Per
gli odiati e i perseguitati, il rovescio dell’amore è un senso di perdita
insopportabile [1]
Mi accingo a recensire
sommariamente, mancandomi il testo e avendo solo degli appunti, un libro che
ritengo fondamentale come lo furono “I miserabili” di Victor Hugo “La capanna
dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, “Le mie prigioni” di Silvio Pellico,
“Se questo è un uomo” di Primo Levi, “Il cacciatori di Aquiloni” di Kaled
Hosseini, “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan, per denunciare la
condizione dei poveri, dei patrioti, dei neri, degli ebrei, degli afghani,
degli armeni. Potrei citarne ancora, ma non voglio annoiarti, lettore e
lettrice ritrovati.
Sono libri che, attraverso
la narrazione, in alcuni di questi autobiografica e in altri romanzata,
avvicinano il lettore alla Storia. Quella peggiore. Quella della sopraffazione
e dei genocidi. Quella delle guerre. I libri da elencare sarebbero molti di
più, perché purtroppo l’uomo è ancora “quello della clava” come scrisse il
grande Quasimodo. Il mio unico intento nel breve elenco è evocativo, spiegarti
perché scrivo di questo libro e perché lo ritengo fondamentale, da leggere
subito, mentre i carri armati stanno entrando a Gaza, colpendo ancora una volta
una popolazione senza vie d’uscita. Tutto sotto gli occhi del mondo, violando
ogni legge umana e internazionale, quelle internazionali faticosamente redatte
dopo il 1945. Tutto cancellato. E noi qui a cercare notizie, a cercare di fare
qualcosa. Ma cosa? I medici e gli infermieri italiani ieri hanno digiunato per
Gaza, per dare un segnale da parte di una categoria professionale fondamentale
e bersagliata dagli israeliani. Stanno per partire, è questione di poche ore,
moltissime barche dall’Italia, dalla Spagna, dalla Tunisia alla volta di Gaza
con cibo. Il cibo per i palestinesi affamati c’è, fuori da Gaza e viene
regolarmente bloccato dai soldati israeliani. Questi volontari, che navigheranno
alla volta di Gaza, sono dei coraggiosi, a cui va tutto il mio ringraziamento.
È di pochi giorni fa la
notizia che le autorità religiose della Chiesa cattolica presente a Gaza hanno
dichiarato che non ubbidiranno all’ordine di evacuazione per rimanere accanto
ai palestinesi.
Aspettiamo.
Non accusatemi di essere
razzista e antisemita. Ho trascorso la mia vita professionale a spiegare ai
miei allievi la Storia, a leggere documenti, a vedere documentari, ad ascoltare
i sopravvissuti alla Shoa o ai campi di concentramento in qualità di partigiani
non ebrei.
Ho ripetuto tante volte ai
miei allievi: Mai più. Studiamo affinché l’orrore non succeda mai più.
Che scoramento scoprire che
tutto si ripete, che gli uomini sono dei gamberi, che la diplomazia ha fallito,
che i nazionalisti sono tornati in auge, che l’Europa è muta, che noi siamo tutti
attoniti e impotenti, come allora.
In questi ultimi anni ho
osservato, letto e confrontato reportage, video, filmati, dati. Le due
controparti ci manipolano, alterano i dati, raccontano falsità, ma le riprese
dall’alto, le testimonianze dirette, la ricostruzione storica dagli anni 40
dell’altro secolo ad oggi è purtroppo chiara. E gli storici che denunciano
questo orrore sono sia israeliani che palestinesi.
Torno al libro in oggetto.
L’autrice del libro è Susan
Abulhawa. Nata da una famiglia palestinese in fuga dopo la guerra dei 6 gg.
Ha vissuto in un
orfanotrofio di Gerusalemme
Si è trasferita negli Usa,
laureata in scienze biomediche, ha una brillante carriera. Vive in
Pennsylvania.
In questo libro racconta la
storia di una famiglia palestinese lungo un periodo di circa sessanta anni.
