martedì 19 marzo 2019

BABY BLUES






Anni fa, forse un paio, partecipai alla presentazione del libro Baby Blues (After Birth)di Elisa Albert presso la libreria del mio quartiere,  la libreria Thérese.
Il tema intorno al quale si dipanava la storia della protagonista, Ari, era il parto di suo figlio, Walker.
Non ricordavo romanzi che trattassero tale tema, non ne avevo letti, a parte “Lettere ad un bambino mai nato” di Oriana Fallaci, che più che di un parto tratta di un aborto.
Parlare del parto è sempre stato difficile: c’è chi racconta di aver partorito al volo, minimizzando, chi racconta di aver sofferto molto, chi tace per non spaventare altre giovani donne. Per lo più non se ne parla. Sembra quasi di cattivo gusto parlarne, sembra quasi che non sei coraggiosa se racconti di aver sofferto, sembra quasi che non capisci quanto tu sia fortunata ad essere madre di figli/figlie sane, insomma, si tace. Pudore, vergogna, chissà.
Ovviamente ci sono moltissimi manuali che insegnano a partorire con dolcezza, nell’acqua: che insegnano a respirare, a prendersi cura del neonato e via così.
Nonostante io abbia partorito circa 36 anni fa la prima volta, non nascondo che provai curiosità insieme a rifiuto per il modo con cui Elisa Albert presentava la sua storia, in modo apparentemente cinico, concentrandosi sul corpo della donna.
Ricordo però che allora, 36 anni fa, pensai che se a partorire fossero stati gli uomini, avrebbero fatto di tutto per lenire il dolore e ne avrebbero parlato molto, troppo, come fanno per lo sport e per la politica.  A noi donne, invece, ancora negli anni ‘80 veniva ricordato dalle ostetriche: “partorirai con dolore”, “ti sei divertita…” (non tutte per fortuna). L’ho sentito con le mie orecchie, purtroppo.
Ogni volta che acquistavo un romanzo, ricordavo che avrei voluto/dovuto leggere quel libro, quello in cui si parlava di donne e di figli in modo meno stereotipato, anzi per nulla stereotipato. Volevo sapere cosa Albert avesse scritto del parto. Io 36 anni fa avrei voluto scrivere del parto di mio figlio.
Poi sono diventata nonna e ho rivissuto il parto, il mio parto, attraverso quello di mia nuora, ovviamente diverso.
 Sono riuscita a superare il disagio, a comprare il romando di Albert e a leggerlo e ora te lo racconto in breve, perché credo proprio che donna o uomo che tu sia, sia un libro da leggere, nonostante non sempre apprezzi la spregiudicatezza del linguaggio dell’autrice.
Al centro della storia c’è la sofferenza di Ari, che arriva da lontano, dal corpo della nonna, violato e abusato dai nazisti, dal corpo della mamma, nata grazie ad un farmaco che la porterà giovane alla morte per cancro e che l’accompagna come un incubo durante la sua vita di giovane madre. La sua sofferenza, che diventa depressione è legata al parto che l’ha sconvolta: si sente violata, tagliata, cambiata. Nulla nella sua vita è più come prima e in questo ogni donna si può riconoscere: la nascita di un figlio è innegabilmente un cambiamento radicale della vita di una donna.
Per Ari però il nodo è il parto, la violenza del cesareo sul suo corpo, essere stata aperta a metà per estrarre il figlio: il problema non è il figlio  che ama, che cresce, che allatta con amore.
In psicologia si parla del “trauma della nascita”, ma si dovrebbe iniziare a trattare  il tema del “trauma del parto”, quello che a volte procura depressione a tante donne o altre patologie psichiatriche, sicuramente sofferenza e fatica.
Molti studi scientifici hanno dimostrato come il rapporto madre-figlio/a inizi in modo diverso a seconda del modo in cui avviene il parto. Importante scriverne in modo letterario e non relegare questo evento centrale nella vita di chiunque  alle riviste scientifiche oppure ai manuali.
Nel romanzo ci sono altri tabù che vengono sdoganati, la retorica del femminismo e delle amicizie femminili, ma è soprattutto quella lente di ingrandimento sulla fatica di sopravvivere da sole al parto e ai primi mesi di vita di un figlio che merita la lettura del libro. Perché ha avuto il coraggio di scriverlo.

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