Ci
siamo conosciute grazie ad un progetto della Fondazione Carlo Molo e della
Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino dal titolo, “Vie d’Uscita”.
Lei
giovane, alta, bruna, occhi spalancati sul mondo, io una senior, una
caregiver, bassa, con chioma argentata e
occhi disincantati dalla vita.
Quando
si presenta, lei tirocinante presso la Fondazione Sandretto, racconta che
lavora nel campo della ristorazione e deve concordare i permessi per poter
partecipare ai nostri incontri, siano essi in presenza oppure on line, come a
volte, causa pandemia, si decide di realizzarli.
Il progetto Vie d’Uscita è un
percorso di arte e movimento dedicato a persone con afasia e ai loro caregiver, nato in risposta al distanziamento sociale e dai
luoghi della cultura.
A settembre
del 2020 in Italia ci è sembrato di essere quasi fuori dal tunnel: molti
italiani avevano effettuato la doppia dose di vaccino, casi di contagio risultavano pochi, le
giornate erano ancora tiepide, tutto fece sperare nella fine del distanziamento
sociale e abbiamo deciso di ritrovarci in Fondazione, di uscire dai video
asettici e inodori, piatti e freddi. E’ durata poco questa pausa di normalità, stiamo vivendo la
quarta ondata del virus e ovviamente, come da progetto, ci incontriamo virtualmente.
Martina,
come ho scritto sopra, concilia il
lavoro con lo studio, come molti giovani prima di lei e molti contemporanei a
lei. Non è questo che mi ha incuriosito di più, bensì la lontananza del mondo
lavorativo che frequenta dalla sua formazione e dall’attività che svolge con
noi.
Cosa fa una creativa dietro un grembiule in un
fast food? Intorno a tavoli apparecchiati? I suoi strumenti dovrebbero essere i
colori, le tele, i pennelli, gli spray, la carta.
Le
chiedo una intervista.
Per te
lettore e lettrice del mio blog e chissà, per un progetto che ho in mente.
(leggi a tal proposito nel blog Dalle borse ai Balcani)
In
questo mondo stravolto dalla pandemia, dove hanno diviso i lavoratori tra utili
e non utili, dove tutti gli operatori della cultura sono stati sacrificati in
nome dell’utilità, che appartiene solo a poche categorie nell’emergenza,
cancellando improvvisamente anni e anni di lento disintossicamento dall’idea
che chi scrive, legge, dipinge, recita, suona o canta, organizza eventi svolga
attività di svago ( ricorderai sicuramente l’infelice frase “non si mangia con
la cultura” di un ex ministro delle Finanze italiano) in questo mondo utilitaristico
cosa potrebbe fare una giovane che ama l’arte, che vorrebbe lavorare come
artista? Che vorrebbe mangiare con la cultura?
Martina
mi racconta degli anni della formazione, prima il Liceo Artistico, frequentato
a Torino, vicino al Parco della Colletta, poi l’Accademia delle Belle Arti di
Torino, dove si è laureata in “Comunicazione e Valorizzazione del patrimonio
artistico contemporaneo” con una tesi sperimentale sul mondo della disabilità “Pittura
e musica. Discipline integrate nella relazione terapeutica”, collocando con
competenza il suo interesse verso l’Arte intesa come terapia, l’arte come aiuto.
La mia
giovane intervistata mi racconta che da piccola disegnava sempre, quando non
correva nei prati con gli amici o non restava con il papà nell’autofficina.
Infanzia magica la sua, almeno rispetto a molti suoi coetanei, costretti per
lunghissime giornate a vivere tra le quattro mura domestiche, in una strada di
cemento e metallo. Lei ha vissuto e vive nelle Valli di Lanzo e da piccola ha
avuto il tempo per giocare, per cercare ciò che le piaceva, che la faceva stare
bene. Non ha giocato per ore alla PlayStation o non ha visto mille cartoni
animati: ha disegnato per ore ed ore ed il disegno le faceva compagnia e la
arricchiva. Quei disegni, insieme alla musica, erano i suoi amici, i suoi
compagni di giochi.
