Scuola di sopravvivenza

 





Sono una mamma.
Sono una nonna.
Sono una docente in pensione, che ha trascorso anni e anni a lavorare sul territorio italiano, precisamente a Torino. Insomma, un curriculum abbastanza ricco da permettermi di affrontare questo argomento.
Anzi, a te, lettore o lettrice ritrovato/a, dico: scrivi pure cosa ne pensi.

La precisazione geografica non è casuale, e fra poco capirai perché.

Sono stata una decina di giorni a Zurigo, a trovare mio figlio Stefano e i suoi figli. Negli anni scorsi i miei nipoti frequentavano il Kindergarten — la loro scuola materna — e prima ancora il nido. Ormai ero abituata all’idea che le maestre svizzere facessero uscire i bambini con qualsiasi tempo, neve, pioggia, vento, trombe d’aria, purché vestiti come piccoli astronauti.
Devo ammetterlo: apprezzavo questa filosofia del “un po’ di freddo non ha mai ucciso nessuno”, anche se noi mediterranei preferiamo la luce del sole ai venti del Baltico.

Dal 18 agosto — sì, proprio il 18 agosto, data in cui in Italia non si lavora nemmeno per sbaglio — mia nipote Camilla ha iniziato la Primarschule, la scuola elementare.
Fin qui, tutto normale.
Peccato che fino a due settimane fa io non sapessi il dettaglio più importante: mia nipote frequenta una scuola di sopravvivenza, e nessuno me l’aveva detto.

A Zurigo la scuola non la scegli: è lei che sceglie te, in base alla residenza. Tipo Hogwarts, ma senza Gufo. La logica è: la scuola deve essere così vicina che il bambino possa andarci da solo.
Io, italiana di formazione e di spirito, ho sgranato gli occhi: bambini di sei anni che vagano soli per strada?
Ma la realtà è che lì lo fanno tutti. Ho visto anche bimbi più piccoli andare e tornare da scuola, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Io, ogni volta, già pronta a chiamare “Chi l’ha visto?”, loro tranquillissimi.

Ma torniamo alla scuola di sopravvivenza.
Una volta a settimana c’è nuoto. Fin qui, fantastico. Camilla nuota da quando è nata, quindi nessun problema.
O meglio: il problema non è l’acqua.
È l’asciugatura.

Hanno pochissimo tempo per asciugarsi e vestirsi. Camilla ha i capelli lunghi — come molte bambine. Risultato: non riesce ad asciugarli. E le maestre, con semplicità alpina, propongono la soluzione definitiva:
“Metti un berretto di lana”.
Geniale: abbiamo inventato il phon, ma per quale motivo usarlo?

E mi chiedo:
se la scuola prevede il nuoto… prevederà anche l’asciugatura?
A quanto pare no. Efficienza svizzera: mezz’ora di sport, zero minuti per non prendere l’otite.

Però la scuola è bellissima: ping-pong, biliardini, open space per giocare, una mensa luminosa, un giardino con campi da calcio e basket, e infine la piscina.
Un paradiso, davvero.
Se non fosse per i dettagli… “sportivi”.

Perché non c’è solo il giorno della piscina.
C’è il giorno del bosco.

Zurigo è piena di colline, boschi, sentieri. Portarci i bambini è un’idea meravigliosa: imparare dalla natura, nella natura. La scuola che avrei sempre voluto per i miei studenti.
Ma…
In Svizzera si va nel bosco sempre. Con ogni meteo.
Pioggia? Si va.
Neve? Si va.
Grandine? Si va.
Bufera? Pure.

E questa volta l’ho visto con i miei occhi.
Lunedì 17 novembre: pioggia ininterrotta, costante, fredda.
Quando vado a prendere Camilla, rimango senza parole. Aveva indosso i vestiti asciutti che le avevamo dato, ma il resto — piumino, giacca, scarpe — era da strizzare. Le mutande e tutto il resto nel sacchetto… idem.
E così tutti i bambini.
Io non sapevo come portarla a casa: serviva una centrifuga industriale.

