Cara lettrice e caro lettore,
è da qualche settimana che sono silenziosa. Mi sono
interrogata su come sia cambiato il contenuto del mio blog in questo primo anno
pandemico rispetto agli anni precedenti e su cosa scrivere adesso.
Tutto cambia, tutto è cambiato e ovviamente anche ciò che
ho scritto è molto diverso. Non sento più l’urgenza di raccontarti delle mie
letture o dei film che scelgo di guardare, perché non lo sento più così
importante. Non ti racconto più della vita culturale torinese o nazionale, non perché
non esista più: per fortuna esiste, in altra forma, senza l’applauso del
pubblico, sopravvive su zoom, su face book.
Ho provato a raccontarti come io ho provato a superare i
primi mesi primaverili in cui siamo stati confinati in una stanza. Ti è
piaciuto.
Ho poi provato a tornare alla normalità, mentre si tornava
alla normale vita di tutti i giorni, si incontravano parenti ed amici, era
estate, eravamo tutti sempre all’aria aperta, con meno timori e così sono
tornata ad intervistare persone speciali per me e ho scritto anche una recensione.
Poi i contagi sono aumentati, seconda ondata, le ore di
caldo e di luce sono man mano diminuite, anche le finestre aperte o gli
incontri all’aperto, (noi in Piemonte oggi celebriamo la zona gialla, dopo che
per mesi siamo stati rossi o arancioni), ed io sono tornata silenziosa e
appartata.
Ognuno sa come
vivere questi momenti.
Ora si sta profilando la terza ondata. Si aprono le
attività, si richiudono, si inseguono i numeri dei contagiati e dei primi
vaccinati, speranze e delusioni per chi lavora e per chi non lavora.
La nostra condizione, con le dovute differenze, richiama
alla mente quella di colui che viene privato della libertà. La nostra da un “coso”
come continuo a chiamarlo io.
Alcuni vivono questa
privazione perché devono espiare colpe commesse, altri non sanno neanche perché
vengono condannati ad una vita da reclusi (errori giudiziari), altri ancora
pagano perché sognano la democrazia in luoghi dove non regna, altri ancora
pagano perché richiedenti asilo in paesi che non li vogliono e chissà quanti casi non ho menzionato ed
esistono.
La salute e la libertà: sono beni essenziali, come il pane
e l’acqua. Corpo e mente. Corpo e anima. Neanche gli scienziati temono più la
parola anima.
Le differenze tra questi casi e noi,
come puoi vedere sono enormi, infatti io scrivo che la nostra condizione richiama alla mente, ma non è minimamente paragonabile alle sofferenze di altri esseri umani.
Sia chiaro, so che il distanziamento sociale e le
protezioni sono per ora l’unico mezzo per diminuire i contagi. So che tutto
questo è necessario.
Dentro di me torna sempre la stessa domanda: io che cosa ho
fatto per migliorare questo mondo? Qual è il mio contributo?
La mia risposta è sempre la stessa, scrivere, diffondere,
far conoscere realtà diverse, riflettere, migliorare, aiutare.
Ecco che mi è stata offerta da Pietro Tartamella ( di cui
ho già scritto nel blog) un’occasione d’oro per essere utile, per contribuire a
conoscere questo mondo, ed è il progetto “Chi ha varcato al soglia”. Un’iniziativa
di Cascina Macondo, con il contributo dell’Unione Buddistha Italiana e del
centro Hokuzenko di Torino.
Ogni settimana pubblicherò una testimonianza.
TESTIMONIANZA N°1
UNA NUOVA VERITÀ
di Alice Montalto -
studentessa
Una manciata di momenti compone la mia esperienza di
volontariato in carcere: è cominciata per caso, grazie all'invito di un
professore, finendo, poi, per intrecciarsi con il mio percorso di crescita
quale silenzioso specchio di emozioni, paure, speranze.