Infanzia
fortunata la sua, perché se i genitori sapessero quanto bene possa fare l’ozio,
non trascinerebbero i loro figli in corse disumane tra un corso e un altro,
alla ricerca di un talento che ognuno deve saper trovare prima di tutto dentro
di sé.
Martina
ha trovato in quei lunghi pomeriggi il suo talento e lo ha saputo coltivare,
sostenuta sapientemente dai suoi genitori che le hanno sempre detto che la
strada che stava percorrendo sarebbe stata difficile, ma non per questo l’hanno
mai scoraggiata.
Questa
giovane donna, dalla testa scolpita, dopo aver conseguito la laurea magistrale
riportando il massimo dei voti, si iscrive alla formazione triennale come
arteterapeuta clinica a Milano, presso Lyceum, dove sta per terminare il percorso.
Fin da
giovanissima ha collegato l’arte all’aiuto, comprendendo la potenza del gesto
artistico come liberatorio e mezzo per una migliore e immediata conoscenza di
sé, nelle attività di volontariato nel campo musicale e artistico (Artissima,
Torino Jazz festival ) e con utenza disabile, in particolare e per più
annualità, presso la Cooperativa Sociale CLGEnsemble di Dario Bruna, il suo mentore.
Essere
un’arteterapeuta clinica in Italia non è cosa facile. Mancano i fondi per
questi progetti e soprattutto manca la cultura, manca la conoscenza del bene
che l’arte può fare.
Ecco
che un lavoro con un contratto di apprendistato nella ristorazione le permette
di essere autonoma e di aspettare di aver terminato il percorso triennale per
provare a progettare l’attività per la quale ha studiato.
Subito
dopo la laurea magistrale ha inoltrato e continua ad inoltrare domande di
assunzione ad Enti Culturali e Cooperative sociali, ma la sua presenza viene
richiesta solo in forma di volontariato.
Il
volontariato e il lavoro, retribuito, dovrebbero essere ambiti distinti dalla
legge e dal buon senso. Invece ai giovani si offre tutto, purché non siano
pagati. Molti accettano, sperando che, stage dopo stage, qualche datore di
lavoro apprezzi buona volontà e
capacità.
Proprio
oggi piangiamo la morte di un giovanissimo, Lorenzo Parella, che era al suo
ultimo giorno di alternanza studio/lavoro, altro modo per sfruttare i giovani e
rubargli ore di studio prezioso. C’è un tempo per studiare e uno per lavorare.
Non era uno stage, come alcuni scrivono. Non posso tacere questo fatto
gravissimo, che avviene in un momento in cui si succedono i morti sul lavoro, per mancanza di sicurezza.
Martina nell’azienda che l’ha assunta ha trovato
riconoscimenti e incentivi: è grata che le permettano di assentarsi per continuare gli
studi.
A lei,
però, piace dipingere, restaurare mobili, creare diari di immagini (potete ammirare una sua pagina di diario realizzata con pennarelli, acqua e Pantoni) fotografare
, andare in moto e ricercare musica.
Mi piace
ascoltare la sua disposizione alla gratitudine: cosa rara nei nostri tormentati
tempi. La immagino colorare di giallo e di arancione.
I
pomeriggi alternativi che l’arricchiscono sono quelli che trascorre con la sua
Professoressa di Modellato del Liceo, a bere un caffè in Piazza Castello e a
mostrarle i suoi progetti artistici. Ogni loro incontro è ricco di riflessioni e
spunti: “Mi arricchisce parlare con lei, torno a casa ricca di stimoli
creativi”.
Le
chiedo cosa avesse trovato proprio in questa insegnante: “E’stata un’insegnante
diversa. Non si limitava a insegnare la sua materia, ma ci spronava a
progettare ed a cogliere le occasioni al di fuori dell’ambito scolastico, quali
mostre, progetti, cinema ed a utilizzare l’ingegno e la creatività nella vita
di tutti i giorni”.
Finestre
sul mondo e su se stessi che vengono aperte e che continueranno ad essere
aperte, se Martina potrà lavorare come arte terapeuta clinica, come sogna,
aiutando gli altri a stare meglio e questo è proprio molto utile direi.
L’arte
terapia è prevenzione e cura: questo deve essere compreso.
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