E allora la domanda mi è sorta spontanea:
qual è il senso educativo del passare ore fradici sotto l’acqua?
Temprare lo spirito?
Fare selezione naturale?
O verificare chi si prende 40 di febbre?

Forse è per questo che ora Camilla vorrebbe uscire in maniche corte d’inverno.
D’altronde, dopo un lunedì nel bosco svizzero, qualsiasi clima italiano sembra caraibico.

Naturalmente, anche il lunedì successivo — con temperature più basse e identica pioggia — ci sono tornati. Camilla entusiasta, come puoi immaginare.
Io le ho insegnato tecniche per andare in bagno senza togliere gli abiti impermeabili, l’abbiamo imbottita con più strati possibili, e ho atteso la fine dell’ennesima prova di resistenza.

E credi che finisca qui?
Ma no: durante l’intervallo devono stare fuori. Sempre. Non possono rientrare.
Io mi chiedo: vanno tutti i giorni a scuola con pantaloni impermeabili?
Ovviamente no.
E le bambine, giustamente, non vogliono indossare i sovra pantaloni che infagottano.
Risultato: si bagnano. Rimangono bagnate. Fine.

E ora dimmi: cosa succederebbe in una scuola italiana se le maestre proponessero anche solo una di queste attività?
Telegiornali. Avvocati. Assemblee infuocate. Petizioni online. Chat impazzite. Titoloni sui quotidiani. Dibattiti in ogni programma televisivo.

Eppure, sia chiaro: l’idea è bellissima. Educare nella natura, alla libertà, all’autonomia.
Ma — piccolissimo dettaglio — con saggezza.
Magari evitando che i bambini tornino a casa come spugne.

E penso a quando io, docente di lettere, provavo — con sincero entusiasmo pedagogico — a educare i miei studenti alla libertà.
Mi sarebbe bastato portarli nel giardino della scuola: non un trekking, non un’escursione di sopravvivenza, semplicemente osservare gli alberi, leggere, respirare un po’ di aria.
Ma no: mancava l’assicurazione per la docente di lettere, che deve stare in classe.
La mia missione educativa finiva davanti a una zolla d’erba.
E io, che volevo liberare menti e immaginazione, mi ritrovavo trattata come un possibile pericolo pubblico.

E penso a quando volevo che fossero liberi di andare in biblioteca, il tempio del sapere.
Niente: c’erano le scale.
E parliamo di ragazzi dagli 11 ai 14 anni. Ragazzini che prendono autobus, usano smartphone, sopravvivono a videogiochi in cui devono scappare da zombie, rimangono a casa da soli, si occupano di fratelli o sorelle più piccoli.
Secondo la burocrazia italiana non erano in grado di affrontare una rampa di gradini senza rischiare il collasso dell’istituto.
E io avrei rischiato la sospensione come se li avessi portati a scalare il Cervino. È vero. Fu scritta una circolare proprio per evitare che io inviassi ragazzi in biblioteca. Pare un assurdo. Lo so.

La frustrazione era immensa: come si fa a insegnare la libertà quando non ti è permesso nemmeno attraversare un corridoio?

E allora sì: sono felice che mia nipote viva autonomia e natura.
Ma allo stesso tempo mi rammarico che né l’istituzione italiana né quella svizzera conoscano la famosa, mitologica, via di mezzo.
Quella che i latini citavano di continuo e i buddisti praticano da millenni, ma che nessuno — proprio nessuno — sembra voler applicare non solo nella scuola. Ahimè.

 

Commenti

  1. Cara Roberta, molto divertente. Capisco sempre di più la grande differenza tra noi e i nostri cugini oltre Alpi. Già frequentando I miei amici tedeschi molte differenze le avevo viste, ma non avrei pensato a una scuola che ti lascia i bambini bagnati. Dall'altra parte la tua preside è stata super esagerata. Servirebbe una via di mezzo.

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