Inizia da quando la Palestina era ancora amministrata dagli inglesi negli anni ‘40
fino al 2002, quando la protagonista del romanzo muore uccisa da un cecchino
israeliano nel campo profughi di Jenin.
Una storia circolare: inizia
a Jenin nel 2002 mentre un soldato preme la bocca del fucile contro la fronte
di Amal e i ricordi riaffiorano tutti insieme.
Il romanzo termina con la morte di Amal e il ritrovamento di Yussuf,
fratello di Amal, che aveva tenuto fede all’amore come principio di vita e non
aveva compiuto l’atto terroristico che tutti credevano avesse compiuto.
La storia inizia in un
paesino ‘Ain Hod, ad est di Haifa, dove la gente viveva tranquilla,
raccogliendo fichi e olive, con le frontiere aperte e il sole.
Una storia circolare, che
inizia con l’amicizia di Ari, figlio di un professore universitario tedesco
fuggito dal nazismo e stabilitosi a Gerusalemme e di Hassan, figlio maggiore di
due palestinesi proprietari di uliveti e che finisce con l’amicizia tra la
figlia americana di Amal, il cugino ebreo e il figlio dell’amica palestinese di
Amal. Una americana, un ebreo e un palestinese.
È possibile. È auspicabile.[2]
La storia di una famiglia
che è storia di un popolo, anzi di due, anzi di tutti noi.
Che stridore tra la
descrizione dei profumi della terra, della semplicità della vita di persone
dedite alla raccolta delle ulive, dell’uva, dei fichi, del cavalcare liberi,
dell’andare a Gerusalemme a vendere i frutti della loro terra, dell’amicizia
tra ragazzi ebrei e palestinesi e l’avanzare degli ebrei, delle bombe, delle
minacce, dell’esproprio delle terre, della confusione ( gli ordini urlati, prendete
le vostre cose di valore, per poco tempo dovrete spostarvi, lasciate qui le
vostre cose, andatevene) fino alla vita nel campo profughi di Jenin nel 1948
lasciando per sempre ‘Ain Hod. Donne impazzite dal dolore per il rapimento di
un figlio che tenevano in braccio nella fuga precipitosa, per la morte del
marito amato, per il ritorno del figlio torturato e umiliato dal fratello rapito e diventato israeliano. Ad ogni attacco
morti e feriti, case distrutte, smarrimento e disperazione. La tenue speranza
che il mondo intervenga.
Gli esuli ebrei, che furono perseguitati
e annientati in Europa, agiscono nello stesso modo dei loro aguzzini con i
palestinesi, che non hanno alcuna colpa della loro persecuzione.[3]
Gli sfollati palestinesi aspettano
a Jenin, leggono le notizie e si rianimano quando scoprono che il mediatore
svedese Conte Folke Bernadotte afferma:
“Sarebbe un’offesa ai
principi elementari della giustizia se a queste innocenti vittime del conflitto
fosse negato il diritto di tornare alle loro case, mentre gli immigrati ebrei
continuano a entrare in Palestina e pongono la minaccia di una sostituzione
permanente dei profughi arabi che sono radicati in queste terre da secoli”
Tutti credono che sia giunta
l'ora di tornare a casa, ma pochi giorni dopo il mediatore svedese fu
assassinato da terroristi ebrei. La famiglia di Amal non tornò mai più nel
villaggio, tranne Yehya, il patriarca, che un giorno decise di tornare a
prendere le sue olive, la sua uva, i suoi fichi. E morì. Fu allora che capirono
che non sarebbero mai più tornati alle loro case.
“Perché un uomo non poteva
camminare sulla sua proprietà, andare alla tomba di sua moglie, mangiare i
frutti del lavoro di 40 generazioni di antenati senza pagare con la vita? Per
qualche motivo quella brutale domanda non era ancora stata introiettata dai
profughi, che invece si erano smarriti nella vasta eternità dell'attesa,
aggrappandosi ad astratte risoluzioni internazionali, alla sopportazione e alla
resistenza. Ma quella somma fondamentale della loro condizione affiorò in
superficie quando calarono il corpo di Yehya nel terreno e la notte non portò
ristoro”[4].
