Oggi: camminare
Ho un appuntamento importante.
Devo scegliere gli abiti giusti, giusti per diverse
temperature.
Sono emozionata.
Cerco colori vivaci per la t-shirt, forse è preferibile che
io scelga quella del gruppo. È arancione. Guanti e cappello: è primavera, ma
potrebbe fare freddo salendo oltre i 1000 mt. Un cambio se sudo o mi bagno.
Borraccia e alimenti da condividere. Un guscio in caso di pioggia. Non manca nulla. Le scarpe,
quelle sono fondamentali. Sono sempre
emozionata quando la sera preparo lo zaino per i miei trekking, lunghi o corti.
Il mio zaino è bellissimo: arancione con le bandiere nepalesi e lo straccio
della pace di Emergency.
Ho un appuntamento importante: incontrerò il bosco, con i
suoi suoni, il ruscello scorrerà per una parte del sentiero, accompagnandomi
con il suo fragore, il suo scorrere potente in questi magici giorni di
ricchezza di acque dopo anni di rivi vuoti, torrenti secchi, fiumi ridotti a ruscelli.
L'acqua scorre ovunque, lavando la terra e anche me stessa,
la mia anima assetata di spazi aperti, di incontri, di bellezza. La bellezza
dei fiori che incontro nel mio andare i cui colori sono sempre diversi, sempre
unici pur tornando ad essere in forme riconoscibili: le azalee, le camelie, i
bucaneve, le violette, i rododendri. Gli incontri sono improvvisi e casuali:
scorgere il Monviso in lontananza e rimanere sempre incantata. Incontrare un
ramarro baby, come direbbero i miei nipoti. Contemplarlo. Incontrare un abitante
di luoghi abbandonati che taglia la legna e ci chiede di camminare piano. Su questo
punto posso tranquillizzarlo: io non corro. Non ho il fiato necessario per
correre o camminare velocemente. Ho
occhi per ciò che mi avvolge, corteccia, scorci, pietre, alberi, ho orecchie
per chi cammina vicino a me, per le sue storie di vita che vuole condividere. Ho
pensieri ed emozioni da condividere con chi vuole ascoltarmi. E tutto questo mi
fa ancora più rallentare. Vorrei rimanere a lungo in luoghi lontani dalla città,
dalla sua aria malata, dalla sua gente perennemente nervosa.
La città fa male!
Eppure, non riesco a liberarmi da questo guscio maleodorante.
Offre qualcosa che il bosco non può dare. Sarà vero o è solo la mia supponenza,
quella di un essere umano che crede di essere un miscuglio di natura e cultura,
di essere di più delle altre creature viventi. Sicuramente abbiamo costruito
ponti, acquedotti, cattedrali, strade, migliaia milioni di strade per raggiungerci
e unirci, porti per accogliere, case per riparare dal vento e dalla pioggia. Abbiamo
disegnato, dipinto, scavato il marmo, intagliato il legno, lavorato i metalli.
Abbiamo aggiunto bellezza a quella che già c'era ed era ed è gratuita. Senza distruggere
avremmo potuto godere della bellezza naturale. La fatica potevamo concentrarla nel
cercare cibo e nel crescere la prole. Come l'uomo primitivo. Ma l'uomo sapiens
ha un desiderio insaziabile di costruire, inventare, studiare. A volte, troppe
volte ha una terribile pulsione a distruggere.
Ieri. Una vita da seduta.
Ho trascorso una vita da seduta.
Il lavoro sedentario, gli anni di studio e di corsi di
formazione: tutta la mia vita ha ruotato intorno alle mie scrivanie.
La mia scrivania è stata sempre disordinatissima: normalmente
ci sono appoggiati tanti libri in ordine sparso, quelli appena letti e che
vorrei recensire, quelli da leggere, bloc notes, diari, pagamenti, giornali,
tanti articoli di giornale, e da anni troneggia nel centro della scrivania il
pc con al suo interno una mole di file di cui non ricordo l’esistenza.
Le mie sedie non sono mai state comode, ho sempre sofferto di
mal di schiena, di dolori alla cervicale, per cui da anni sono seduta sulle
ginocchia di una sedia ergonomica con la quale dondolo mentre scrivo.
