me ne andrò
in una umiliante agonia” dirà all’amica, non è il cancro che deciderà per me.
Per andarsene da questo
mondo deve allontanarsi dalla casa che è luogo della memoria, attraverso gli
oggetti, i libri, le fotografie, gli appunti.
Martha sceglie una casa
nel bosco, a Woodstock, un luogo incantevole, di una bellezza struggente. La
casa si affaccia nel bosco: silenzio interrotto solo dal cinguettare degli
uccelli.
Non mi sfugge che i luoghi
siano iconici di epoche storiche.
In quella casa Martha
lascerà sempre la porta aperta fino al giorno in cui deciderà di morire.
Nei dialoghi tra le due
amiche emergono i problemi della nostra età: l’entusiasmo degli anni giovanili,
il dramma del cambiamento climatico, della possibile fine della vita così come
la conosciamo noi, i difficili rapporti con la figlia a causa dei suoi continui
viaggi di lavoro, l’amore con il padre della figlia tornato cambiato dal
Vietnam, lei stessa che ha scelto di raccontare le guerre e le loro atrocità.
La cinepresa riprende il
viso emaciato di Martha e la bellezza del bosco: pare di sentirne il profumo.
E’ anche una storia di una
grande amicizia.
Commovente l’arrivo di
Michelle, la figlia di Martha. Identica alla madre non solo fisicamente, ma
anche nei gesti. Lei che ha ripudiato la mamma, si ritrova a scoprirla, ora che
non c’è più.
La vita è riconosciuta in
tutta la sua grandezza e bellezza, nei suoi drammi e fatiche, la vita torna,
appena morta Martha in Michelle. Vita e morte, inscindibili.
L’eutanasia interrompe una
sofferenza fisica, ma non lo scorrere della vita, che continua.
Posso solo ringraziare il
grande regista spagnolo e chiudere con la citazione da Gente di Dublino di
James Joyce:
“La neve cade sul cimitero solitario, cade lieve
nell’universo, e cade lieve su tutti i vivi e sui morti”.
che Martha recita durante
il film.
Fotografie e musiche
eccellenti, che restano nel tempo nella mente ad accompagnare con dolcezza una
verità: la realtà della morte e il bisogno di morire con dignità.
Temi umani e insieme
politici, affrontati con gentilezza.