Eccomi a scrivere Buon Anno ai miei lettori e alle mie
lettrici.
Ho letto libri e guardato film di cui vorrei scrivere, ma
come prima recensione del 2024 scelgo di raccontarti lo sguardo sul mondo che
sento universale, che auguro a tutti di avere o di scoprire. Komorebi. Leggi ancora perché lo spiego
tra qualche riga.
Premetto che ammiro il regista Wim Wenders. “Il cielo sopra
Berlino” e “Il Sale della terra” sono film indimenticabili per me.
La storia di “Perfect
days” si svolge a Tokyo: premetto che non conosco la capitale del Giappone e
i giapponesi se non per i reportage che ho letto. Io ho ammirato la calma che i
giapponesi hanno dimostrato durante e dopo il tragico terremoto del 2011 con le
conseguenze che tutti sappiamo e che riguardano l’umanità intera. Leggo dei
loro turni di lavoro massacranti, della forza che hanno dimostrato dopo la
tragedia della bomba atomica sulle loro isole, in altre parole ho di loro un’idea
eroica.
Il protagonista non è un eroe, un samurai, un monaco.
L’ultimo film del regista tedesco, un maestro del cinema, è
nato dopo aver visitato i nuovi bagni pubblici di Tokyo, realizzati da grandi
architetti, su invito di Takuma Takasaki dopo i vari lockdown.
E’ un film di sguardi.
Prima di ogni altro lo sguardo del protagonista sul mondo,
Hirayama: uno sguardo poetico. In aperto contrasto con il lavoro che svolge,
quello di pulire i bagni pubblici di Tokyo, lavoro che svolge con grande cura e
professionalità, un lavoro umile e che lo costringe a guardare in basso, ecco
che appena può alza lo sguardo e tutto lo incanta: la foglia,
l’ombra ,l’albero, il bambino, il vecchio, il passante. E’ la vita che scorre che
lo fa sorridere: coglie in tutto ciò che vede e che incontra la sacralità. Ed è
pronto a cogliere con la sua macchina fotografica analogica la luce che filtra
tra gli alberi, il contrasto tra le ombre e la luce.
In giapponese c’è una parola che rende tutto questo: Komorebi.
E’ un film di silenzi.
Lo spettatore segue la sua vita, la sua routine dal risveglio
al riposo notturno. Le parole sono poche, essenziali, indispensabili. I
dialoghi assenti, tranne pochi e significativi.
E’ un film di un non tempo: quello del suono musicale inciso
su un nastro, di libri cartacei e lampadine flebili, di macchine fotografiche
analogiche e stampe fotografiche, di telefoni fissi, di doccia nel bagno
pubblico. Un mondo sparito, che i giovani non conoscono. In questa storia
niente telefonini e display, tv o pc.
Non sappiamo nulla del protagonista, possiamo ipotizzare che
avrebbe potuto avere una vita lussuosa e che abbia scelto la solitudine e la
povertà come cifra dell’essenzialità.
Quando può, aiuta. Così aiuta il suo giovane collega, al
quale presta i suoi già pochi soldi, così aiuta un uomo malato di cancro al
quale regala un momento di gioco o sua
nipote, che accoglie ed ascolta.
La vita alla fine che cos’è? Una serie di rituali, di
abitudini: alzarsi, lavarsi, bere un caffè, innaffiare le piante, andare a
lavorare, mangiare, leggere, ascoltare la musica e dormire. Se in tutto questa
continua ripetizione ognuno di noi sapesse scorgere la magia, la luce, se
sapesse tendere la mano a chi incontra, la vita sarebbe perfetta.
L’attore protagonista, Yakusho Koji ha vinto la Palma d’oro
come miglior protagonista e il film è candidato all’Oscar per il Giappone, pur
essendo stato diretto da un regista tedesco.
La musica di sottofondo è “Perfect day” di Lou Reed,
alternata a brani dei Rolling Stones e di Patty Smith.
Lo consiglio, anche se so che è un film lento e silenzioso.
Proprio per questo. Durante il primo lockdown abbiamo appreso a rallentare e
abbiamo detto che dopo saremmo stati migliori. No, il mondo ha ripreso a
correre, gli uomini a fronteggiarsi in
conflitti antistorici, i capitalisti a sfruttare risorse, territori, uomini.
Non siamo migliori e non abbiamo imparato nulla.
Allora evviva la lentezza, il silenzio, almeno per due ore.
Che lo sguardo di
Yakusho Koji resti in te. Questo è il mio augurio. Buon 2024.
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