Anni fa, forse un paio, partecipai alla presentazione del
libro Baby Blues (After Birth)di Elisa Albert presso la
libreria del mio quartiere, la libreria
Thérese.
Il tema intorno al quale si dipanava la storia della
protagonista, Ari, era il parto di suo figlio, Walker.
Non ricordavo romanzi che trattassero tale tema, non ne avevo
letti, a parte “Lettere ad un bambino mai
nato” di Oriana Fallaci, che più che di un parto tratta di un aborto.
Parlare del parto è sempre stato difficile: c’è chi racconta
di aver partorito al volo, minimizzando, chi racconta di aver sofferto molto,
chi tace per non spaventare altre giovani donne. Per lo più non se ne parla.
Sembra quasi di cattivo gusto parlarne, sembra quasi che non sei coraggiosa se
racconti di aver sofferto, sembra quasi che non capisci quanto tu sia fortunata
ad essere madre di figli/figlie sane, insomma, si tace. Pudore, vergogna,
chissà.
Ovviamente ci sono moltissimi manuali che insegnano a
partorire con dolcezza, nell’acqua: che insegnano a respirare, a prendersi cura
del neonato e via così.
Nonostante io abbia partorito circa 36 anni fa la prima
volta, non nascondo che provai curiosità insieme a rifiuto per il modo con cui
Elisa Albert presentava la sua storia, in modo apparentemente cinico,
concentrandosi sul corpo della donna.
Ricordo però che allora, 36 anni fa, pensai che se a
partorire fossero stati gli uomini, avrebbero fatto di tutto per lenire il
dolore e ne avrebbero parlato molto, troppo, come fanno per lo sport e per la
politica. A noi donne, invece, ancora
negli anni ‘80 veniva ricordato dalle ostetriche: “partorirai con dolore”, “ti
sei divertita…” (non tutte per fortuna). L’ho sentito con le mie orecchie,
purtroppo.
Ogni volta che acquistavo un romanzo, ricordavo che avrei
voluto/dovuto leggere quel libro, quello in cui si parlava di donne e di figli
in modo meno stereotipato, anzi per nulla stereotipato. Volevo sapere cosa
Albert avesse scritto del parto. Io 36 anni fa avrei voluto scrivere del parto
di mio figlio.
Poi sono diventata nonna e ho rivissuto il parto, il mio
parto, attraverso quello di mia nuora, ovviamente diverso.
Sono riuscita a
superare il disagio, a comprare il romando di Albert e a leggerlo e ora te lo
racconto in breve, perché credo proprio che donna o uomo che tu sia, sia un
libro da leggere, nonostante non sempre apprezzi la spregiudicatezza del
linguaggio dell’autrice.
Al centro della storia c’è la sofferenza di Ari, che arriva
da lontano, dal corpo della nonna, violato e abusato dai nazisti, dal corpo
della mamma, nata grazie ad un farmaco che la porterà giovane alla morte per
cancro e che l’accompagna come un incubo durante la sua vita di giovane madre. La
sua sofferenza, che diventa depressione è legata al parto che l’ha sconvolta:
si sente violata, tagliata, cambiata. Nulla nella sua vita è più come prima e
in questo ogni donna si può riconoscere: la nascita di un figlio è
innegabilmente un cambiamento radicale della vita di una donna.
Per Ari però il nodo è il parto, la violenza del cesareo sul
suo corpo, essere stata aperta a metà per estrarre il figlio: il problema non è
il figlio che ama, che cresce, che allatta
con amore.
In psicologia si parla del “trauma della nascita”, ma si dovrebbe
iniziare a trattare il tema del “trauma
del parto”, quello che a volte procura depressione a tante donne o altre
patologie psichiatriche, sicuramente sofferenza e fatica.
Molti studi scientifici hanno dimostrato come il rapporto
madre-figlio/a inizi in modo diverso a seconda del modo in cui avviene il
parto. Importante scriverne in modo letterario e non relegare questo evento
centrale nella vita di chiunque alle
riviste scientifiche oppure ai manuali.
Nel romanzo ci sono altri tabù che vengono sdoganati, la
retorica del femminismo e delle amicizie femminili, ma è soprattutto quella
lente di ingrandimento sulla fatica di sopravvivere da sole al parto e ai primi
mesi di vita di un figlio che merita la lettura del libro. Perché ha avuto il
coraggio di scriverlo.
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