Il Conte Bernadotte è noto
per aver negoziato e ottenuto la liberazione di 31.000 prigionieri dai campi di
concentramento tedeschi durante la Seconda guerra mondiale, tra cui molti
ebrei. Fu ucciso da un gruppo sionista di estrema destra, la banda Stern.
Il libro è un intreccio di
amore e morte. Uno stillicidio, una evacuazione dopo l’altra, espropri,
arresti, torture. Le lacrime scendono copiose sulle vite offese e perse, sui
carnefici che un giorno furono vittime, su una terra coperta di sangue che in
questi ultimi due anni sta annegando nel sangue.
Ciò che sta accadendo, è già
accaduto.
Come può una parte del mondo
abbandonare il mondo?
Come può l'umidità lasciare
l'acqua? Ciò che ti ferisce ti santifica
Le tenebre sono la tua
candela
i tuoi limiti, la tua ricerca.
Potrei spiegarlo ma
romperebbe la copertura di vetro sul tuo cuore
E sarebbe irreparabile
Ti bastano queste parole, o
devo stillare altro succo da tutto questo
Rumi[5]
“Mio fratello era un ragazzo
che camminava per le colline di Tulkarem e beveva dalle sorgenti di Qalqiliya.
Giocava a calcio con lo slancio della gioventù sulle pianure di Haifa e si
nutriva dal petto di una stirpe antica nella terra dei suoi progenitori.
Giocavamo a backgammon lui e io. il suo sorriso ha sciolto molti cuori
mediterranei. A dire il vero, era il sorriso più bello che io abbia mai visto.
Mio fratello è stato ripudiato, incarcerato, torturato, umiliato ed esiliato
perché voleva vivere la sua vita e d'ereditare il patrimonio lasciatogli dalla
storia. aveva dato il suo cuore a una sola donna il suo dolore per lei ha fatto
tremare la terra e versato il sangue di quanti ci si trovavano” [6]
Amal era stata convinta a credere che suo
fratello fosse stato il kamikaze dell’attentato all’ambasciata USA. Invece
Yussef non ha ceduto all’odio “terrò fede alla mia umanità. e l’amore non mi
sarà mai strappato dalle vene.[7]
Questo la storia contenuta
nel libro.
Concludo affermando che è difficile
poter parlare ancora di amore. La barbarie di questi ultimi anni ha distrutto
ciò che faticosamente l’umanità ha costruito in questi ultimi 80 anni.
Impossibile parlare ancora di due Stati: quanto odio è stato istillato nei
cuori? Il 7 ottobre 2023, che viene rivendicato come la causa di tutto, purtroppo
è stata la causa scatenante, il casus belli, ma non certo la prima e l’unica
ragione. Non cito qui le dichiarazioni di ministri israeliani riguardanti i
palestinesi, per non a mia volta aiutare chi odia a odiare di più. Soffro per
gli ostaggi israeliani, che nulla possono di questa barbarie, per i loro
parenti, soffro per le famiglie sterminate di palestinesi, per chi ora, in
questo momento non sa come sopravvivere.
Cosa posso fare io per salvare
almeno una vita?
Chi salva una vita, salva il
mondo. Per me questa è l’unica legge esistente.
[1] Ogni
mattina a Jenin, pag. 340
[2] Se non
hai letto Apereigon, te lo consiglio vivamente.
[3] Una
mattina a Jenin, pag. 39 “Irgun, Haganah e gruppo Stern. Gli inglesi li
chiamavano terroristi. Gli arabi li chiamavano ebrei, sionisti. La nuova
popolazione ebraica li chiamava combattenti per la libertà, soldati di Dio,
salvatori, padri, fratelli. Erano armati fino ai denti, ben organizzati e ben
addestrati. Volevano sbarazzarsi della popolazione non ebraica.”
[4] Ogni
mattina a Jenin, pag. 66
[5] Pag. 132
[6] Idem, pag. 286
[7] Idem, pag. 379