Ho iniziato a camminare come tutti, come quasi tutti, intorno
ai dodici mesi, anche se non avendo più i miei genitori non saprei a chi
chiederlo.
Mia madre era molto apprensiva, forse meglio era molto
ansiosa, meglio era terrorizzata che una figlia potesse farsi male, per cui
scelse di stare tranquilla facendomi stare ferma.
Non ho mai trascorso un’estate in campagna o in montagna, non
mi sono mai sporcata con la terra, mai arrampicata sugli alberi, cosa che ho
sempre desiderato: la mia famiglia trascorreva le vacanze al mare ed io con
loro. Al mare si intende, ovviamente, comoda sotto l’ombrellone e seduta su una
sedia a sdraio. Qualche bagno, dopo tre ore dai pasti, dopo essere stata sotto
l’ombrellone, vicino alla riva. Non proprio una vita avventurosa.
Ho camminato da innamorata, con il naso all’insù, per le
meravigliose Ville romane.
Ricordo il verde intenso dei pini marittimi che si stagliavano
nel blu del cielo romano.
Poi mi sono seduta alla scrivania di un ufficio ed infine mi
sono seduta alla cattedra di una scuola al mattino e alla scrivania nel
pomeriggio per la correzione dei compiti dei miei allievi o la preparazione
delle lezioni, dei vari materiali didattici che devi modificare continuamente
in funzione dei tuoi studenti.
E la domenica? Né i miei genitori, né i miei amici, né mio
marito, insomma nessuno mi ha mai proposto di alzarmi presto e andare a
camminare. Ho continuato a fare ciò che facevo in settimana: occuparmi della
famiglia, leggere, scrivere, correggere, programmare, cucinare, incontrare
amici sedentari. Io stessa non ho mai pensato di invertire la routine, se non raramente,
camminando per la collina torinese.
I miei sessant’anni mi hanno regalato nuove esperienze:
insegnare yoga, curare un blog, intervistando quasi io fossi una vera
giornalista, pubblicare un libro, che
emozione! e camminare.
Ho iniziato a camminare a sessantasette anni.
Ora che il mio mondo si è spostato fuori casa, la mia
scrivania rimane per giorni coperta da fogli e giornali: non ho voglia
di sedermi, di incollarmi alla sedia, di riflettere, analizzare, scrivere,
appuntare, cercare, consultare, incrociare, riassumere, leggere. Se potessi
fare tutto questo camminando, allora avrei ancora voglia di farlo. Diversamente
ho trascorso troppo tempo in questa posizione statica e innaturale, l’unica
nella quale svolgevo attività nelle quali mi sentivo realizzata: quando ti
piace studiare, quando provi soddisfazione ad imparare ogni giorno qualcosa di
nuovo, non ti accorgi di invecchiare studiando, scrivendo e leggendo.
Ho deciso all’improvviso che avevo bisogno di camminare: la
foresta di Camaldoli è stato il luogo dove ho sentito sorgere in me in modo
prepotente questo bisogno ancestrale o semplicemente ho sentito di essere
natura nella Natura. Mi era successo di percepire questa comunione o, meglio,
questa fusione con la Natura in alcuni luoghi: momenti di vita subito relegati
a ricordo, a sogno, a rifugio nei momenti difficili dell’esistenza.
Camminare è lentezza. Camminare è riappropriarsi del
territorio, sentirsi parte di quel terreno che tocchi con la suola: morbido
come il tuo piede se ci sono foglie del bosco o aghi di pino, duro come la
suola dei tuoi scarponi se sei sull’asfalto, umido e scivoloso se scorrono
ruscelli, secco e polveroso se non piove da tempo, mobile se ci sono sassi e
devi cercare il tuo equilibrio.
Camminare da sola o in compagnia, nei boschi, in campagna, in
montagna, mi allontana da tutto ciò che torna prepotente quando mi inginocchio
sulla mia sedia ergonomica. Le guerre, la crisi climatica, la lontananza dai
nipotini e da un figlio, la quotidiana tragedia dei migranti e delle loro
sofferenze, il lavoro che manca e che a volte uccide, le autocrazie, le
malattie dei miei amici, dei miei parenti, dei miei vicini di casa, tutto
questo si appanna mentre cammino.
Si appannano anche i miei occhi per le gocce di sudore che
colano dalla fronte, perché per me camminare è faticoso. Sicuramente perché ho
iniziato a sessantasette anni.