La prima volta che ho varcato la porta del carcere, stupita dall'incessante
propagarsi di rumori (assurdo paradosso, se contrapposto alla posizione isolata
dell'edificio, raggiungibile solo dopo un tortuoso percorso collinare), portavo
con me la ferma convinzione di essere in grado di reggere all'emozione del momento,
grazie al solo strumento culturale. La mia non era una visione idealizzata o
contornata di dettagli inventati: al contrario, forte della consapevolezza
della realtà con la quale mi sarei confrontata, sentivo al contempo di poterla
padroneggiare e modellare, usando la sola parola. Ho subìto un processo di
costante e realistico ridimensionamento dei miei ideali, alla luce di una nuova
verità che si è affacciata ai miei occhi, a mano a mano che l'esperienza di
volontariato progrediva.
L'eterogeneità intrinseca a questi momenti di incontro - eterogeneità di
posizione, di pensiero, ma anche, più semplicemente, di composizione dei gruppi
di detenuti interessati ai seminari letterari - mi ha insegnato che, al
di là di un possibile cambiamento radicale che un processo di insegnamento
vorrebbe comportare, esistono schemi di ragionamento e di riflessione che è
possibile cogliere solo in siffatti contesti. Così, non esiste un seminario
andato bene o uno deludente, come non esiste una lezione più o meno coinvolgente:
la discussione prende innumerevoli ed inaspettate direzioni, non prevedibili
secondo un ordinario schema dialogico.
La letteratura, l'arte, la filosofia si infrangono contro svariate situazioni
di vita quotidiana, che nascono ora dal ricordo, ora da una riflessione
estemporanea. La partecipazione, quindi, si misura non solo in base
all'attinenza del dibattito rispetto al tema proposto, ma anche in relazione
alla ricca tessitura di domande talora provocatorie, ma sempre ansiose di
rapportare quanto appreso alla personale ed attuale realtà.
Partecipando ai seminari, sia come uditrice che come relatrice, ho colto tra il
pubblico di detenuti un profondo desiderio di riappropriazione di una
contemporaneità - politica, sociale, familiare - distante ed evanescente, tanto
sul piano geografico, quanto su quello intellettuale.
Il volontariato in carcere, una volta intrapreso il percorso (e ci tengo a
specificare, ancora una volta, che il mio è veramente solo all'inizio), diviene
parte della crescita personale, agendo tanto sul detenuto, quanto sul
volontario: ciascun incontro diviene banco di prova nel quale misurare le
proprie emozioni e, in parte, la propria maturità.
Sto lavorando molto, per esempio, con alcuni limiti che mi caratterizzano: la
situazione che si crea durante il piccolo seminario mi ha posto di fronte a
sensazioni di claustrofobia, abbandono, isolamento, che ho avvertito rivestendo
il ruolo di uditore.
Durante l'esposizione curata come relatrice, infatti, mi sono proiettata nella
sola dimensione dell'insegnamento, senza prestare attenzione al luogo fisico e
mentale con il quale mi stavo confrontando. Divenire parte del pubblico,
invece, ed ascoltare a mia volta una lezione è, paradossalmente, un esercizio
più complesso: l'attenzione e le emozioni si confrontano con l'ambiente
circostante, che emerge in tutti i suoi particolari. È stato allora, proprio
mentre cercavo con la mente di fare mie le parole del relatore, che il mio
sguardo ha incontrato le sbarre alle finestre, la condizione dei detenuti, l'isolamento
dell'edificio. Ho raccolto queste sensazioni, mentre uscivo dall'aula prima del
termine della lezione, in cerca di una boccata d'aria e di una prospettiva più
ampia.
Ripenso molto spesso a quest'esperienza, della quale ho parlato anche con altri
membri del progetto: proiettandomi in un percorso di crescita, vorrei riuscire
a valorizzare la dimensione del carcere in tutte le possibilità che offre ad un
volontario, senza per questo nascondere le fragilità che mi caratterizzano come
persona e che possono emergere e ridimensionarsi proprio attraverso il
confronto con l'altro.
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