L’ultimo libro di Jonathan
Franzen viene reputato dai critici letterari come il migliore dei suoi romanzi.
Personalmente io sono stata rapita
dalla narrazione e dal narratore, dalla sua bravura nell’indagare e descrivere
l’ambivalenza dei sentimenti umani, dalla capacità di spogliare le persone, di
mostrarle fragili e vulnerabili come sono veramente al di là dei ruoli e delle maschere
sociali.
Franzen definisce il suo romanzo come storico. In
effetti è ambientato in una località fittizia all’inizio degli anni ’70 e i
temi corali emergono non solo trattando della guerra del Vietnam dal punto di
vista dei pacifisti, dei problemi sociali e politici dei nativi americani, ma
anche dei contrasti generazionali, tipici di quegli anni, dell’irrompere della
droga e dell’alcool nella vita della gioventù americana, dei rapporti con l’autorità
che perde autorevolezza agli occhi dei giovani e tra le autorità primeggia Dio,
la ricerca da parte di tutti i personaggi del romanzo di una fede diversa da
quella ortodossa.
L’autore definisce il suo un romanzo
realistico nel quale racconta i dubbi, le domande, i rimorsi, le speranze di
persone comuni.
Si tratta infatti della storia
della famiglia Hildebrabdt, formata dal padre Russ, ministro di culto della First
Reformed, dalla moglie Marion e dai loro quattro figli.
La storia inizia nei giorni
che precedono le feste natalizie ed è interessante che la vita di tutti e sei i
componenti della famiglia cambi radicalmente a causa degli avvenimenti che
accadono nella stessa serata.
Non sono gli avvenimenti in sé
e per sé che mi hanno incollata al libro per ore e ore, bensì la rara capacità
di comprendere profondamente i dissidi interiori, i conflitti sui comportamenti
ritenuti “buoni” o “cattivi”, sul male che si agisce e si subisce, sulle fragilità psichiche che fanno fare ciò
che non si vorrebbe, sulla cattiveria che nasce da quella fragilità, sull’angoscia
che porta all’ossessione e sull’ossessione che porta alla follia.
Il capitolo migliore per me è
proprio quello dedicato a Marion, straordinaria figura di donna che,
innamoratasi perdutamente di un uomo sposato, rifiutata da lui quando lei sa di
aspettare un bambino, impazzisce e sperimenta le cure psichiatriche di quegli
anni. Dichiarata guarita e ritornata alla vita, diventa vittima di una fede
superstiziosa, fin quando non incontra Russ, un giovane bello e puro, di
famiglia di religione mennonita, al quale non racconta il suo passato. Lui per
lei rinuncia alla sua famiglia: insieme iniziano una vita che perde via via la
giosità iniziale e si riduce in una quotidianità nella quale Marion inizia a
eccedere con il cibo fino a diventare sgradevole agli occhi del marito,
invisibile nella sua mammità.
Sono stata rapita dalla
capacità di raccontare il “cratere” che una persona fragile psicologicamente
sente avvicinarsi e cerca disperatamente di evitare in tutti i modi.
Marion è il punto dei
riferimento dei figli e del marito, ma l’indifferenza del marito verso di lei
le riporta a galla i suoi sensi di colpa, il rimorso per il non detto, per il
suo passato.
Il cuore del romanzo per me è
la capacità di descrivere le relazioni tossiche tra le persone della stesso
nucleo familiare fino alla follia del figlio Perry, che genera un nuovo ordine
all’interno della famiglia.
L’autore ha previsto una
trilogia, per cui aspetto con molto interesse il seguito.
Mi chiedo quanto sia adatto un
romanzo di 640 pagine ai lettori di oggi. Siamo tutti abituati a letture di
pochi minuti, siano gli articoli di un quotidiano on line, i post dei nostri
amici, i messaggi su wattsapp.
Eppure caro lettore, cara
lettrice, perdersi in una storia per ore e ore, perdere il senso del tuo tempo,
dei tuoi problemi, interrogarsi insieme ai protagonisti sulla fede, sul male,
sulla follia, sulla fedeltà, sul coraggio, insomma su temi universali è possibile solo con opere come
queste, che ti aiutano a comprendere meglio te stesso e gli altri. Un capolavoro.
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