Camminare per stare in silenzio e ascoltare gli uccelli
cantare, odorare e percepire gli odori della terra, guardare e incantarsi per
lo sbocciare dei fiori e per i colori della primavera o dell’autunno.
Camminare per sentire viva la pelle del viso accarezzata dal
vento, camminare per sentire i piedi e le gambe dolenti, camminare e sentire il
mio fiatone, il cuore battere forte e sapere che, se cammino ancora un poco
quel fiatone diminuirà, avere sessantotto anni e saperlo eppure sentirmi più
giovane perché in questo preciso momento il mio corpo sta camminando ed è una
magia, una grande magia: tutto funziona per permettermi questo grande dono,
questo stare e andare contemporaneamente.
Camminare per conoscere e conoscermi.
3. Camminare: i passi solidali
Camminare è faticoso. Per me che ho iniziato a sessantasette
anni, tutte le volte che decido di partecipare ad un trekking provo a superare
le mie difficoltà e così, seppure con qualche timore, preparo con emozione il
mio zaino e parto.
Per me tutti i sentieri sono terre inesplorate e alla sfida
fisica si sommano la curiosità e la meraviglia.
Spesso cammino in gruppo, cosa che mi permette di conoscere
splendide persone, le loro storie personali, le loro escursioni, i loro
trekking. Però sono l’ultima del gruppo, perché la meno allenata, la più lenta
e la più affaticata, quella che in salita non parla per risparmiare fiato e le
salite sono il sale delle camminate escursionistiche, quindi mi perdo, con mio
dispiacere, le conversazioni o le informazioni della guida, di cui io sono
ghiotta.
Poi c’è la discesa e quello è il mio momento: il battito
cardiaco rallenta, il respiro torna normale, camminare torna ad essere un
piacere e posso ascoltare i miei compagni di viaggio e a mia volta parlare.
Così nuovamente rallento, perché spesso le storie che
condividiamo sono così ricche da richiedere la giusta attenzione.
Tutto questo potrebbe già essere sufficiente per continuare a
camminare, ma c’è molto di più.
Il mio è un gruppo speciale: speciale è la guida che mi ha accolto la prima volta senza preoccuparsi della mia inesperienza e della mia età. No, in realtà l’età non conta, se alle spalle hai sempre camminato, arrampicato e vissuto una vita attiva da un punto di vista sportivo. Nel mio gruppo ci sono delle ottantenni che ammiro profondamente. Come ho detto non è il mio caso: zero allentamenti pregressi ed esperienze sportive. Potermi misurare, scoprire di riuscire a percorrere dai dieci ai venti km al giorno, per diversi giorni, mi ha reso una donna felice. Speciale è il mio gruppo: ogni volta che camminiamo i nostri passi hanno il sapore della solidarietà. Non camminiamo solo per la nostra salute, per conoscere il territorio, per immergerci nella bellezza ma anche per contribuire ai progetti di Emergency. Ogni volta raccogliamo denaro per progetti specifici a sostegno del gruppo di coraggiosi che, trent’anni fa decisero di costruire ospedali in luoghi dove le guerre colpivano e colpiscono civili innocenti. Gino Strada, chirurgo di guerra e Teresa Sarti, docente di storia, Graziella Sacchetti, ginecologa e Franco Casella, avvocato hanno progettato e realizzato un sogno: “non esistono scommesse impossibili”.
Gino, anima del gruppo, è deceduto tre anni fa e la sua voce
a perenne sostegno della pace e contro la stupidità delle guerre, manca
terribilmente in questi mesi di follia, di riarmo e di ultimatum.
Ogni volta che partecipo ad una uscita con il mio gruppo di
camminatori guidati da Peppe so che contribuisco ad aiutare persone in
gravissime difficoltà, che esse siano in Afghanistan, in Sudan, Eritrea,
Uganda, Sierra Leone o che siano naufraghi, sulla Life Support. Grazie ad
Emergency sono state curate 13 milioni di persone nel mondo.
13.000.000.
Gratis.
Grazie. 13milioni di volte grazie.
Grazie ai volontari e ai sostenitori. Anche tu puoi diventare
un o una sostenitrice. E perché no, un volontario/a.
Passi solidali.