Cara lettrice, caro lettore oggi ti presento un saggio
storico di grande interesse e che sta riscuotendo un gran successo: proprio in
queste ore è nuovamente in ristampa, dopo solo tre settimane e mezzo, si
intitola “Un uomo di poche parole” di Carlo Greppi.
Io l’ho letto appena uscito in libreria e capisco
sinceramente il fatto che anche un saggio storico, normalmente per gli addetti
ai lavori o per gli appassionati di Storia, possa essere letto da molte
persone. Questo fatto ritengo sia un grande merito: avvicinare le persone alla Storia,
presentarla in modo narrativo, pur procedendo con la scrupolosità dell’investigazione
storica. A me questo libro ha permesso di conoscere colui che ha salvato la vita di un uomo che ho stimato
profondamente: quando morì lasciò in me un vuoto e un dolore, pur non avendo
mai avuto l’onore di conoscerlo personalmente, sto scrivendo di Primo Levi.
Credo che proprio a Lorenzo debba di essere vivo oggi” (P. Levi)
Molti, sopravvissuti e tornati dai lager nazisti, scrissero,
molti testimoniarono, di alcuni lessi e leggo le autobiografie, ma, Primo Levi
ha avuto il grande merito di descrivere scientificamente ciò che accadeva in
quell’inferno che fu Auschiwtz.
Lo storico Carlo Greppi in questo libro dà voce ad un uomo
semplice, Lorenzo Perrone (o Perone in alcuni documenti) nato a Fossano in
Piemonte nel 1904, “un uomo di poche parole”, collerico, amante del vino e
delle risse, tanto che il suo soprannome era “il Tacca”.
La storia di Lorenzo si interseca con quella di Primo Levi nell’estate
del 1944, nel campo di concentramento di Monowitz, uno dei campi di Auschwitz.
Il noto scrittore italiano fu deportato, in quanto ebreo, nel
febbraio del 1944(l’inverno del 1943-44 fu il più freddo del secolo, con
temperature a venti e trenta gradi sotto zero): del suo viaggio, della sua
prigionia e delle condizioni di vita degli Hᾃftlinge sappiamo molto grazie
alla lucida e pacata[1]
testimonianza scritta nel suo capolavoro “Se questo è un uomo” e nei
successivi libri “La tregua” e “Sommersi e salvati”.
Della vita di Lorenzo si sapeva poco prima del presente
saggio, solo quello che Primo Levi scrisse di lui nei suoi libri, nella
ricostruzione della biografa di Primo Levi, oltre ad una tesi di laurea inedita.
Lorenzo fu un lavoratore semianalfabeta, che camminò lungo i
sentieri dei contrabbandieri per recarsi in Francia a lavorare. Nel 1940, dopo
l’invasione della Francia da parte dell'esercito tedesco , venne fatto prigioniero e venne
liberato solo al momento della resa dei francesi. Rientrato in Italia fu
assunto come operaio dalla ditta Beotti che, come molte altre aziende italiane,
stipulò contratti bilaterali con la Germania per impiegare nel Terzo Reich i
propri lavoratori. La Beotti stipulò accordi con la Farben e Lorenzo venne mandato
a lavorare ad Auschwitz nel 1942.[2]
Dopo l’8 settembre del 1943 le condizioni di quei lavoratori italiani cambiarono,
perché da lavoratori liberi divennero lavoratori coatti e di conseguenza
peggiorò il loro trattamento ma questo non impedì a Lorenzo di conservare la
sua umanità.
La storia di Primo e Lorenzo è una strana storia di amicizia:
prima di tutto perché nasce nel luogo dove tutti erano nemici gli uni degli
altri, nel luogo dove ognuno doveva cercare di sopravvivere alla fame, al
freddo, alla fatica, alle punizioni, alle selezioni. Proprio in questo inferno
Lorenzo, conosciuto Levi che era stato incaricato di aiutarlo, decise, a costo
della sua stessa vita, di aiutarlo portandogli regolarmente la gavetta piena di zuppa. Lorenzo ogni giorno rubò del cibo dalle cucine
per darlo al giovane e denutrito chimico torinese, che a sua volta condivideva
tutto con il suo inseparabile amico Alberto. Successivamente il muratore di
Fossano decise di scrivere alla famiglia Levi, cosa altrettanto proibita ed
infine gli diede la sua maglia rattoppata per aiutarlo a sopravvivere al
freddissimo inverno polacco.
“Grazie a Lorenzo mi è accaduto di
non dimenticare di essere io stesso un uomo” (P. Levi)
L’ultima zuppa che consegnò era piena di terra: Lorenzo era
caduto a terra a causa di una bomba che gli aveva perforato un timpano, ma, lo
stesso aveva consegnato la zuppa a Levi e lo aveva salutato. I Russi erano
vicini e Perrone si mise in cammino e camminò per 1412 km lungo la ferrovia,
impiegando circa quattro mesi.
Primo Levi appena tornò a casa, dopo essersi ripreso, cercò
il “meraviglioso” Lorenzo. Da quel momento i ruoli si invertirono. Il muratore
fossanese non riprese a lavorare come muratore, insofferente agli ordini iniziò
una vita di sregolatezza. Al contrario l’intellettuale torinese riprese a
vivere: trovò un lavoro, si sposò ed ebbe due figli che chiamò non a caso, Lisa
Lorenza e Renzo Levi.
Il chimico torinese cercò di aiutare Lorenzo in ogni modo,
cercandogli lavoro, pregandolo di curarsi, ma probabilmente Lorenzo non resse
ai ricordi di quegli anni orribili e morì nel 1952 tisico e alcolizzato.
Due uomini molto diversi, tanto taciturno uno quanto loquace
l’altro, tanto ebbro il fossanese quanto lucido il torinese, tanto impegnato a
testimoniare l’orrore per non dimenticare Levi, quanto impegnato a dimenticare
nell’alcool Perrone. Lorenzo morì troppo presto come molti sopravvissuti ai
Lager, come se anche lui fosse stato deportato e condannato all’annientamento.
Nel 1998 Perrone è stato inserito tra i Giusti delle Nazioni,
perché “chi salva una vita salva il mondo”. Un uomo buono, un uomo che ha
saputo scegliere, non riconosciuto dai suoi concittadini che di lui vedevano
solo l’aspetto trasandato.
Il giovane storico mi
interroga sul tema della scelta, già presente in altri suoi saggi, come ad
esempio nel libro “Uomini in grigio”. Il saggio è anche un viaggio tra i
giusti, concetto che dal 2017 comprende tutti coloro che combattono contro i
totalitarismi, contro i crimini contro l’umanità.
Ti consiglio vivamente di leggere questo saggio.
[1] …questo
mio libro…..potrà fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti
dell’animo umano. P. Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino,1991, pag.9
[2] Lorenzo
lavorò alla Buna, la fabbrica di gomma sintetica, dove fu mandato a faticare
anche P. Levi, che scrive: “La Buna è grande come una città; vi lavorano, oltre
ai dirigenti e ai tecnici tedeschi, quarantamila stranieri e vi si parlano
quindici o venti linguaggi. Tutti gli
stranieri abitano in vari Lager, che alla Buna fanno corona: il Lager dei
prigionieri di guerra inglese, il lager delle donne ucraine, il Lager dei
francesi volontari…noi siamo gli schivi degli schiavi, a cui tutto possono
comandare… Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, pag. 65
Sentito martedì scorso Carlo Greppi alla presentazione del suo libro a Il ponte sulla Dora. Sono rimasto colpito dalla sua grande umanità nel raccontare di Lorenzo e altri, oltre che dalla sua grande competenza.
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